Papa Francesco ha avuto grande coraggio storico e diplomatico, nel volere e nel firmare il “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” insieme con il grande Imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb. Sul piano carismatico e profetico, però, egli ha fatto anche di più: con la serena franchezza del primo apostolo ha compiuto una mirabile impresa di evangelizzazione. Ai cristiani e ai musulmani insieme.
Da quando certa pubblicistica sedicente cattolica sta abituando i propri lettori a toni da Sant’Uffizio do-it-yourself, non soltanto dilaga la sciagurata moda del “mezzogiorno di fuoco dogmatico” (ogni giorno all’ora dell’Angelus si deve sparare a qualcuno), ma si diffonde con stolida protervia l’uso di leggere i pronunciamenti magisteriali impugnando la matita bicolore: oggi è la volta del Documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato due giorni fa ad Abu Dhabi da Papa Francesco e da Ahmad Al-Tayyeb.
Del resto, chi non la memoria di cortissimo respiro si ricorderà che su quella stessa pubblicistica si levarono alti lai quando nel messaggio Urbi et Orbi del Natale 2005 Papa Ratzinger ebbe la malaugurata idea di usare il sintagma “nuovo ordine mondiale”:
Uomo moderno, adulto eppure talora debole nel pensiero e nella volontà, lasciati prender per mano dal Bambino di Betlemme; non temere, fidati di Lui! La forza vivificante della sua luce ti incoraggia ad impegnarti nell’edificazione di un nuovo ordine mondiale, fondato su giusti rapporti etici ed economici.
“Nuovo Ordine Mondiale”? Ma allora il Papa è un mondialista! Sarà al soldo di Soros anche lui? «Niente di nuovo» – spiegava solerte (ma sette anni dopo…) la su ricordata pubblicistica –:
è nella linea della sua enciclica “Caritas in Veritate” in cui auspicava l’avvento di un’autorità universale economico-sociale la quale è a sua volta nella linea dell’enciclica di Giovanni XXIII “Pacem in Terris” che chiedeva anch’essa un governo mondiale.
Anche Paolo VI e Giovanni Paolo II si pronunciarono spesso in favore del nuovo ordine come ha ricordato qualche settimana fa dal cardinal Appiah Turkson al forum della finanza di Davos.
Ovviamente basta sfogliare la Caritas in veritate per scoprire che Benedetto XVI non favoriva alcun super-governo massonico, anzi:
Anche l’autorità politica ha un significato plurivalente, che non può essere dimenticato, mentre si procede alla realizzazione di un nuovo ordine economico-produttivo, socialmente responsabile e a misura d’uomo. Come si intende coltivare un’imprenditorialità differenziata sul piano mondiale, così si deve promuovere un’autorità politica distribuita e attivantesi su più piani. L’economia integrata dei giorni nostri non elimina il ruolo degli Stati, piuttosto ne impegna i Governi ad una più forte collaborazione reciproca. Ragioni di saggezza e di prudenza suggeriscono di non proclamare troppo affrettatamente la fine dello Stato. In relazione alla soluzione della crisi attuale, il suo ruolo sembra destinato a crescere, riacquistando molte delle sue competenze.
E ovviamente niente di diverso da questo avevano detto Paolo VI, Giovanni Paolo II né – buon ultimo – il cardinal Turkson. Ma a chi vuoi spiegarlo, se sempre più cattolici – per dirla con la boutade attribuita a Von Balthasar – «si sono messi sulla testa la tiara che Paolo VI ha deposto»?
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Così oggi al Papa viene imputata la firma a un trattato che col solo nome di “fraternità” puzzerebbe di sincretismo. E sì che contro il sincretismo aveva parlato proprio nell’allocuzione che aveva preceduto la storica firma:
La fratellanza certamente «esprime anche la molteplicità e la differenza che esiste tra i fratelli, pur legati per nascita e aventi la stessa natura e la stessa dignità» [Francesco, Messaggio per la celebrazione della Giornata Mondiale della Pace, 1o gennaio 2015]. La pluralità religiosa ne è espressione. In tale contesto il giusto atteggiamento non è né l’uniformità forzata, né il sincretismo conciliante: quel che siamo chiamati a fare, da credenti, è impegnarci per la pari dignità di tutti, in nome del Misericordioso che ci ha creati e nel cui nome va cercata la composizione dei contrasti e la fraternità nella diversità. Vorrei qui ribadire la convinzione della Chiesa Cattolica: «Non possiamo invocare Dio come Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati ad immagine di Dio» [Concilio Ecumenico Vaticano II, Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra ætate, 5].
