Una messa gremita di lebbrosi, contrabbandieri, bambine violentate, madri abbandonate che chiedono: “Tu devi spezzarci il pane, se no dove la troviamo noi la forza per continuare il cammino?”di Padre Umberto Davoli, missionario
Mi era sempre piaciuto predicare a Sinya, e quando il parroco mi chiese di sostituirlo per il suo trimestre di ben meritato riposo in Europa, me ne sentii lusingato. Sinya è uno squallido quartiere ‘abusivo’ sorto spontaneamente alla periferia di Ndola, sul confine con il Congo, senza alcun piano regolatore e per molto tempo – ma in gran parte tuttora – privo di ogni benché minimo servizio: niente luce elettrica, rete idrica, fognature.
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Un ammasso di catapecchie di fango e baracche coi tetti di lamiera arrugginita, proditoriamente trattenute da macigni, cerchioni e rottami per impedire al vento di portarsele via … E’ abitato da una folla anonima ed eterogenea: povere vedove perennemente indaffarate per procurare quotidianamente un boccone qualsiasi alla nidiata, spesso senza riuscirci; giovani senza arte né parte che avendo inopinatamente lasciato il villaggio, allettati dal miraggio della città, sono inevitabilmente naufragati alla deriva della società; vecchi abbandonati e persone fisicamente inabili che sbarcano il lunario andando ogni mattina ‘in città’ a stendere la mano.
Come tutte le bidonville di confine, però, anche Sinya pullula di loschi figuri e di individui di dubbio carattere: ladri, imbroglioni, contrabbandieri, criminali, prostitute e magnaccia… La violenza vi è spesso di casa, e non è certo un posticino per la passeggiata serotina, dopo il tramonto!
La chiesa era gremita all’inverosimile e risuonava di canti a più voci, vibranti e festosi, ritmati dai tamburi: quand’ero arrivato per le confessioni – quaranta minuti prima dell’inizio della santa Messa – l’avevo trovata già per tre quarti piena; e la gente aveva continuato ad affluirvi fin oltre la lunga processione danzata dalle Stelle, le bimbe più piccole, e il canto del Kyrie.
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Ora c’era il lungo ‘Nsansa ku bakaele!’ (Gioia a chi è fedele!), che rimpiazzava il Gloria, e io, seduto sullo scranno delle solennità, osservavo il popolo che mi stava davanti. Li conoscevo quasi tutti, uno per uno: Rosy, prostituta dei giorni feriali (doveva essere ridotto ben male chi la cercava, poveretta!) era come sempre in prima fila, e perfino più devota del solito; al suo fianco c’era Magdalene, ragazzina emaciata e tormentata dagli incubi da quando – decenne – era stata violentata dal papà ubriaco; poi c’era Sheila, ormai condannata dall’AIDS, e Mulenga, madre di cinque angioletti raccolti qua e là da quattro uomini diversi.
Dalla parte degli uomini spiccava Chanda, ubriacone inveterato, che cantava a squarciagola, incurante del suo fegato spappolato dalla cirrosi; al suo fianco Manuel, abbonato alle patrie galere per furti continuati, che sembrava voler sfondare il tamburo con le sua manacce callose. E poi Linus, sifilitico all’ultimo stadio, e Katongo il contrabbandiere, e quel sant’uomo di Makasa, cieco e sciancato, Mathias il lebbroso, e poi e poi … Dio mio, che campionario di umanità ferita, umiliata, assetata di speranza!
Fremevo rigirandomi il Vangelo tra le mani. Era un Vangelo forte, quello che mi assegnava la liturgia: uno splendido Luca, dove “una grossa folla venuta da tutte le parti assiepava Gesù per ascoltarlo e cercava di toccarlo per essere guarita dalle sue infermità” (Lc 6:17-19). Proprio il Vangelo che provocò Gesù a proclamare le beatitudini dei poveri, degli affamati, dei derelitti in lacrime. Mi sentivo un po’ come un cavallo puro sangue nell’imminenza della corsa: scalpitavo, insomma, nell’impazienza di spargere al vento il seme della Parola e a un certo punto, con scherzosa irriverenza, mi sentii di apostrofare il mio Cristo: “Capo, se mi dai una mano, oggi ti batto! Già la tua folla doveva essere stimolante, ma guarda qui che campionario!“.
