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Quante volte, come Yokabe, cedi al buio perché nessuno sa amarti in quell’abisso?

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Paola Belletti - pubblicato il 02/04/19
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Il terzo capitolo di una trilogia di racconti a firma di Giorgio Ponte, Yokabe, è per me un matrimonio riuscito tra talento e verità. Ecco quel che si dice uno scrittore cristiano.Il titolo di questa piccola opera bruciante di Giorgio Ponte è Yokabe. Sotto il Cielo della Palestina, 3 uscito per StreetLib nel 2018. Certo, tre perché si tratta del terzo volume di una trilogia. Questo capitolo, però, è nato per primo, anni fa; me lo raccontava via messanger Giorgio, autore ancora emergente, ma solo per via della miopia della distribuzione. La sua scrittura, la capacità di costruire personaggi convincenti e veri, anche il mestiere che gli permette di armeggiare materiali delicati, a volte esplosivi (l’animo umano, l’oppressione sociale, le pulsioni, le ferite nelle relazioni,..), dichiarano a chiare lettere una sua raggiunta solidità artistica (e umana).

Sono tre ed è bello tenerli imbastiti insieme, ma potete cominciare dal terzo, come ho fatto io. Vi avverto: sarà un libro che avrete fretta e timore di finire perché la tensione, i colpi di scena, il travaglio che desidererete partorisca, finalmente, dopo tanto dolore e tante spinte, un uomo nuovo, ve lo faranno vivere dall’interno. Come dall’interno di voi stessi, oserei dire.

E’ una narrazione a sfioro, che si affaccia proprio dal bordo stesso degli occhi della protagonista, con la quale, uomini e donne, sono imperiosamente spinti ad identificarsi.


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Ha un aspetto quasi cinematografico, questo romanzo breve (ma che basterebbe per un paio di stagioni di una serie tv). Vedrete la polvere, sentirete il caldo, sarete abbacinati dalla luce mediorientale che picchia sui veli delle donne, la terra e i dorsi degli asini; mi è parso di odorare gelsomini e sentire sui piedi l’acqua che tracima dal secchio che si rovescia al pozzo, quando lei incontra un uomo che la condurrà al suo destino.

Non so quanto spoilerarvi della storia perché una cosa che ho visto essere stata chiara a tanti da subito – magari hanno fatto finta! (mi sono spulciata un po’ di recensioni e commenti in merito) per me è stata una sorpresa tale da ripercuotersi sulla frequenza cardiaca.

Yokabe è una bambina ebrea, vessata dalla madre che non esprime una crudeltà gratuita, ma interpreta in modo greve il copione che la società, la Legge, le hanno dato in mano. La femminilità e la bellezza che comunque prorompono in lei, la sestogenita, arrivata da genitori quasi anziani, trovano nello sguardo buono e largo del padre una promessa che lo sposo, Johanna, a suo modo proverà a compiere; dapprima naturalmente e di slancio, dopo come un martirio. Fa tutto ciò che come uomo, forse anche come “uomo giusto” nel senso ebraico del termine, riesce a fare.

Mentre lei, Yokabe, arriva a rendersi così poco amabile, perché troppo poco amata, soprattutto da sé stessa. Così tanto da sfidare addirittura da invocare l’odio degli altri su di sé; e lo farà ad oltranza perché quel male, quello spreco di sé, tutto è meglio che resistere nella quieta disperazione, dentro quell’amore grande eppure del tutto insufficiente che non la cura, non la risana, non la pacifica!

No, non le basta la bontà del marito; lo vuole provare al fuoco, fino a consumare anche lui, stanco di giorni e obbedienza,  rendendosi sempre meno degna d’amore; non le può bastare il suo abbraccio forte, ma non mai abbastanza per placare il suo dibattersi di bestiolina terrorizzata.

Ho collocato solo geograficamente la vicenda eppure forse già avrete inteso il tempo nel quale si svolge. E’ “il tempo”. Quello in cui tutto si compie. Il momento della storia che compie la storia. La polvere che sollevano i suoi sandali è la stessa che sporca i piedi del Nazareno.

Ma come arriva così vicino a lui? Come si ritrova occhi negli occhi con lui?

Jeshua chi è? E contano davvero gli incontri con quell’uomo? O conta solo quello sguardo?

Una storia di vero perdono, di conversione totale, di rinascita dal basso; Yokabe è una Nicodemo diurna, senza il pudore dei benpensanti; una donna spogliata che si lascia partorire di nuovo alla vita da Lui. Ad una vita che aveva smesso di credere possibile.

Seguiranno ancora giorni e normalità, dopo l’incontro; fatiche, insulti, incomprensioni: forse lei e lui resteranno ancora a lungo sotto altri sguardi torvi, stolidi e insistenti. Ma nessuno dei due potrà mai più fare a meno di attingere a Quello sguardo.

Che la storia di Cristo finisca male e poi Bene lo sappiamo tutti eppure questo non toglie sorpresa alla trama perché la sorpresa è in profondità. E scoprirlo così vividamente dentro la storia di una persona vera al punto che potremmo essere noi, beh signori miei, è proprio un’altra cosa.

Vi accompagnerà in questa scoperta una scrittura pulita e ricca, affilata e nuda. Uno sguardo anch’esso guarito da un incontro, quello di Giorgio con l’unico Salvatore, contemporaneo a lui proprio come a Yokabe.

Giorgio, che si era presentato già al grande pubblico con un successo editoriale di tutt’altro genere (Io sto con Marta,edito da Mondadori) rivela una varietà di registri notevole e sa giocare con maestria su tutti quelli che ha sperimentati.

La capacità di penetrare negli stati d’animo, nel susseguirsi febbrile o stanco di pensieri dei personaggi, non è esercizio di stile o compiacimento narcisistico; è come un viaggio che Giorgio sa di potere e dovere fare perché ha trovato la mappa. E anche il tesoro.

Leggetelo e sappiatemi dire. (Leggete fino all’ultima pagina, ringraziamenti compresi…)

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