No all’uniformità forzata, dunque, e no anche al sincretismo conciliante. Quelli che si sono scandalizzati per il fatto che Francesco abbia chiamato “fratelli” dei non-cristiani sembrano non vedere due cose importanti:
- le parole con cui il Papa fa questo sono prese dai documenti del Vaticano II (e questa si configura come “evangelizzazione ad intra”);
- quelle stesse parole con cui si definisce Dio “Padre di tutti gli uomini” sono meno scandalose per i cristiani gelosi (i quali sembrano presumere di essere figli unici) che per l’islam ortodosso (abbiamo dunque uno schietto esempio di “evangelizzazione ad extra”).
Non si può certo dire “ad gentes”, perché
la Chiesa guarda […] con stima i musulmani che adorano un Dio unico [qui unicum Deum adorant], vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini.
Tuttavia – se anche il Papa non ha pronunciato in quella sede il nome di Gesù – la citazione dalla dichiarazione conciliare risulta nel contesto un franco annuncio della grande novità cristiana, attuato con tutta l’autorità apostolica del Vescovo di Roma: fra i 99 nomi che la tradizione islamica attribuisce ad Allah, infatti, non figura quello di padre, poiché nella sura XIX – quella comunemente nota come “di Myriam” – si legge:
Questo è Gesù, figlio di Maria, parola di verità della quale essi dubitano. Non si addice ad Allah prendersi un figlio. Gloria a Lui! Quando decide qualcosa dice: «Sii!» ed essa è.
Corano, 19, 34-35
Ora invece la massima autorità carismatica dell’islam sunnita ha sottoscritto col capo (visibile) della Chiesa Cattolica un testo che parla di fraternità. E qui occorre fare attenzione: né gli islamici si sono rimangiati il versetto 35 della 19esima sura né i cattolici sono disposti a negare il fatto che figli di Dio, in senso proprio e stretto, lo si divenga per il battesimo. L’aveva precisato proprio Papa Francesco indicando – sulla scia del dettato conciliare – che non si stava ricercando “una fratellanza teorica”:
Vari interrogativi, tuttavia, si impongono: come custodirci a vicenda nell’unica famiglia umana? Come alimentare una fratellanza non teorica, che si traduca in autentica fraternità? Come far prevalere l’inclusione dell’altro sull’esclusione in nome della propria appartenenza? Come, insomma, le religioni possono essere canali di fratellanza anziché barriere di separazione?
Il dilemma moderno e contemporaneo di una “fratellanza non teorica”
Fratellanza non teorica, vera fraternità: ecco il dilemma. Mi colpisce sempre come in tutta l’immensa mole de Il genio del cristianesimo François-Réné de Chateaubriand non utilizzi se non due sole volte la parola “fraternità”. Quasi cinquant’anni più tardi, nelle Memorie d’oltretomba, il grande polemista e diplomatico francese avrebbe raccontato le atrocità che aveva veduto commettere in nome della “fraternità” giacobina; ma già da ragazzo, nei “Frammenti” apposti alla sua superba opera di apologetica cristiana e di sintesi di tutte le culture note, il giovane Visconte esiliato in Inghilterra scriveva:
I filosofi moderni, risvegliati a questa morale dall’Evangelo e credendo di fare meglio del Dio dei dolci e dei piccoli, non hanno più visto alcun istinto di patria: si sono messi ad amare il genere umano, cioè a non amare nessuno. Allora tutto ha trasudato di filantropia; credettero che i cuori, subitaneamente arroventati d’un amore inestinguibile, avrebbero gemuto per il non saper dove riversare tutto quel tesoro. Era mio fratello il nero! Mio fratello il giapponese! E tuttavia la verità è che mai ci sono stati più Caini che al tempo degli enciclopedisti, che mai su di un popolo è scorso un secolo altrettanto freddo. Non c’è mai misura, con quella gente: o tutto nei loro scritti porta una scia di gelo oppure il calore vi arriva soltanto dalla testa. Mai un solo movimento del cuore.
