Nella nostra società non mancano i padri, ma si è sbiadita la coscienza della paternità: i nostri figli cercano un volto a cui chiedere il senso delle cose, con cui condividere la gioia della bellezza e da cui imparare a incamminarsi verso il proprio destino.Di Sergio Ghio, parroco di S. Maria in Domnica a Roma
Le indagini sociologiche e i fatti di cronaca ci dicono che oggi la difficoltà dei giovani è determinata soprattutto dall’ assenza di adulti nella loro vita. Si tratta di un’assenza non soltanto fisica – dovuta al disgregarsi della famiglia, ai molteplici impegni che costringono entrambi i genitori fuori casa, ad un susseguirsi frenetico di attività – ma anche propositiva. È difficile trovare nei giovani una contestazione del mondo degli adulti, dei loro valori e delle loro proposte; semmai, una rassegnazione al fatto che, da quel mondo così distante, non sembra arrivare nulla d’interessante e significativo. I ragazzi faticano a raccontare di sé perché non hanno esperienza di qualcuno che li ascolta. Papa Francesco ha affermato: «Oggi si è arrivati ad affermare che la nostra sarebbe una “società senza padri”.
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In altri termini, in particolare nella cultura occidentale, la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, svanita, rimossa. […] Persino la virilità sembrerebbe messa in discussione. […] Gli adulti abbandonano le certezze e perciò non offrono ai figli orientamenti sicuri e ben fondati».
Quando ho iniziato a vivere l’esperienza della vocazione alla verginità, non immaginavo che il mio desiderio d’essere padre potesse trovare un compimento. C’era la sottile impressione che mi sarebbe stata preclusa questa esperienza: non avrei avuto una moglie e, quindi, neppure figli. Tutti questi anni di sacerdozio mi hanno invece impressionato, perché il mio desiderio di accompagnare e custodire la vita di chi incontravo, sentendola parte di me, è cresciuto e si è rafforzato.
È importante riconoscere che ogni uomo desidera essere padre. Un figlio è un dono che mi cambia, e non l’esito della mia programmazione. Crescere nell’esperienza della paternità significa crescere nella consapevolezza di essere a mia volta figlio.
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Per ogni uomo, la grande domanda rimane: che cosa c’è di buono, di bello, di utile in quello che accade? L’unica alternativa a questa domanda è la distrazione. Essere padre significa riconoscere e aderire a quello che succede, riempiendo l’esistenza di speranza e non di sogni. Un altro aspetto dell’esperienza della paternità è legato alla constatazione che ogni figlio non solo è diverso, unico e irripetibile, ma è anche fatto per andarsene. Certo, sono padre per sempre. Ma al tempo stesso la mia paternità conosce l’esperienza del distacco e il giusto desiderio che i figli se ne vadano, prendendo la loro strada. È parte dell’esperienza della paternità questa necessità, che riempie di gioia ma non è senza dolore.
Il rapporto con il padre è virile e desiderato quando il figlio percepisce che il padre non consiste ultimamente di questo rapporto; quando sa che il padre non ha altro desiderio che scoprire ciò cui il figlio è chiamato, per godere, insieme a lui, della sua vocazione, e in essa sostenerlo.
Durante un incontro, proposto dal Centro giovanile, sul compito di educare, il relatore ci ha rivelato la sua sorpresa: era colpito per la significativa presenza di papà.
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Normalmente – ci ha detto – alle sue conferenze partecipano solo mamme, come se l’educazione fosse una loro prerogativa e competenza. Sembra un’osservazione banale, tuttavia è il segno che, probabilmente, ogni padre desidera incontrare qualcuno con cui condividere e verificare quello che a lui è chiesto ogni giorno. Ogni padre ha la necessità di incontrare un altro padre, che sia segno e strumento di chi è Padre come nessun altro, perché tutti genera in ogni istante.