Un gesto di accudimento tenerissimo nel giorno della festa dei nonni, nostri angeli custodi a cui non dobbiamo far mancare protezione e amore C’è un gesto più intimo dell’accogliere il cibo alla bocca quando non si è capaci di mangiare da soli? È un atto di nuda resa e fiducia. Da piccoli è istintivo prendere il cibo dalla mano della mamma dopo essere stati attaccati al suo seno; la dipendenza non è un problema per il neonato, è anzi tutt’uno con la sua conoscenza volitiva del mondo ma non ancora autonoma.
Si dice poi che l’anzianità sia un ritorno all’infanzia, spesso ferito: la testa che produce pensieri non più completamente logici, l’incontinenza, la deambulazione difficoltosa e anche il bisogno di essere imboccati. Mia nonna non accettò mai con serenità il suo cedimento fisico e aggrottava le ciglia quando le offrivo il cibo che da sola non riusciva a mangiare; essere dipendente era un disagio fortissimo per lei che aveva scacciato i Tedeschi da casa sua durante la guerra, che aveva mandato avanti una famiglia con la sola forza delle sue braccia. Per smorzare la sua rabbia le raccontavo di quante volte mi aveva imboccato da piccola; io ero stata un “mangia-male”, ovvero inappettente e schizzinosa, e lei si prodigava a farmi manicaretti buonissimi.
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Ho ritrovato questa intensità di vita, e lacrime trattenute, nel video che sta facendo il giro del web e racconta una tenerissima storia di quotidiano accudimento: il nonno nel letto, girato su un fianco, che spalanca la bocca di fronte al nipotino che gli porge una papaya a cucchiaiate. Gli occhi sgranati e silenziosi del nonno sono sul bambino, il piccolo invece li fissa sul frutto per poterlo prendere al meglio con la posata. L’età dell’opera e l’età della resa s’incontrano, chi è indaffarato e chi attende.
Dante scrisse nel Convivio che la terza età è quella in cui occorre ammainare le vele, e non è mica facile accettare di essere bisognosi soprattutto nell’ambito di quei bisogno primari che l’orgoglio vorrebbe annoverare tra le autonomie. Un conto è farsi spiegare come si fa a telefonare con questi nuovi smatphone, un’altro è non riuscire ad andare in bagno senza aiuto esterno. Cedere, mostrarsi fragili, domandare e aspettare: negli occhi del nonno a letto c’è l’innocenza infantile velata di una malinconia disarmata. Forse la terapia giusta è proprio quella del bambino che “gioca” a dargli da mangiare, cioé lo fa nel migliore dei modi: il gioco è immedesimazione e riflessione, conoscenza creativa in opera. Voler bene, in questo caso, è tradotto nella memoria di un gesto che il nipotino ha visto fare su di sé e ora restituisce a chi ama.
Un adulto può correre il rischio, in questi casi, di sentirsi uno che adempie a un dovere, per quanto con affetto. Nel bambino il gesto è qualcosa di più istintivo e perciò profondo, perché pesca nel suo intimo ricordo di quel legame nutriente e totalizzante con la mamma. Non è così assurdo pensare che, imboccando il nonno, il piccolo s’immagini di farlo “crescere e diventare forte” come è accaduto a se stesso quando era nel seggiolone. Insomma, lì dove noi grandi c’immaginiamo una compagnia verso il fine vita, solo l’infanzia è quel regno che può capovolgere lo status quo e trattare la senilità come una piccolezza che ha bisogno di forze ed energie per un nuovo inizio. E Dio solo sa quanto è vero.
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