Siamo a Caivano, a Nord di Napoli, in una scuola dove il tasso di dispersione è tra le più alte del paese. Ma c’è una dirigente scolastica da 9 anni che lotta strenuamente per salvare i “suoi” ragazzi, uno per unoE’ arrivata all’Istituto Morano accompagnata dal marito, nove anni fa. Dove sei capitata? le diceva lui. Ora sorride ma lo shock dev’essere stato di una certa intensità. Eppure si capisce subito che questa donna ha una certa tempra; tutt’altro che impassibile si è messa a soffrire da subito per quella scuola e quei ragazzi; e quella scuola e quei ragazzi sono diventati i suoi ragazzi e la sua scuola.
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Quella scuola è di qualcuno ed è la cosa che fa radicalmente la differenza. Di qualcuno, come la preside Eugenia Carfora, che si sente responsabile e al servizio delle vite così fragili come quelle dei ragazzini che frequentano l’istituto. La notizia vera, ora, è che a scuola ci vanno; non tutti, non sempre ma molto più di prima che arrivasse lei, tanto detestata da chi si è visto portare via una fetta di mercato, quanto amata da quei ragazzini che seppure scalciando, ringhiando, ridacchiando non vedevano l’ora che qualcuno li amasse con tanta serietà.
Nel corso della trasmissione di Rai 3 del 27 ottobre, intitolata Come figli miei e dedicata alla loro storia si vedranno anche le immagini di come se l’è trovata appena arrivata. Se diciamo degrado o abbandono corriamo il rischio di darcela a gambe dietro a immagini generiche e poco incisive. Non c’era niente, nemmeno i banchi e fino a che non sono arrivati i fondi europei loro hanno pulito, buttato sporcizia, ordinato e ancora pulito. Eugenia quando è arrivata l’ha guardata a fondo questa scuola, ha percorso ogni stanza, locale e corridoio stipato di materiale di ogni genere; ha raccolto e riordinato con i colleghi docenti cataste disordinate di documenti. E ora con il giornalista attraversa tutte le aule, i corridoi, i laboratori e aprendo le porte riapre i ricordi: qua ci abitava il custode con tutta la famiglia; ci aveva messo pure una tintoria e la moglie cuciva.
Questo invece era il bar, abusivo. Ora lo farà abbattere. E la stanza che fungeva da rifugium peccatorum adesso è quella del server dove sono collegate tutte le aule: “ho collegato questa scuola al mondo”. I computer li ha fatti arrivare lei e non appena sono stati installati si è presentata al bar: se spariscono lo sapete che per i vostri figli non ci sarà un’altra possibilità.
Siamo a due passi da una delle aree di spaccio più grande di tutta Europa, il Parco Verde. Che primato terrificante. E anche questo non è un dato da leggere comodamente seduti dietro un pc ma un buco nero che attira al suo interno decine e decine di vite, di ragazzini che si danno alla droga, alla prostituzione e alla violenza. Per questo lei li vuole a scuola, tutti e tutti i giorni. Li terrebbe anche a dormire, se solo potesse.
Ciò che colpisce più di tutto in questo insolito room tour sono l’ordine, la pulizia e quello che forse un tempo avremmo chiamato decoro. Lei ci ha passato tutto il primo anno a pulire e ci ha messo nove lunghi anni a farla diventare un polo di eccellenza. Perché fin da subito ne ha avuto la visione: c’era il male ma c’era anche un’enorme possibilità di bene e lei, quasi a mani nude, si è messa a cercarla e a tirarla fuori. Anche se la scuola era ancora brutta e vecchia andava pulita e pulita bene, perché in una casa pulita e in ordine le cose brutte si nascondono meno facilmente. Scavando in giardino ha trovato una pistola, per esempio, una FF13; che spavento si prese quella volta.
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L’ordine anche solo contemplato ci procura benessere e ci comunica che forse, se siamo in un ambiente bello e ordinato, lo siamo anche noi; e ne siamo degni. Ancora di più se l’ordine e la pulizia ce li sudiamo direttamente con le nostre braccia.
“Parisi, andiamo! Ma io non lo so! Salvato’ muoviti!”. Esce in strada, camice giallo al vento, li raggiunge, li chiama, li riprende per i capelli sciolti (fai entrare i capelli nei piatti, dice a una ragazza che fa l’Alberghiero).
C’è un cancellino guasto che non si può chiudere e questo favorisce l’arrivo alla spicciolata continuo dei ragazzi. invece lei vuole che sentano soggezione e un certo disagio nell’arrivare in classe mentre gli altri stanno già facendo lezione. Poi passa in rassegna i ritardatari e a tutti rinfaccia il numero dei ritardi accumulati, solo Cimitile è perdonato perché è il suo primo ritardo; per tutti gli altri l’indomani si viene a scuola accompagnati.
“Il telefono non si dimentica mai, il trucco mai..!”
Una volta al sicuro dentro le aule c’è il rituale della consegna telefonini; un po’ tergiversano ma alla fine cedono. E allora telefoni nel cassetto del prof.
Questa donna è instancabile, nonostante i momenti di sconforto, è inquieta e incontentabile. Vorrebbe una scuola lunga, vorrebbe accompagnarli fino all’università e ci vorrebbe qualcuno che si innamorasse con lei e come lei di questi ragazzi e la aiutasse a realizzare questo sogno che avrebbe ricadute tanto concrete: corsi di studio portati a termine, studenti preparati, cittadini in grado di lavorare e di non svendersi al crimine.
“Ma qua non c’è neanche una scritta sui muri!” osserva il giornalista.
“Qua non si scrive”, taglia corto soddisfatta Eugenia.
Si sbaglia, stanno scrivendo eccome! Che gratitudine per questi adulti che si comportano da adulti, fermi, severi, appassionati, tanto duri quanto innamorati della bellezza irriducibile di ogni singolo ragazzo.
Forza Preside, sono anche figli nostri!