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Salvatore è morto a 21 anni sul lavoro; il padre: “Angelo mio, aspettami in paradiso”

SALVATORE CALIANO
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Annalisa Teggi - pubblicato il 17/07/18
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Un secondo lavoro nell’ora di pausa gli è stato fatale. Lo strazio della famiglia ci fa meditare una volta di più sul mistero buono di Dio che abita la vulnerabilità inquieta della vita insieme a noi

Salvatore Caliano aveva 21 anni e lavorava come barista a Forcella, Napoli. Martedì scorso, il 10 luglio, è morto durante «l’ora di spacco»: anziché godersi il momento di pausa, si è recato in un palazzo nelle vicinanze per racimolare qualche soldo con un altro lavoretto, senza contratto. Per 35 euro puliva l’ascensore dello stabile e gli è stata fatale la premura di spolverare anche il lucernaio, senza protezioni. È caduto, un tragico volo di 10 metri.

Il padre Luigi è un idolo per i napoletani, essendo stato un attaccante molto munifico di gol nelle serie minori; condivideva col figlio la grande passione per il calcio e la città si è stretta al dolore di questa famiglia proprio mentre il resto del mondo aveva gli occhi puntati sul pantagruelico ingaggio di Cristiano Ronaldo alla Juventus.
Evito di indugiare troppo sulla sfacciata esuberanza monetaria a cui ci abitua la serie A, mentre un giovane avveduto si rimbocca le maniche per far tornare i propri conti, ben più piccoli e sani.



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Papà Luigi, nella fiumana in piena del dolore, ha pubblicato su Facebook un saluto al figlio in cui addita Salvatore come esempio di umiltà, educazione, generosità.

“Sono tre giorni che ci hai lasciati. Con il cuore a pezzi. Hai distrutto me, tua mamma, amici, parenti e una città intera. Non ho parole, non ci sono aggettivi per dirti quanto mi manchi e quanto manchi a tutti. Io da padre posso solo dirti che sei stato un esempio di questi giovani di oggi. Umiltà, educazione immensa, non sapevi mai dire di no. Ai ragazzi gli dico prendete esempio da lui, da oggi sarà il vostro angelo custode, proteggerà tutti i ragazzi del mondo per una vita rosea”. “Posso solo dirti angelo mio, il tuo papà e la tua mamma sono orgogliosi di te. Riposa in pace, aspettami in paradiso. (da Napoli Today)

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Non conoscevo quest’espressione per definire la pausa: l’ora di spacco. Fa pensare a un vaso rotto o a una brutta crepa per terra. Si sente il rumore forte, sordo, secco e senza eco. Spaccare in due la giornata lavorativa, spaccarsi la schiena, spaccare la vita e il cuore di una famiglia. Quanta potenza di senso in verbo che non accetta compromessi. Una frattura è una frattura. Una rottura è una lontananza che non si rimargina.
Il papà e la mamma di Salvatore sentono senza anestetici l’urto di questo spacco anche se i loro occhi si sono spinti su, verso il cielo. Niente da fare, tra noi e gli angeli, tra noi e il paradiso c’è questo spacco. Ed è morte.

Mi capitò, qualche anno fa, di porre la domanda più terribile a una mamma che aveva perso la figlia di 18 anni: come si vive il dolore? Lei fu molto esaustiva e sbrigativa, disse che era come le  mancasse un pezzo di corpo, come le avessero estratto l’intestino.

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Ora non riesco più a pronunciare la frase «mi manca» – quando un figlio è lontano anche solo per un giorno – senza sentire una contrazione alla pancia. È lo spacco, solo un minino riflesso.
Il cielo in tutto questo come fa a starci dentro, a lenire l’incomprensibile tragedia che accade e uccide il virgulto in fiore, la promessa, la speranza?


CARLO CASTAGNA
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Ci sta dentro perché è voluto starci dentro. Dio si è staccato e spaccato a sua volta. Qualche settimana fa ho comprato un libro che speravo lenisse le mie ansie e paure che borbottano dentro, s’intitola Inquietudine. L’effetto sortito è stato l’opposto. Non sono ancora così pronta a dire che sia un bene, ma la prospettiva ribaltata sta generando pensieri nuovi.
Noi abitiamo la vulnerabilità, se Gesù è venuto sulla Terra è stato per toglierci ogni dubbio su questa constatazione: con lui l’ultimo velo di superstizione è stato spazzato via; con l’intensità del suo sguardo vuoto di teorie e pieno di esperienza, l’urto degli eventi ci è stato donato appieno. Suggerisce l’autrice: non è forse un’immagine di profonda inquietudine quella di un Dio neonato, nudo in una grotta? A Betlemme non inizia una storia di consolazione e beatitudine, ma una proposta di condivisione dell’inquietudine.

Questa rivoluzione infastidirà anche me, che avrei preferito una ricetta della felicità, una guida, un manuale di vita, un Dio-guru dalla parola chiara.
Al contrario, fin dall’inizio il Vangelo mi dà un neonato fra le braccia, e mi dice: ecco il tuo Dio. Dato che tu sei fragile, si è fatto fragile, a sua volta. Conti su di lui? Hai ragione. E poiché conti su di lui, lui conta altrettanto su di te. Non siamo in una terra di certezze, ma in un cammino di fiducia: a ogni passo, rimetti in gioco ogni cosa. Non vi è alcun sì detto una volta per tutte. Se tu cercassi la quiete, staresti certamente sbagliando strada. (da Inquietudine di Marion Muller Colard)

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Forse tutta la nostra vita è un’ora di spacco, un’ora vulnerabile e pericolosa, che dà ancora più i brividi se pensiamo a quella dei nostri figli. Papà Luigi ha immaginato suo figlio come un angelo custode già impegnato a proteggere altre vite giovani. Ma non ha osato insultare l’angelo custode a cui era affidato il suo Salvatore; sarebbe una reazione lecita, ma ancora più lecito è la certezza che nell’ora della morte nessuno più del suo angelo custode sia stato accanto a lui.

Può lasciarci interdetti, ma la compagnia presente e viva di Dio abita l’inquietudine insieme a noi, non toglie i sassi piccoli e mastodontici dal cammino. Perché? Chiediamolo, ruminiamolo, una volta di più a cuore aperto.