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Per gioire ed esultare davvero l’unica via è donarsi totalmente, in ogni condizione di vita

BLESSED MARIA GABRIELLA
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Carmelo Veneto - pubblicato il 26/06/18
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L’appello di Papa Francesco nell’ultima esortazione apostolica passa anche attraverso gli occhi d’agnello di Maria Gabriella Sagheddu: una giovane sarda trappista di inizio Novecento che chiede il permesso alla madre superiora di offrire la propria vita per l’unità dei cristiani. Non solo slancio eroico ma totale obbedienza e un tratto inconfondibile, un indizio che diventa prova schiacciante: la gioia

Maria Gabriella ovvero “Il caso serio”

È, il caso di Maria Gabriella, precisamente quello che Von Balthasar chiamerebbe “il caso serio”: come il titolo di un suo aureo libricino del 1966, poco conosciuto e pubblicato, ma recentemente ristampato[9] come se la Provvidenza avesse voluto predisporre un consono retroterra teologico per cogliere il nuovo appello alla santità di Papa Francesco. Ne riportiamo alcuni stralci, traendo spunto proprio dalle parole di Gv 15,13 appena citate:

«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» sono fondamentalmente parole di umanità universale, comprensibili a tutti; diventano supreme ed un mistero sia perché egli le rivendica per sé, Figlio di Dio, sia perché permette a noi, suoi fedeli e seguaci, di farne la chiave della nostra concezione cristiana. Esistenza di fede significa dunque esistenza nella morte per amore. Non una qualsiasi dedizione, temperata dal giudizio del momento e manipolata dall’uomo, ma un’anticipazione dell’offerta della vita in ogni singola situazione di un’esistenza cristiana (pp. 40-41).

Solo se per principio tutto è offerto e sacrificato, se Dio è libero di scegliere ciò che vuole nel credente, senza riserve da parte sua, può aver luogo una missione cristiana. Solo da questo punto dell’incontro con il Dio che muore, può infatti maturare un frutto cristiano da un’esistenza di fede. Questo è sempre un frutto dell’amore, ma fondato sull’offerta che l’uomo fa di se stesso (pp. 44-45).

Tutto ciò è cristianesimo comune. Possibili differenze dipendenti dalla missione vengono soltanto in seguito. Tutto ciò rientra nel tentativo di imitazione di colui che come Cristo per amore del mondo vuole dare la sua vita per tutti, in obbedienza a quel Dio che ha tanto amato il mondo da dare per esso il suo Figlio unigenito. Vista dall’interno questa è la forma più alta, cioè introdotta da Dio, di affermazione del mondo (p. 46).

MARIA GABRIELLA SAGHEDDU

Monastero Trappiste Vitorchiano

Von Balthasar, con queste appassionate parole, si stava ribellando contro una concezione del cristianesimo che vedeva profilarsi all’orizzonte e che – questa sì – rischiava di sdilinquire l’universale chiamata alla santità e la radicalità dell’essere cristiano; di isterilire il valore della testimonianza – che o è martiriale nella sua sostanza o non è tale – in nome di un “cristianesimo anonimo” presente in ogni buona coscienza umana e di cui l’evento della croce – del “chi vuole venire dietro me rinneghi se stesso e prenda la sua croce” (Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23), del “chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,25) – sarebbe soltanto una “radicalizzazione” facoltativa “da caso ideale”, da intendere “in modo analogico”[10]. Con tutta la sensibilità profetica di cui era capace, questo grande teologo – che S. Giovanni Paolo II nominò cardinale poco prima della sua morte – ci ha messi drammaticamente in guardia su quanto reale sia il rischio, senza “casi seri” di donazione quali quello di Cordula o Maria Gabriella, che della croce rimanga soltanto un simbolo geometrico.