E venne finalmente il Vangelo! Aggredii il leggio, mentre mentalmente pregavo: “Dai, Gesù, parla tu al posto mio!“ e lui parlò e parlò e poi parlò ancora! Io non esistevo davvero più, né più esisteva la folla per me: in un’atmosfera rarefatta e sospesa, perfino io mi sentivo ribollire il cuore alle ‘sue’ parole che mi uscivano di bocca. A un certo punto, madido di sudore e ansante, fui obbligato a fare una pausa; istintivamente mi venne fatto di guardare l’orologio e, dimenticando che non ero io, bensì ‘il Capo’ che aveva parlato, sbottai: “Ma no! Ma fatemi un segno, ditemi di smettere, no? E’ quasi un’ora che parlo, perbacco!” .
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E successe una cosa inattesa e sublime. Si alzò Mathias, il lebbroso, e in tono quasi risentito – ma con gli occhi lucidi di commozione – mi ordinò: “No, vai avanti! Lascia che lo Spirito parli, che ne abbiamo bisogno! Non sai che ci va tutto in sangue e vita?” e tutte le donne si misero a ululare all’unisono facendo guizzare la lingua tra le labbra dischiuse, in segno di totale approvazione e di incoraggiamento per me. “L’avete voluto voi; – scherzai – non lamentatevene poi: per me, è un invito a nozze!“.
E ‘Lui’ riprese a parlare. Fu un’omelia da non meno di un’ora e mezzo, e la santa Messa finì all’una passata da un po’. Quando uscii sul piazzale mi assediarono: “Non devi aver paura d’essere lungo!“. “Tu devi spezzarci il pane, se no dove la troviamo noi la forza per continuare il cammino?!“. “Oggi ci hai saziati, grazie!“. Mi commosse particolarmente una vecchietta poverissima che viveva nella topaia più indegna del sobborgo: “Padre, mi hai dato tanta gioia! Ora sono a posto per tutta la settimana“. “Nonna, – mi uscì detto conoscendola – da quanti giorni non mangi?” – “Da tre giorni, padre; ma oggi sono sazia lo stesso!” e se ne andò sorridendo, più arzilla che mai, dimenticandosi perfino di chiedermi le mille lire per il solito chilo di farina di mais.
Era tutto vero: le succedeva spesso di mangiare una o due volte la settimana, al punto che la fame le aveva rubato tutte le grinze: ora la pelle le aderiva liscia e lucida sull’ossatura sporgente del viso. Ma era anche vero che quel giorno non sentiva nemmeno i morsi della fame: era sazia di gioia e di speranza. Non potei fare a meno di pensare alle nostre assemblee eucaristiche in Italia, e ai tanti che sbirciano l’orologio se il prete osa scavalcare il limite di guardia dei dieci minuti di commento evangelico.
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Eppure è la stessa Parola. Ovviamente, non è la stessa fame! Forse sta proprio tutto lì. Non può afferrare la travolgente esultanza del Vangelo chi si avvicina al Pane di vita già sazio alla nausea. Meglio la fame nera, che aver totalmente perduto il senso della fame! Che terribile deve essere quella sazietà crassa e supina che ammazza il sogno e il desiderio, e ti deruba perfino della fame! Si può davvero morire d’ inedia (o di anoressia spirituale) una volta ucciso ogni stimolo. Non per nulla Lui – che se ne intendeva – proclamò beati gli affamati. E fu così che quel giorno Gesù volle farsi battere in fatto di miracoli. Eh sì, perché Lui, dopotutto, si era limitato a moltiplicare pani e pesci: una bazzecola, se ci pensate bene, a confronto di un’intera assemblea di fedeli che supplichi il predicatore di far la predica più lunga … e lascio ben giudicare a voi!