E poco oltre, in un altro dei Frammenti, il Visconte avrebbe scritto a proposito del giudizio finale:
Il Giudice Supremo dirà a quei filantropi: «Non avete fatto alcun male, ma non avete fatto alcun bene. Venga alla mia destra, quest’uomo che fu debole ma che soccorse ed amò davvero i suoi fratelli, quest’uomo che cadde ma che vestì l’orfano, protesse la vedova, riscaldò il vecchio e diede da mangiare a Lazzaro; perché è così che agivo io quando abitavo tra gli uomini». Ecco quale sarà il linguaggio del Figlio dell’Altissimo; e il grande tormento dell’inferno consisterà in un desiderio inestinguibile di bellezza e di virtù – senza poterlo mai appagare.
Dilemma e disillusione che si trovano vivide in un aneddoto riportato da Oriana Fallaci in La forza della ragione (2004 – ma lo aveva già raccontato in alcune interviste nei decenni). La grande giornalista raccontava di cosa gli rispose Pietro Nenni (che Roberto Fabiani nel ’73 rivelò affiliato all’obbedienza massonica di Palazzo Giustiniani) quando – con «il tipo d’intesa che v’è tra nonno e nipote» – lei si sfogò per lo sfregio che Critica Sociale (all’epoca rivista del Psi) le aveva inflitto dandole brutalmente dell’assassina di Alekos Panagulis (sic!):
Dicendo Nenni-guardi-che-m’hanno-fatto gli mostrai la nefandezza, e lui chiuse gli occhi. Poi, con un filo di voce, mormorò: «Se tu sapessi che hanno fatto a me… Bambina mia, quando difendo gli uomini io non mi riferisco agli uomini. Mi riferisco all’idea platonica dell’Uomo. All’Uomo con la u maiuscola».
Ed ecco come si perpetua attraverso le epoche la grande illusione – con annessa cocente delusione – che si possa essere tutti fratelli in nome di un ideale astratto. Ora, Oriana Fallaci merita non solo ogni rispetto per la sua vita ma anche ogni ammirazione per la sua carriera: però resta lecito non condividere la sua analisi circa “la più grave colpa della Sinistra” che – «insieme con la Chiesa cattolica e agli avanzi del Msi» – avrebbe favorito “l’islamizzazione d’Italia”. E rieccoci a bomba, anzi ad Abu Dhabi. Quando Francesco si preoccupa di far sì che la fraternità di cui parlano con il grande Imam non sia “solo teorica” lo sforzo che compie è quello di anti-astrazione – dall’Uomo con la u maiuscola di cui massonicamente vagheggiava Nenni con la Fallaci – e la proposta cerca di essere estremamente concreta:
Torniamo così all’immagine iniziale della colomba della pace. Anche la pace, per spiccare il volo, ha bisogno di ali che la sostengano. Le ali dell’educazione e della giustizia.
L’educazione – in latino indica l’estrarre, il tirare fuori – è portare alla luce le risorse preziose dell’animo. È confortante constatare come in questo Paese non si investa solo sull’estrazione delle risorse della terra, ma anche su quelle del cuore, sull’educazione dei giovani. È un impegno che mi auguro prosegua e si diffonda altrove. Anche l’educazione avviene nella relazione, nella reciprocità. Alla celebre massima antica “conosci te stesso” dobbiamo affiancare “conosci il fratello”: la sua storia, la sua cultura e la sua fede, perché non c’è conoscenza vera di sé senza l’altro. Da uomini, e ancor più da fratelli, ricordiamoci a vicenda che niente di ciò che è umano ci può rimanere estraneo[7]. È importante per l’avvenire formare identità aperte, capaci di vincere la tentazione di ripiegarsi su di sé e irrigidirsi.
Investire sulla cultura favorisce una decrescita dell’odio e una crescita della civiltà e della prosperità. Educazione e violenza sono inversamente proporzionali. Gli istituti cattolici – ben apprezzati anche in questo Paese e nella regione – promuovono tale educazione alla pace e alla conoscenza reciproca per prevenire la violenza.
I giovani, spesso circondati da messaggi negativi e fake news, hanno bisogno di imparare a non cedere alle seduzioni del materialismo, dell’odio e dei pregiudizi; imparare a reagire all’ingiustizia e anche alle dolorose esperienze del passato; imparare a difendere i diritti degli altri con lo stesso vigore con cui difendono i propri diritti. Saranno essi, un giorno, a giudicarci: bene, se avremo dato loro basi solide per creare nuovi incontri di civiltà; male, se avremo lasciato loro solo dei miraggi e la desolata prospettiva di nefasti scontri di inciviltà.
La giustizia è la seconda ala della pace, la quale spesso non è compromessa da singoli episodi, ma è lentamente divorata dal cancro dell’ingiustizia.