Mentre la logica della santità cristiana, a cui tutti Dio invita, è precisamente e imprescindibilmente, concretamente e inappellabilmente, “la logica del dono e della croce”. Ed è infatti questo il titolo dell’ultimo paragrafo dell’esortazione apostolica di Papa Francesco, a suggello di una lunghissima serie di appelli alla donazione di sé con cui il Pontefice tratteggia ora questo ora quell’aspetto della santità cristiana. Voglio riportarli, sinteticamente, per dare idea al lettore di quanto sia vivo il rosso di questo filo che si dipana lungo tutto il documento (i corsivi sono miei):

Questo dovrebbe entusiasmare e incoraggiare ciascuno a dare tutto sé stesso, per crescere verso quel progetto unico e irripetibile che Dio ha voluto per lui o per lei da tutta l’eternità: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato» (Ger 1,5)” (GE 13).

Poiché non si può capire Cristo senza il Regno che Egli è venuto a portare, la tua stessa missione è inseparabile dalla costruzione del Regno: «Cercate innanzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33). […] Pertanto non ti santificherai senza consegnarti corpo e anima per dare il meglio di te in tale impegno (GE 25).

Forse che lo Spirito Santo può inviarci a compiere una missione e nello stesso tempo chiederci di fuggire da essa, o che evitiamo di donarci totalmente per preservare la pace interiore? […] La sfida è vivere la propria donazione in maniera tale che gli sforzi abbiano un senso evangelico e ci identifichino sempre più con Gesù Cristo (GE 27-28).

Ci occorre uno spirito di santità che impregni tanto la solitudine quanto il servizio, tanto l’intimità quanto l’impegno evangelizzatore, così che ogni istante sia espressione di amore donato sotto lo sguardo del Signore. In questo modo, tutti i momenti saranno scalini nella nostra via di santificazione (GE 31).

Solo a partire dal dono di Dio, liberamente accolto e umilmente ricevuto, possiamo cooperare con i nostri sforzi per lasciarci trasformare sempre di più. La prima cosa è appartenere a Dio. Si tratta di offrirci a Lui che ci anticipa, di offrirgli le nostre capacità, il nostro impegno, la nostra lotta contro il male e la nostra creatività, affinché il suo dono gratuito cresca e si sviluppi in noi: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1)” (GE 56).

Potremmo pensare che diamo gloria a Dio solo con il culto e la preghiera, o unicamente osservando alcune norme etiche – è vero che il primato spetta alla relazione con Dio –, e dimentichiamo che il criterio per valutare la nostra vita è anzitutto ciò che abbiamo fatto agli altri. La preghiera è preziosa se alimenta una donazione quotidiana d’amore. Il nostro culto è gradito a Dio quando vi portiamo i propositi di vivere con generosità e quando lasciamo che il dono di Dio che in esso riceviamo si manifesti nella dedizione ai fratelli (GE 104).

Chi desidera veramente dare gloria a Dio con la propria vita, chi realmente anela a santificarsi perché la sua esistenza glorifichi il Santo, è chiamato a tormentarsi, spendersi e stancarsi cercando di vivere le opere di misericordia (GE 107).

La santificazione è un cammino comunitario, da fare a due a due. Così lo rispecchiano alcune comunità sante. In varie occasioni la Chiesa ha canonizzato intere comunità che hanno vissuto eroicamente il Vangelo o che hanno offerto a Dio la vita di tutti i loro membri (GE 141).

Infine, malgrado sembri ovvio, ricordiamo che la santità è fatta di apertura abituale alla trascendenza, che si esprime nella preghiera e nell’adorazione. Il santo è una persona dallo spirito orante, che ha bisogno di comunicare con Dio. È uno che non sopporta di soffocare nell’immanenza chiusa di questo mondo, e in mezzo ai suoi sforzi e al suo donarsi sospira per Dio, esce da sé nella lode e allarga i propri confini nella contemplazione del Signore (GE 147).

In questo cammino, lo sviluppo del bene, la maturazione spirituale e la crescita dell’amore sono il miglior contrappeso nei confronti del male. Nessuno resiste se sceglie di indugiare in un punto morto, se si accontenta di poco, se smette di sognare di offrire al Signore una dedizione più bella (GE 163).

La logica del dono e della croce. Non si fa discernimento per scoprire cos’altro possiamo ricavare da questa vita, ma per riconoscere come possiamo compiere meglio la missione che ci è stata affidata nel Battesimo, e ciò implica essere disposti a rinunce fino a dare tutto. Infatti, la felicità è paradossale e ci regala le migliori esperienze quando accettiamo quella logica misteriosa che non è di questo mondo. Come diceva san Bonaventura riferendosi alla croce: «Questa è la nostra logica» (GE 174).

