L’appello di Papa Francesco nell’ultima esortazione apostolica passa anche attraverso gli occhi d’agnello di Maria Gabriella Sagheddu: una giovane sarda trappista di inizio Novecento che chiede il permesso alla madre superiora di offrire la propria vita per l’unità dei cristiani. Non solo slancio eroico ma totale obbedienza e un tratto inconfondibile, un indizio che diventa prova schiacciante: la gioia
di F. Iacopo Iadarola ocd
L’ultima esortazione apostolica di Papa Francesco sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, more solito, lascia spiazzati. Confidando in altri per il compito di contestualizzare e approfondire opportunamente questa preziosa tessera nel mosaico del magistero pontificio, vorrei condividere in questo articolo quanto di intimamente carmelitano risuona nell’appello di Francesco. E non mi sto riferendo tanto alle preponderanti citazioni di autori carmelitani – almeno una dozzina[1] – quanto a quello che mi sembra essere il leitmotiv di tutto il documento, al di là delle esplicite citazioni: l’idea che la santità coincida in primo luogo, prima ancora di prendere in considerazione percorsi etici, ascetici e di perfezione, con l’offerta totale di sé. E che “cos’è un’esistenza carmelitana? Offerta di tutto il proprio essere al Dio di Gesù Cristo, affinché Egli usi e consumi quest’essere secondo il suo amoroso beneplacito per l’opera della redenzione. Si deve riconoscere in essa la vera identità dell’amore del prossimo con l’amore di Dio”[2].
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Una beata sorpresa
Ora, a suggerirci come chiave di lettura di questo documento l’offerta della propria vita, in maniera fin troppo dichiarata, è il primo esempio di santità che Papa Francesco espone a bruciapelo, nei primissimi numeri del documento:
I santi che già sono giunti alla presenza di Dio mantengono con noi legami d’amore e di comunione. Lo attesta il libro dell’Apocalisse quando parla dei martiri che intercedono: «Vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso. E gridarono a gran voce: “Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia?”»(6,9-10) […] Nei processi di beatificazione e canonizzazione si prendono in considerazione i segni di eroicità nell’esercizio delle virtù, il sacrificio della vita nel martirio e anche i casi nei quali si sia verificata un’offerta della propria vita per gli altri, mantenuta fino alla morte. Questa donazione esprime un’imitazione esemplare di Cristo, ed è degna dell’ammirazione dei fedeli. Ricordiamo, ad esempio, la beata Maria Gabriella Sagheddu, che ha offerto la sua vita per l’unità dei cristiani (GE 4-5).
Molti si sarebbero aspettati che Papa Francesco, in una esortazione sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, avrebbe indicato in primis qualche laico o laica segnalatasi in qualche recente vicenda di attualità, e invece ci siamo ritrovati di fronte una monaca trappista morta nel 1939. E moltissimi saranno andati a far ricerche su questa semisconosciuta beata[3], Maria Gabriella Sagheddu, pastorella sarda dagli occhi di agnella, immortalata in una foto, poco prima di entrare in monastero, in cui brilla un sorriso tanto dolce quanto furbo: la furbizia di chi sa di aver scovato una scorciatoia per farsi santa e giungere fra le braccia dell’Amato. Un’anima semplice, pura, in nulla eccezionale se non nel suo pronto sì, a vent’anni, alla vocazione con cui il Signore la chiamò a divenire Sua sposa.
In pieno abbandono e totale docilità – lei che, prima della chiamata, fu testarda e ostinata – si fece mandare dal suo parroco nella Trappa di Grottaferrata (RM): uno degli ordini claustrali più austeri, e senza che ella sapesse nulla di questa famiglia religiosa. Nella quale tuttavia si sentì subito a casa, e in cui con grande entusiasmo s’immedesimò da subito, nelle interminabili preghiere, nelle alzate notturne, nei canti per cui era negata. L’unica sua paura, quasi ossessiva, era quella di essere rimandata a casa, che le si dicesse che non era idonea alla Trappa; tanto temeva ciò quanto ardeva di andare avanti nel cammino di consacrazione, per giungere felicemente alla professione dei voti. E dopo di questa, una corsa così animata non poteva arrestarsi; doveva invece trovare un nuovo sbocco per una donazione ancora più totale.
Qui viene la grande opera che Dio ha compiuto in lei, e per la quale la veneriamo come beata. Nel 1938, in occasione dell’ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani, la madre Priora propone a tutte le sue monache di offrire preghiere e sacrifici per tale fine spirituale, leggendo una circolare di Paul Couturier – non sarà fuori luogo notare che allora l’ecumenismo in ambito cattolico era ai suoi primi passi, e che la Trappa di Grottaferrata fu veramente profetica nell’accogliere con generosità gli inviti all’ecumenismo spirituale inaugurato da Couturier, quali quello trasmesso dalla Priora. Maria Gabriella, con lo stesso incosciente slancio con cui era entrata nella Trappa, subito le chiede il permesso di offrire se stessa, con una commovente semplicità: “Mi lasci offrire la mia vita, tanto, che cosa vale? Io non faccio niente, non ho mai fatto niente…”. Non è falsa modestia: Gabriella fu veramente convinta di ciò, di quella convinzione che spesso manca a noi, “a voi, che dite: «Oggi o domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni», mentre non sapete quale sarà domani la vostra vita! Siete come vapore che appare per un istante e poi scompare” (Gc 4,13-14).