Non si può, dunque, credere in Dio e non cercare di vivere la giustizia con tutti, secondo la regola d’oro: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti» (Mt 7,12).
Pace e giustizia sono inseparabili! Il profeta Isaia dice: «Praticare la giustizia darà pace» (32,17). La pace muore quando divorzia dalla giustizia, ma la giustizia risulta falsa se non è universale. Una giustizia indirizzata solo ai familiari, ai compatrioti, ai credenti della stessa fede è una giustizia zoppicante, è un’ingiustizia mascherata!
Le religioni hanno anche il compito di ricordare che l’avidità del profitto rende il cuore inerte e che le leggi dell’attuale mercato, esigendo tutto e subito, non aiutano l’incontro, il dialogo, la famiglia, dimensioni essenziali della vita che necessitano di tempo e pazienza. Le religioni siano voce degli ultimi, che non sono statistiche ma fratelli, e stiano dalla parte dei poveri; veglino come sentinelle di fraternità nella notte dei conflitti, siano richiami vigili perché l’umanità non chiuda gli occhi di fronte alle ingiustizie e non si rassegni mai ai troppi drammi del mondo.
Altro che “oppio dei popoli”: Francesco sembra dire che è il mondo, meglio la mondanità, ad essere la droga non solo dei popoli ma anche delle religioni. Tutto l’opposto è il loro carisma in una teologia della storia: «Siate vigili». Altra parola squisitamente evangelica. E nell’ottenere che la massima autorità religioso-culturale del mondo sunnita sottoscrivesse queste frasi sulla violenza Francesco incorona come meglio non si sarebbe potuto sognare la storica Lezione di Ratisbona di Benedetto XVI.
L’uso antico del concetto di fraternità
Ma a questo proposito potrà essere d’aiuto ricordare che l’uso del concetto di fraternità in riferimento alla comune umanità non è un mero tentativo giacobino di usurpare le prerogative cristiane, bensì affonda le proprie radici storiche proprio nella morale ellenistica. Nenni si sbagliava, utilizzando la categoria platonica di “Uomo ideale”, ma non di molto: infatti l’uso si affermò largamente nello stoicismo. Negli scritti neotestamentari la parola “fratello” viene soprattutto a indicare il correligionario (lo stesso accadeva in altre religioni coeve, specie nei culti misterici) e questa particolare accezione sarebbe stata recepita in alcune opere subapostoliche come la Didachè , in Clemente e in alcuni scritti degli apologisti. Ben presto, già a partire dal III secolo, l’uso si sarebbe rarefatto: nulla di strano, i fratelli si percepiscono tali in un contesto che li vede minoranza; quando già si avviano a essere “una piccola maggioranza” non sentono più il bisogno di rimarcare il particolare legame.
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Già prima di questo naturale esito sociologico, però, qualche mente più fina delle altre aveva colto lo speciale nesso che collega la fraternità dei cristiani a quella fra tutti gli uomini. Mentre andava a Roma per esservi martirizzato, Ignazio d’Antiochia scrisse agli Efesini:
Pregate incessantemente per gli altri uomini, perché c’è speranza che essi si pentano per arrivare a Dio. Permettete loro di apprendere almeno dalle vostre opere. Siate miti di fronte alla loro ira, umili di fronte alla loro superbia, opponete le preghiere alle loro bestemmie, saldi nella fede di fronte al loro errore, pacifici di fronte alla loro ferocia, senza cercare di imitarli. Dimostriamoci loro fratelli nella bontà, adoperiamoci a imitare il Signore – chi ha patito più di lui l’ingiustizia? chi è stato più defraudato, maltrattato? –, affinché non si trovi in voi l’erba del diavolo, ma perseveriate in tutta purezza e temperanza in Gesù Cristo secondo la carne e lo spirito.
Ign., Eph 10
Quello operato da Ignazio è un passaggio delicato e statisticamente assai raro, nella letteratura cristiana antica: il contesto parenetico, in particolare, fa osservare che il Vescovo non sta svendendo il cristianesimo (figuriamoci, la parola stessa si attesta per la prima volta nelle sue lettere!), anzi ne sta definendo la specifica missione nel mondo. Sopportare il male in comunione mistica con il Cristo, che su di sé aveva preso e reso sostenibile «il peccato del mondo»: questo avrebbe fattivamente comportato la rivelazione agli altri dell’essenza del cristianesimo («permettete loro di apprendere almeno dalle vostre opere»).
