La Chiesa se n’è accorta da diverso tempo (si ricordi che fu Benedetto XVI a volere l’esistenza dell’account Twitter di @pontifex), ma sembra che ultimamente stiano emergendo fenomeni mediatici, in seno alla gerarchia cattolica, che pur senza uscire dalla categoria dei pionieri si attestano anche in quella dei professionisti.
Motus in fine velocior [“Il movimento è più veloce nella sua parte finale”, N.d.R.]: un adagio latino di cui almeno in dirittura d’arrivo per un esame universitario tutti hanno potuto sperimentare la veridicità. In questi ultimi giorni di assise sinodale si stanno rileggendo e rilavorando senza sosta le bozze del documento finale.
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Ieri qualcuno ha giustamente commentato che la presenza del Papa nelle fasi preparatorie del documento sarebbe canonicamente inusitata, e ci fa piacere che si constati la correttezza della lettura che qui demmo della costituzione apostolica Episcopalis communio: fummo infatti tra i pochi a spiegare che – ben lungi dal dissolvere l’autorità primaziale dell’ufficio petrino – quelle disposizioni (devolutive e confederanti, se si vuole) accrescevano al contempo l’autorevolezza delle conferenze episcopali e l’autorità primaziale.
Già una settimana fa l’arcivescovo di Melbourne ha twittato una foto di padre Giacomo Costa e di don Rossano Sala, presentati come «i due che stanno lavorando più intensamente» e bonariamente caratterizzati come due che «non stanno dormendo molto».
Il sinodo si concreterà, come è nella sua natura, in un documento finale, che per disposizione del Santo Padre Francesco sarà prodotto direttamente dall’assise sinodale. Ciò comporta – l’abbiamo spiegato – un ulteriore sforzo di mediazione e di sintesi richiesto direttamente ai Padri sinodali (e naturalmente alla Segreteria): quello che costeggia il sinodo – interviste, conferenze stampa, dichiarazioni… – è certamente cosa interessante e talvolta degna di attenzione, ma scomparirà del tutto non appena sarà presentato il documento finale.
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In questi ultimi giorni prima che ciò accada vogliamo soffermarci a considerare anche una caratteristica accessoria del #Synod2018, mai evidente come in questa XV assemblea generale: il “versante social”. Vuoi per il semplice trascorrere del tempo (e di un progresso anagrafico dei Padri sinodali), vuoi per un “aggiornamento” pastorale, vuoi per la specifica materia trattata dall’Assemblea sinodale… non sono stati pochi i padri che hanno offerto post invece che dichiarazioni, mettendole a disposizione dei follower invece che dei giornalisti. Abbiamo già visto mons. Comensoli, che su Twitter sta dal 2011 e che perlopiù condivide fotografie: talvolta cronaca, talvolta facezia, il suo contributo è gradevole e simpatico.
Tuttavia i numeri sono numeri: 4.039 follower per il pastore della seconda città di Australia per popolazione (4 milioni e 900mila quest’anno) non sono numeri strabilianti, e lo stesso tenore dell’account, con meno di duemila tweet in sette anni, denota un investimento di tempo e di energie relativamente modesto.
Chiaramente questo non può assolutamente tradursi in un giudizio complessivo sulla dedizione pastorale o – tantomeno – sulla caratura umana dei personaggi: uno dei rischi più macroscopici, anzi, legati a certo “aggiornamento” consiste nel fatto che i social media diventino più “status symbol” che mezzi finalizzati ad ottenere qualcosa. Come ammoniva già due secoli fa Gottfried Hermann (ma la citazione si trova anche altrimenti attribuita), «wer nicths über die Sache versteht, der schreibt über die Methode» [«Chi non capisce niente della cosa scrive del metodo»]: non posso fare a meno di pensarlo quando osservo alcuni ecclesiastici che pensano di star evangelizzando qualcosa o qualcuno col semplice loro attestare che “sono sui social”. Nella migliore delle ipotesi sono allora maldestri tentativi di avvicinamento, talvolta patetici sforzi di inseguimento dei “giovani” su un campo non loro (ne ha mirabilmente scritto Costanza Miriano); nella peggiore delle ipotesi, può trattarsi di una vanesia ostentazione di giovanilismo, utile forse a essere notati in alcuni circoli. In fondo si tratta di rischi che tutti corrono, quando entrano in un territorio complesso, veloce e spietato come quello dei social, governato dai numeri e dalle pulsioni primarie.