Quando scrutiamo davanti a Dio le strade della vita, non ci sono spazi che restino esclusi. In tutti gli aspetti dell’esistenza possiamo continuare a crescere e offrire a Dio qualcosa di più, perfino in quelli nei quali sperimentiamo le difficoltà più forti (GE 175).

Ecco, in breve, quella che mi pare l’ossatura del documento: alla quale è chiesto di dare carne, la nostra carne, “come sacrificio vivente e gradito a Dio” (Rm 12,1). La beata Maria Gabriella ci ricorda che l’autodonazione in cui consiste la santità, se veramente tale, non può fare sconti, non può dire “solo fino a qui mi dono, solo fino a qui mi sacrifico”. Ogni cristiano, se vuol essere davvero santo, è dunque chiamato anzitutto a capire fino a dove vuole arrivare. Papa Francesco, adducendo l’esempio di Maria Gabriella come esemplare imitazione di Cristo, ci sta ricordando che non potremo sbagliarci se guarderemo fino a dove è arrivato Lui: “fino alla fine” (Gv 13,1). Li amò fino alla fine. È chiaro che per arrivare a questo amore la buona volontà non basta, anzi è assolutamente inutile. Come ha reagito Maria Gabriella di fronte a questa constatazione? Con l’unica risposta logicamente possibile, se la nostra logica è quella sopra enunciata:

È veramente grande l’amore di Gesù e nessuna creatura per quanto perfetta arriverà mai a uguagliare questo amore. L’amore di Gesù purifica, brucia, incendia i cuori […] Quando penso a questo, mi confondo nel vedere il grande amore di Gesù per me, e la mia ingratitudine e incorrispondenza alle sue predilezioni. Adesso comprendo bene quel detto che dice che Dio non vuole la morte del peccatore, ma che gli si converta e viva, perché l’ho sperimentato in me. Egli ha fatto a me come il figliol prodigo (L 7[11]);

O Gesù, io mi offro con te in unione al tuo sacrifico, e sebbene sia indegna e da nulla, spero fermamente che il divin Padre guardi con occhi di compiacenza la mia piccola offerta, perché sono unita a Te e del resto ho dato tutto ciò che era in mio potere. O Gesù, consumami come una piccola ostia di Amore per la tua gloria e per la salvezza delle anime” (L 23);

La mia felicità è tanto grande e nessuno può togliermela. È più grande di quella che godono i ricchi nei loro palazzi perché questi, forse mentre godono, hanno forse la morte nel cuore. Non c’è felicità più grande di quella di poter soffrire qualche cosa per amore di Gesù e per la salvezza delle anime. Siate felice anche voi, madre mia, e ringraziate il Signore di questa grazia grande che ha fatto a voi e a me” (L 34); “Gesù mi ha scelta quale privilegiata dell’amor Suo dandomi la sofferenza per rendermi più simile a Lui ed io ne sono ben felice e lo ringrazio. Sento che non arriverò mai a capire abbastanza l’amore che Gesù mi dimostra in offrirmi questa croce…  (L 40).

Parole traboccanti di gioia, eppure pallidi riverberi della felicità che sfolgorò nel cuore di Gabriella, di Teresina, e nella beatitudine di chiunque riesca a sbloccarsi, a donarsi fino in fondo: “La parola «felice» o «beato» diventa sinonimo di «santo», perché esprime che la persona fedele a Dio e che vive la sua Parola raggiunge, nel dono di sé, la vera beatitudine” (GE 64: notiamo come anche qui, nella parte centrale dell’esortazione di Francesco in cui la santità cristiana è evocata secondo le coordinate delle beatitudini evangeliche, campeggi il dono di sé). Maria Gabriella ci ricorda così, nella sua felicità sconfinata, che quanto più si vive la donazione di sé tanto più si vive la felicità dei santi, su cui il Santo Padre si sente in dovere di fare una precisazione teologica di non poco momento (come se non bastasse la scelta emblematica del titolo dell’esortazione!):