Ora, in questo totale senso di impotenza, condizione imprescindibile per un abbandono e un’offerta totali a Dio, la configurazione spirituale dell’anima di Gabriella venne a combaciare perfettamente con quella di Teresina[4]. Anzitutto rilevo come l’offerta della propria vita fu sollecitata in lei dalla madre Priora, Madre Maria Pia Gullini, che fu un’anima permeata della spiritualità della piccola via di Teresina[5]. In secondo luogo non è un frate carmelitano quale il sottoscritto ad asserirlo, ma è una stessa monaca trappista, Madre Monica della Volpe, e constatare il background carmelitano di Maria Gabriella: “È la stessa santità di Teresa di Lisieux che Gabriella ci propone, spogliata non solo di tutto ciò che è straordinario, ma anche della dolce personalità di donna che emerge dagli scritti di Teresa e ci incanta con le sue parole. Qui rimane solo una piccola monaca che ha vissuto la vita normale del suo stato, nulla di più”[6].
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Effettivamente Teresa, come Gabriella, offrì la sua vita nella semplicità, partendo dal quotidiano, dalle piccole cose di tutti i giorni e culminando nell’atto di Offerta di me stessa come Vittima d’Olocausto all’Amore Misericordioso, puntualmente citato nella Gaudete et exsultate in questo passaggio: “I santi evitano di porre la fiducia nelle loro azioni: «Alla sera di questa vita, comparirò davanti a te a mani vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare le mie opere. Ogni nostra giustizia è imperfetta ai tuoi occhi»” (GE 54).
Tornando dunque alla nostra esortazione, grazie a questi riferimenti, constatiamo come cominci a delinearsi l’ideale di santità proposto da Papa Francesco per un traguardo universalmente raggiungibile nel mondo contemporaneo. La santità per tutti, la santità “della porta accanto”, la “classe media della santità” (GE 6-7) proclamata da Papa Francesco non è, come superficialmente si potrebbe credere, una santità a buon mercato, mediocrizzata, democraticizzata: la Trappa di Maria Gabriella, menzionata all’inizio del documento, dovrebbe far piazza pulita di questi fraintendimenti.
La santità auspicata per l’intero popolo di Dio, invece, è la santità di chi, sentendosi piccolo e impotente di fronte allo sconfinato amore cui si vorrebbe corrispondere, non pensa di poter fare questo o quello; di chi pensa, bensì, di non poter fare assolutamente niente. Per questo offre tutto. Tutto quel poco che ha: come la vedova che getta il suo obolo nel tesoro del tempio e che commosse tanto Gesù, che vi vide una prefigurazione della propria donazione: “Ricordiamo come Gesù invitava i suoi discepoli a fare attenzione ai particolari. Il piccolo particolare che si stava esaurendo il vino in una festa. Il piccolo particolare che mancava una pecora. Il piccolo particolare della vedova che offrì le sue due monetine” (GE 144). E, continuando a scrutare nei particolari, potremmo aggiungere che il testo greco del Vangelo (Mc 12,44) riporta che la vedova gettò non “tutto quanto aveva per vivere”, come leggiamo in traduzione, ma precisamente “holon ton bion – tutta la sua vita” …
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Maria Gabriella, come la vedova, a scanso di possibili ribassi ci indica sin dall’inizio dell’esortazione apostolica quale sia la misura del donarsi di chi aspira alla santità: niente di meno che tutto. In questo precisamente è consistito l’atto di offerta della sua vita, che il Signore si è degnato – come già per Teresina – di prendere alla lettera: poco tempo dopo che il loro atto di offerta fu riferito alle rispettive priore, comparvero i primi sintomi della tubercolosi che avrebbe portato in cielo ambedue, a 24 e 25 anni[7].
Teresina non si era fatta scrupoli di proporre la sua piccola via – di cui il suo atto di Offerta di me stessa come Vittima d’Olocausto all’Amore Misericordioso è il compendio dottrinale e pratico – a tutte le anime cristiane. Papa Francesco, con la stessa audacia e agli antipodi di un’interpretazione minimalista della sua esortazione, propone come chiave di lettura di tutto il suo documento, come una chiave musicale all’inizio di uno spartito, il caso di Maria Gabriella: caso di “imitazione esemplare di Cristo”, “degno dell’ammirazione dei fedeli” (GE 5). Non è di secondaria importanza, inoltre, che a un caso come questo venga data tanta rilevanza da essere esplicitamente accostato (cf. GE, nota 2) alle fattispecie contemplate del recente motu proprio dello stesso Papa Francesco Maiorem hac dilectionem: documento con cui, a partire dalle parole evangeliche “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri fratelli” (Gv 15,13), è stata ufficialmente aperta una nuova via alla canonizzazione dei fedeli, quella appunto del fedele che ha offerto la propria vita propter caritatem[8].