Il primo Pietro e i suoi ultimi successori
Analogo consiglio diede Francesco d’Assisi ai suoi frati, nella Regola non bullata, ed è toccante che il figlio dell’altro Ignazio, Francesco di Roma, abbia voluto ripetere proprio stamattina queste parole durante la storica messa papale ad Abu Dhabi:
[…] vorrei soffermarmi brevemente su due Beatitudini. La prima: «Beati i miti» (Mt 5,5). Non è beato chi aggredisce o sopraffà, ma chi mantiene il comportamento di Gesù che ci ha salvato: mite anche di fronte ai suoi accusatori. Mi piace citare san Francesco, quando ai frati diede istruzioni su come recarsi presso i Saraceni e i non cristiani. Scrisse: «Che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani» (Regola non bollata, XVI). Né liti né dispute – e questo vale anche per i preti – né liti né dispute: in quel tempo, mentre tanti partivano rivestiti di pesanti armature, san Francesco ricordò che il cristiano parte armato solo della sua fede umile e del suo amore concreto. È importante la mitezza: se vivremo nel mondo al modo di Dio, diventeremo canali della sua presenza; altrimenti, non porteremo frutto.
La seconda Beatitudine: «Beati gli operatori di pace» (v. 9). Il cristiano promuove la pace, a cominciare dalla comunità in cui vive. Nel libro dell’Apocalisse, tra le comunità a cui Gesù stesso si rivolge, ce n’è una, quella di Filadelfia, che credo vi assomigli. È una Chiesa alla quale il Signore, diversamente da quasi tutte le altre, non rimprovera nulla. Essa, infatti, ha custodito la parola di Gesù, senza rinnegare il suo nome, e ha perseverato, cioè è andata avanti, pur nelle difficoltà. E c’è un aspetto importante: il nome Filadelfia significa amore tra i fratelli. L’amore fraterno. Ecco, una Chiesa che persevera nella parola di Gesù e nell’amore fraterno è gradita al Signore e porta frutto. Chiedo per voi la grazia di custodire la pace, l’unità, di prendervi cura gli uni degli altri, con quella bella fraternità per cui non ci sono cristiani di prima e di seconda classe.
Già il primo Pietro aveva esplorato questa via – mistica e quotidiana – di evangelizzazione silenziosa, sempre basata sulle beatitudini anche se nel suo caso non stava esplicitamente commentando la pericope matteana:
Carissimi, non siate sorpresi per l’incendio di persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano. Ma nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi, se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio riposa su di voi. Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro o malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio per questo nome.
1Pt 4, 12-16
Nel 1967 san Paolo VI scriveva:
Lo sviluppo integrale dell’uomo non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell’umanità. Come dicevamo a Bombay: «L’uomo deve incontrare l’uomo, le nazioni devono incontrarsi come fratelli e sorelle, come i figli di Dio. In questa comprensione e amicizia vicendevoli, in questa comunione sacra, noi dobbiamo parimenti cominciare a lavorare assieme per edificare l’avvenire comune dell’umanità». E suggerivamo altresì la ricerca di mezzi concreti e pratici di organizzazione e di cooperazione, onde mettere in comune le risorse disponibili e così realizzare una vera comunione fra tutte le nazioni.
Questo dovere riguarda in primo luogo i più favoriti. I loro obblighi sono radicati nella fraternità umana e soprannaturale e si presenta sotto un triplice aspetto: dovere di solidarietà, cioè l’aiuto che le nazioni ricche devono prestare ai paesi in via di sviluppo; dovere di giustizia sociale, cioè il ricomponimento in termini più corretti delle relazioni commerciali difettose tra popoli forti e popoli deboli; dovere di carità universale, cioè la promozione di un mondo più umano per tutti, un mondo nel quale tutti abbiano qualcosa da dare e da ricevere, senza che il progresso degli uni costituisca un ostacolo allo sviluppo degli altri. Il problema è grave, perché dalla sua soluzione dipende l’avvenire della civiltà mondiale.
Paolo VI, Populorum Progressio 43-44
Se con Ignazio d’Antiochia la fraternità fra tutti gli uomini era affermata, sì, e anche in contesto dogmatico, tuttavia nell’allocuzione di Paolo VI a Bombay (era il 3 dicembre 1964) il nesso tra la fraternità universale e la figliolanza divina emerge più limpido. Non vorrei sbilanciarmi perché non ho sotto mano gli atti del Vaticano II, ma non è improbabile che a quella data Papa Montini avesse già sotto mano qualche bozza della futura Costituzione sulla Chiesa nel Mondo contemporaneo, la Gaudium et spes (sarebbe stata firmata e pubblicata il 7 dicembre 1965). Al numero 22 si legge:
In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo.
Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (28) (Rm5,14) e cioè di Cristo Signore.
Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione.
Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità su esposte in lui trovino la loro sorgente e tocchino il loro vertice. Egli è « l’immagine dell’invisibile Iddio » (Col 1,15) (29) è l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato.
Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata (30) per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime.
Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo.
Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo (31) ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché il peccato (32). Agnello innocente, col suo sangue sparso liberamente ci ha meritato la vita; in lui Dio ci ha riconciliati con se stesso e tra noi (33) e ci ha strappati dalla schiavitù del diavolo e del peccato; così che ognuno di noi può dire con l’Apostolo: il Figlio di Dio « mi ha amato e ha sacrificato se stesso per me» (Gal2,20). Soffrendo per noi non ci ha dato semplicemente l’esempio perché seguiamo le sue orme (34) ma ci ha anche aperta la strada: se la seguiamo, la vita e la morte vengono santificate e acquistano nuovo significato.
Il cristiano poi, reso conforme all’immagine del Figlio che è il primogenito tra molti fratelli riceve «le primizie dello Spirito» (Rm 8,23) (35) per cui diventa capace di adempiere la legge nuova dell’amore (36).
In virtù di questo Spirito, che è il «pegno della eredità» (Ef 1,14), tutto l’uomo viene interiormente rinnovato, nell’attesa della « redenzione del corpo » (Rm 8,23): « Se in voi dimora lo Spirito di colui che risuscitò Gesù da morte, egli che ha risuscitato Gesù Cristo da morte darà vita anche ai vostri corpi mortali, mediante il suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11) (37).
Il cristiano certamente è assillato dalla necessità e dal dovere di combattere contro il male attraverso molte tribolazioni, e di subire la morte; ma, associato al mistero pasquale, diventando conforme al Cristo nella morte, così anche andrà incontro alla risurrezione fortificato dalla speranza (38).
E ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia (39). Cristo, infatti, è morto per tutti (40) e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale.
Tale e così grande è il mistero dell’uomo, questo mistero che la Rivelazione cristiana fa brillare agli occhi dei credenti. Per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime. Con la sua morte egli ha distrutto la morte, con la sua risurrezione ci ha fatto dono della vita (41), perché anche noi, diventando figli col Figlio, possiamo pregare esclamando nello Spirito: Abba, Padre! (42).
Né si tratta di un’invenzione del Concilio, come si potrebbe leggere nella fumosa “pubblicistica cattolica” di cui dicevamo all’inizio: non è per caso che la genealogia di Gesù secondo Luca (3, 23-38) non culmini in Abramo ma in Adamo – detto “figlio di Dio” come il solo Cristo –; è anzi un’esposizione narrativa della cristologia adamitica che si rinviene nelle prime epistole paoline.
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La sintesi dogmatica è chiara, e occorre comprenderla a fondo: l’uomo – e non “l’Uomo” ideale, bensì ogni uomo – è creato fin dall’eternità in Cristo, e non “nel Verbo di Dio”, bensì proprio in quell’Uomo – “universale concreto” – incarnatosi e nato dalla Vergine Maria. Questo spiega perché, come scriveva Ignazio, chi vive secondo lo stile di Gesù venga riconosciuto per fratello da ogni uomo. Ciò illustra altresì come mai la pura fraternità sia un vero e potente evento evangelizzatore: annunciare che tutti gli uomini sono fratelli fra loro non significa sminuire il cristianesimo o Cristo, ma al contrario affermare che tutti gli uomini sono fatti da Dio «per mezzo e in vista di Gesù Cristo» (cf. Col 1, 20). O come sintetizzava Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica:
Quest’uomo è la via della Chiesa, via che corre, in un certo modo, alla base di tutte quelle vie, per le quali deve camminare la Chiesa, perché l’uomo – ogni uomo senza eccezione alcuna – è stato redento da Cristo, perché con l’uomo – ciascun uomo senza eccezione alcuna – Cristo è in qualche modo unito, anche quando quell’uomo non è di ciò consapevole: «Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo» – ad ogni uomo e a tutti gli uomini – «… luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione»96.
Giovanni Paolo II, Redemptor hominis 14