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«Ma per dir del ben ch’i’ vi trovai – scrive Dante – dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte»: esistono senz’altro molti casi di tentativi virtuosi, da parte di ecclesiastici, di stabilire una presenza sui social (fu Benedetto XVI a volere un profilo di @pontifex su Twitter). Essendo ogni pretesa di esaustività infallibilmente destinata al velleitarismo, vorrei qui di seguito illustrare i tentativi di due padri sinodali soltanto: due vescovi che alla comunicazione consacrano una parte importante delle loro energie (pastorali, professionali e anche finanziarie). Uno viene dal Vecchio Mondo, anzi dall’antica Lione (e già una volta abbiamo qui scritto di lui); l’altro esercita il ministero a Los Angeles, ovvero alla fine del Nuovo Mondo.
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Ausiliari entrambi, cioè canonicamente “solo” coadiutori dell’Ordinario del Luogo (il Vescovo “principale”, per capirci), sia mons. Emmanuel Gobilliard sia mons. Robert Barron sono esponenti di una classe episcopale “giovane ma non giovanilistica”, che usa quotidianamente e “con metodo scientifico” i social (in molte declinazioni) per amplificare la percezione di una presenza cristiana nei contesti secolari.
Un meticoloso artigiano della parola
Come si legge sul profilo Twitter di mons. Gobilliard, che dal 2014 ha inviato più di 2mila tweet e annovera più di 2.400 follower, l’account @EGobilliard è quello personale del cinquantenne vescovo ausiliare di Lione, ma è gestito da un team (i tweet personali sono riconoscibili per la sigla “+EG”). Responsabile delle comunicazioni per la @diocesedelyon – tuttora retta dal card. Barbarin – il giovane vescovo prepara tutti i suoi discorsi con il supporto di un’esperta in comunicazioni (pare che si tratti della cognata), ed è divenuto noto al grande pubblico, in Francia, per il libro-intervista doppia scritto con la sessuologa Thérèse Hargot in risposta alle domande del giornalista Arthur Herlin.
Pochi mesi fa i due si sono trovati negli studi di KTOtv per un’oretta di confronto vis à vis (Herlin è intervenuto da Roma, dove gestisce l’agenzia i.Media):
Se Twitter è il mezzo prediletto di mons. Gobilliard, è pur vero che (grazie a un ufficio dedicato in cui lavora stabilmente una mano di persone) egli lo usa in declinazione prettamente multimediale: molte le foto, molti i video, talvolta improvvisati col semplice smartphone, talaltra ben preparati da esperti.
e questa “intercettazione” del Papa in un disimpegno che ha suscitato l’attenzione di molti commentatori (inclusi noi):
Gobilliard è percepito come un “avanguardista” dei social e sa di esserlo, ma la sua analisi descrive semplicemente l’importanza di essere presenti lì dove i giovani sono.
Un metodico esploratore di immagini e suoni
Ha nove anni più di mons. Gobilliard il suo omonimo a stelle e strisce, l’ausiliare di Los Angeles Robert Barron: presente su Twitter dal 2009, al suo attivo ha meno di duemila tweet, ma i suoi follower si attestano sulla bella cifra di 129mila.
Già dall’immagine di copertina del suo profilo si vede la traccia di un’imponente macchina comunicativa, che non riscuote attenzione solo nel mondo anglofono – come in parte era lecito aspettarsi – ma praticamente ovunque.
Twitter non è neppure il canale privilegiato di Barron, la cui storia social-comunicativa risale a ormai 18 anni fa: era infatti il 2000, quando “father Robert” (è vescovo solo dal 2015) fondò l’organizzazione no-profit “Word on Fire”, che di fatto si configura come una “media organisation” e che gestisce con professionalità holliwoodiana la comunicazione del Vescovo.
Omelie, fotografie, filmati, dichiarazioni: tutto viene condiviso a partire dal sito e poi sui canali social (il profilo Instagram conta 80mila follower).
Alcune foto rivelano i primi amori di Barron (era un ragazzo quando s’innamorò dell’Aquinate):
Altri post indugiano con dei brevi video catechetici su perle della tradizione cattolica (in questo caso san Giovanni Della Croce).
E poi si manda un gigantesco culturista tatuato (@jesephgloor) in giro per le sagrestie delle basiliche romane, a fare domande sul discernimento vocazionale e sul trovare la propria strada nel mondo. Con una post-produzione evidentemente di prim’ordine.
Non solo West, dunque: questa volta la corsa all’oro si fa in tutte le direzioni, e quelli che sembrano riuscire meglio sono proprio quanti studiano sì con estrema professionalità i mezzi, ma poi lasciano che essi scompaiano nella comunicazione, mentre arriva semplicemente – e semplice – il Messaggio.