Quanto detto finora non implica uno spirito inibito, triste, acido, malinconico, o un basso profilo senza energia. Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza. Essere cristiani è «gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17), perché «all’amore di carità segue necessariamente la gioia. Poiché chi ama gode sempre dell’unione con l’amato […] Per cui alla carità segue la gioia» (S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 70, a. 3). Abbiamo ricevuto la bellezza della sua Parola e la accogliamo «in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo» (1 Ts 1,6). Se lasciamo che il Signore ci faccia uscire dal nostro guscio e ci cambi la vita, allora potremo realizzare ciò che chiedeva san Paolo: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti» (Fil 4,4) (GE 122).

Ora, il Carmelo è precisamente – anche se non esclusivamente – il luogo dove è possibile constatare storicamente quanto queste parole siano vere, quanto le felicità più grandi siano quelle conseguite dalle anime che più s’offrirono e soffrirono (è davvero uno questione d’apostrofo): da S. Teresa di Gesù e S. Giovanni della Croce, che morirono dalla voglia di “vedere Dio” lasciando memorabili versi di desiderio struggente, a S. Teresa di Gesù Bambino, “mistica e comica”[12] che si sentiva in uno stato di perenne “baldoria spirituale”[13] (anche negli ultimi anni della sua notte oscura), alla “gioia contagiosa” di Maria Teresa Gonzalez-Quevedo[14] alla “fiamma di gioia” di Maria Angelica di Gesù (Yvonne Bisiaux)[15] alla “vacanza infinita” di S. Teresa di Los Andes[16]: nel giardino del Carmelo è un continuo zampillare di gioia, sotto l’albero della croce.

La gioia della festa esagerata dei figlioli prodighi, di coloro che hanno sentito scorrere su di sé le misericordie del Signore: è questo “l’esercito dei perdonati” (GE 82) che diventa a sua volta un esercito di “donati”. È questo quanto il Papa si augura e auspica per tutti. Perché in questa mistica dell’offerta totale di sé non potrebbe indicarci antidoti migliori contro i letali nemici della santità individuati dall’esortazione: il neognosticismo (GE 36-46), il neopelagianesimo (GE 47-62), la riduzione del cristianesimo a ONG (GE 100)[17]. Ma attenzione: questo non vuol dire che Papa Francesco auspichi per tutti un “atto di offerta” della propria vita, formale, quale quello che fecero la beata Maria Gabriella Sagheddu o S. Teresina. C’è un’altra citazione carmelitana di capitale importanza di cui tener conto all’inizio dell’esortazione: quella tratta dal Cantico Spirituale di S. Giovanni della Croce, con cui il Doctor mysticus precisa che non ci sono regole fisse per tutti, e che ognuno deve giovarsi “a modo suo” dei suoi versi, del suo radicale invito alla testimonianza cristiana (GE 11).

Papa Francesco, avendo citato poche righe prima il caso di Maria Gabriella e additandola come esempio universale, intende semplicemente ribadire che non possiamo concepire la santa testimonianza cristiana come qualcosa che esuli dal dono totale di sé, a prescindere dal fatto che questo dono avvenga in una forma di vita consacrata o laicale. Il desiderio mistico di Maria Gabriella e di Teresina di offrire la propria vita, accettando anche una morte a breve termine per conformarsi al proprio sposo, unendo le proprie sofferenze alle Sue per la salvezza delle anime (Col 1,24), non è che la visibilizzazione, la manifestazione “sugli altari” di quanto ogni cristiano che senta sul serio la chiamata alla santità è chiamato a vivere: comprendendo che il chicco di grano, se vuol far frutto, non può non accettare per amor Suo la propria morte (naturale o prematura); che la croce è ciò che necessariamente deve apparire su quel chicco se vogliamo che si franga in spiga; che il Battesimo è immersione non in altro che nella morte e risurrezione del Signore; che il martirio, se solo per alcuni può essere di spada, per tutti può essere di spilli. La spiritualità dell’offerta della vita ci inchioda al ricordo di quale sia la posta in gioco: non una proposta morale, non una passione a noi estranea, ma vera morte e vera nascita, come in ogni vera storia d’Amore che si rispetti.

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