Ringraziamo poco i nostri sacerdoti e li giudichiamo spesso, non appena uno di loro sbaglia, si perde, cade. Ma è grazie a loro che sull’altare consacrano il pane e il vino che abbiamo Cristo in mezzo a noi!Io sono quella dello “spezzare le lance”. E oggi una lancia la voglio spezzare per una categoria piuttosto bistrattata e assai poco lodata, quella dei preti.
Molti di noi sono personalmente molto grati a questo o quel prete, ricordando un’omelia, una confessione, un ritiro che ci hanno segnati; un’atmosfera, un’accoglienza, una cordialità o anche un momento di serietà salutare, che ci ha aiutati a rientrare in noi stessi.
Ma “i preti” in quanto tali, in pochi li ringraziano. E in molti sono pronti a condannarli, questo sì come categoria, non appena uno di loro sbaglia, si perde, inciampa o cade. Da loro ci aspettiamo tutto, e non sempre diamo loro molto. Devono essere perfetti, ma non sempre li mettiamo in condizione di provare ad esserlo. Devono essere sempre disponibili per tutti, ma noi raramente siamo disponibili per loro.
Soprattutto, non sempre sappiamo dir loro grazie, e renderci conto di quanto la loro vita possa essere stupenda ma tutt’altro che facile. Non si tratta “solo” del fatto di dover rinunciare ad avere una moglie, dei figli, una famiglia; ma soprattutto del fatto che non sempre li aiutiamo a vedere ciò che viene loro donato nel ministero che vivono. Cerco di spiegarmi…
Troppo spesso noi “giudichiamo” un prete (e già qui ci sarebbe da chiedersi con che diritto lo facciamo!) in base a quanto sono belle le prediche, a quante persone vengono a messa, a quanti ragazzi frequentano l’oratorio o i campi estivi. Tutto bene, per carità. Ma l’essenza del ministero sacerdotale è altrove; e, senza quella, tutto il resto perde di significato. Da quella, nasce tutto il resto.
L’essenza del sacerdozio è sull’altare, dove il prete vive il mistero che, con un’espressione latina, chiamiamo in figura Christi. Grazie al sacerdote che consacra il pane e il vino come Gesù nell’ultima cena, abbiamo Cristo presente in mezzo a noi. Grazie al sacerdote che ci dona il perdono di Dio come Gesù al paralitico, abbiamo la remissione dei peccati.
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Questa è la specificità e l’unicità del sacerdozio, ed è qualcosa che trascende il prete stesso, ma allo stesso tempo ha bisogno – indispensabilmente – di lui.
Non sto “riducendo” i sacerdoti a “distributori di sacramenti”, tutt’altro. E neppure sto dicendo che “basta che dica messa e il resto non conta”. Sto però dicendo che solo nella misura in cui noi cristiani recupereremo l’infinita grandezza di ciò che si svolge sull’altare, anche la vocazione sacerdotale sarà compresa nella sua infinita grandezza.
Ben poche persone sceglierebbero di rinunciare a sposarsi ed avere figli per tenere aperto l’oratorio, per quanto possa essere simpatico lavorare con i ragazzi e fondamentale la missione educativa. Il sacerdozio però non è una forma di servizio sociale a tempo pieno, pur se in parte comprende anche questo. Nella messa, il prete è unito, “in figura Christi”, a quel Signore che si è fatto “altare, vittima e sacerdote”. Insieme con il prete, tutta la comunità offre il “mio e vostro sacrificio” che viene poi assunto e trasfigurato nel sacrificio di Cristo. Grazie al sacerdote, noi abbiamo quel cuore della vita cristiana che è la celebrazione pasquale: come dicevano i primi cristiani, “senza la domenica non possiamo vivere”.
La santità, certo, non si misura nel numero di comunioni che uno ha fatto o non ha fatto. Proprio in questi giorni (l’articolo è stato scritto tre anni fa, ndr), alcune suore nello Yemen stanno vivendo il digiuno più pesante, perché non hanno nessun prete che possa celebrare i sacramenti per loro. E probabilmente quelle suore sono tra i cristiani più santi che ci siano sulla faccia della terra in questo momento. Ma io credo anche che la forza che queste suore stanno avendo, nonostante la mancanza dei sacramenti, dalla Grazia che opera nei sacramenti ma anche “al di sopra” di essi, provenga in parte anche dalle Messe che in tutto il mondo tanti sacerdoti celebrano in comunione con le loro comunità. Se quelle suore yemenite ricevono tanta Grazia quanta ne riceverebbero se avessero la comunione tutti i giorni, è anche grazie alla vecchietta di Chicago che va a messa alla mattina o al malato che cerca di passare dalla cappella dell’ospedale nelle Filippine. È anche grazie al vecchio prete che continua ad alzare l’ostia consacrata anche nell’apparente fallimento della sua chiesa semivuota, e continua a vivere la propria donazione a Cristo con la stessa generosità della prima messa, anche se umanamente sembra che abbia sbagliato tutto.
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Dobbiamo dircelo più spesso: la vocazione sacerdotale richiede anche dell’eroismo (così come la richiede quella matrimoniale, naturalmente). Perché non si può celebrare il sacrificio di Cristo quotidianamente, mettendosi con Lui su quell’altare, se non si ha un cuore capace di amare fino al dono della vita. Con tutti i limiti umani, con tutte le fragilità e con tutte le distrazioni che anche i preti hanno: ma noi non abbiamo idea di quanto i nostri preti ci amino, di quanto si mettano loro stessi sulla croce con Gesù perché ci vogliono bene. Lo fanno nel silenzio, senza tante smancerie; ma il loro stesso esserci, il loro sì che è stato detto forte un giorno, ma ogni giorno si rinnova davanti alla tentazione ed allo scoraggiamento che ti farebbero piantare lì tutto, sono una delle forme in cui si manifesta l’amore più grande: “dare la vita per i propri amici”.
Grazie, preti.
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