Dovrei smetterla di lamentarmi e imparare dalle piante che si piegano fino a spezzarsi quando sono piene di frutti
La stanchezza delle 19.13 mi spaventa, scende pesante e mi fa impazzire. La cena non è ancora pronta, i bambini strillano per casa affamati e stanchi di una giornata piena, mio marito è ancora per strada e arriverà se va bene tra un’ora. Sono sola con ancora un mucchio di cose da fare, e con troppe da pensare: è la premessa peggiore per il lamento incattivito. A fine giornata, anche quando tutto è filato liscio, può essere sempre la fine del mondo.
Il gatto riposa placido sul terrazzo e mi fissa imperturbabile come una divinità egizia, sembra parlarmi di una vita impossibile, senza la fatica fisica ed emotiva degli essere umani che mettono al mondo altri esseri umani, e se ne prendono cura. Famiglia è una parola quasi urticante da pronunciare, in quella parentesi serale prima di cena. Sono così stanca da rispondere a voce alta pure alla domanda immaginaria di un gatto.
«Sì, forse era meglio che fossimo solo io e te, Smith!» gli replico.
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La stanchezza delle 19.13 rende detestabile anche l’amica che chiama al telefono e a cui proprio non ho voglia di rispondere. Qualche volta a chiamare è mia madre, per sapere se ho bisogno, e allora mi sfogo con lei, capro espiatorio di un nervosismo tutto mio. Ogni presenza umana è un assillo in più, vorrei mettere un’etichetta come certi ascensori: max 3 persone. Anche meno, anche sola.
Questa intolleranza ai rapporti più stretti non accade una sera ogni tanto, accade spesso. Poi passa. Ma accade. È un momento di quotidiano furore, gretto e meschino. Ne farei a meno, vorrei sempre amare chi amo come si merita. La verità è che per amarli davvero e chiedere loro perdono, devo amare anche questa parte zoppa e viscerale di me.
Me lo ha ricordato l’orchidea sulle scale d’ingresso, è rifiorita dopo due anni di blocco. L’ho fissata giorno dopo giorno, sperando in qualche getto e invece il ramo grosso e spoglio è rimasto così fino al mese scorso. Altero, elegante, quasi nobile come fusto … eppure misero. All’improvviso i fiori sono arrivati, e adesso quel ramo è quasi spezzato in due per sostenerli. Ecco perché vendono le orchidee sempre ancorate a un bastoncino che le sostenga. I fiori pesano e sono quasi sproporzionati all’esile struttura della pianta.
Capita anche alla pianta di cachi: appena arrivano i frutti, l’albero sparisce e si accascia. È bellissimo da vedere: una macchia d’arancione intenso, una generosità di pomi sovrabbondante e proprio per questo un peso indicibile. Mi suscitano pena e meraviglia, quando ne vedo un campo pieno vicino alla scuola dei miei figli.
Forse l’orchidea è fiorita per recapitarmi un messaggio ad hoc, la bellezza è un peso sproporzionato. La gioia non è leggera, almeno quella che non è fine a se stessa. La felicità incurva la schiena, c’insegna Leopardi. Perché anche lui sentiva il peso della bellezza di Silvia, di un cielo che si apre oltre la siepe, della luna piena in un cielo terso. L’infinito è stipato di meraviglie dotate di gravità.
Cammino gobba come lui da quando ero adolescente, ma per un atteggiamento schivo che mi porto dentro dalla nascita; allora sì che avrei voluto essere leggera, impalpabile e invisibile. «Cammina dritta!» mi sento ripetere da sempre.
L’ortopedico ha ragione a dipingermi una vecchiaia piena di dolori, farò ginnastica posturale, lo prometto. Ma non voglio trascurare del tutto la voce di quei sei bellissimi fiori bianchi sulla mia scala.
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«Ora non sei più l’adolescente insoddisfatta e pessimista, sei una mamma stanca e felice» sembra dirmi l’orchidea. Le tre gravidanze non hanno solo peggiorato la curva dorsale, l’hanno proprio trasformata. Sto piegata perché porto un peso e non più perché mi sento un peso. È fatica arrivare a fine giornata senza sbuffare, anche senza che succedano cose clamorose. È una somma di piccole piccolissime necessità, premure, routine, fatiche a innescare quel vulcano di viscerale lamento alle 19.13 della sera che piega giù le spalle quasi fino all’ombelico.
Non ne vado fiera, ma non dovrei vergognarmene troppo … magari riderne. O forse solo ringraziare, anche di questo profilo sgradevole, l’opposto dell’incedere affascinante e sicuro della top model sulla passerella.
Di certo non posso paragonarmi a un’orchidea, ma a una pianta di cachi sì. La bellezza sì è incarnata nella mia vita in tre fanciulli rispettivamente di 55, 26 e 12 chili; si è incarnata in una casa che s’impolvera e produce spazzatura. È una gioia pesante, diversa da quella delle pubblicità che la raffigurano sempre con un sorriso spensierato sulle labbra. Forse, cambiando prospettiva di sguardo, anche una schiena piegata ha la forma di un sorriso.
La fatica che appesantisce corpo e mente può davvero essere diabolica e stravolgere la percezione di ciò che accade; il punto non è toglierla ma tentare di guardare il bene che la genera … perché la sorgente di tutta questa stanchezza non è una sventura, ma una benedizione. Devo metterlo per iscritto una volta per tutte e provare a ricordarmelo.
Ricordarsi cosa? Che il corpo cede di fronte a una presenza, non a un’illusione. Un’ipotesi di felicità può abitare in un paio di occhi raggianti, ma per viverla occorre scomodare muscoli e fiato. Significa ospitarla come sostanza, accoglierla nel regno dei litri, dei chili, dei decibel.
Hai presente il piccolo tonfo che fa l’ascensore appena ci metti piede sopra, quando sotto il peso della persona scende un pochino sotto il livello del piano? Ecco, è così che comincia una salita ai piani alti, forse anche al cielo.