Maria Gabriella ovvero “Il caso serio”
È, il caso di Maria Gabriella, precisamente quello che Von Balthasar chiamerebbe “il caso serio”: come il titolo di un suo aureo libricino del 1966, poco conosciuto e pubblicato, ma recentemente ristampato[9] come se la Provvidenza avesse voluto predisporre un consono retroterra teologico per cogliere il nuovo appello alla santità di Papa Francesco. Ne riportiamo alcuni stralci, traendo spunto proprio dalle parole di Gv 15,13 appena citate:
«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» sono fondamentalmente parole di umanità universale, comprensibili a tutti; diventano supreme ed un mistero sia perché egli le rivendica per sé, Figlio di Dio, sia perché permette a noi, suoi fedeli e seguaci, di farne la chiave della nostra concezione cristiana. Esistenza di fede significa dunque esistenza nella morte per amore. Non una qualsiasi dedizione, temperata dal giudizio del momento e manipolata dall’uomo, ma un’anticipazione dell’offerta della vita in ogni singola situazione di un’esistenza cristiana (pp. 40-41).
Solo se per principio tutto è offerto e sacrificato, se Dio è libero di scegliere ciò che vuole nel credente, senza riserve da parte sua, può aver luogo una missione cristiana. Solo da questo punto dell’incontro con il Dio che muore, può infatti maturare un frutto cristiano da un’esistenza di fede. Questo è sempre un frutto dell’amore, ma fondato sull’offerta che l’uomo fa di se stesso (pp. 44-45).
Tutto ciò è cristianesimo comune. Possibili differenze dipendenti dalla missione vengono soltanto in seguito. Tutto ciò rientra nel tentativo di imitazione di colui che come Cristo per amore del mondo vuole dare la sua vita per tutti, in obbedienza a quel Dio che ha tanto amato il mondo da dare per esso il suo Figlio unigenito. Vista dall’interno questa è la forma più alta, cioè introdotta da Dio, di affermazione del mondo (p. 46).
Von Balthasar, con queste appassionate parole, si stava ribellando contro una concezione del cristianesimo che vedeva profilarsi all’orizzonte e che – questa sì – rischiava di sdilinquire l’universale chiamata alla santità e la radicalità dell’essere cristiano; di isterilire il valore della testimonianza – che o è martiriale nella sua sostanza o non è tale – in nome di un “cristianesimo anonimo” presente in ogni buona coscienza umana e di cui l’evento della croce – del “chi vuole venire dietro me rinneghi se stesso e prenda la sua croce” (Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23), del “chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,25) – sarebbe soltanto una “radicalizzazione” facoltativa “da caso ideale”, da intendere “in modo analogico”[10]. Con tutta la sensibilità profetica di cui era capace, questo grande teologo – che S. Giovanni Paolo II nominò cardinale poco prima della sua morte – ci ha messi drammaticamente in guardia su quanto reale sia il rischio, senza “casi seri” di donazione quali quello di Cordula o Maria Gabriella, che della croce rimanga soltanto un simbolo geometrico.
Mentre la logica della santità cristiana, a cui tutti Dio invita, è precisamente e imprescindibilmente, concretamente e inappellabilmente, “la logica del dono e della croce”. Ed è infatti questo il titolo dell’ultimo paragrafo dell’esortazione apostolica di Papa Francesco, a suggello di una lunghissima serie di appelli alla donazione di sé con cui il Pontefice tratteggia ora questo ora quell’aspetto della santità cristiana. Voglio riportarli, sinteticamente, per dare idea al lettore di quanto sia vivo il rosso di questo filo che si dipana lungo tutto il documento (i corsivi sono miei):
Questo dovrebbe entusiasmare e incoraggiare ciascuno a dare tutto sé stesso, per crescere verso quel progetto unico e irripetibile che Dio ha voluto per lui o per lei da tutta l’eternità: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato» (Ger 1,5)” (GE 13).
Poiché non si può capire Cristo senza il Regno che Egli è venuto a portare, la tua stessa missione è inseparabile dalla costruzione del Regno: «Cercate innanzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33). […] Pertanto non ti santificherai senza consegnarti corpo e anima per dare il meglio di te in tale impegno (GE 25).
Forse che lo Spirito Santo può inviarci a compiere una missione e nello stesso tempo chiederci di fuggire da essa, o che evitiamo di donarci totalmente per preservare la pace interiore? […] La sfida è vivere la propria donazione in maniera tale che gli sforzi abbiano un senso evangelico e ci identifichino sempre più con Gesù Cristo (GE 27-28).
Ci occorre uno spirito di santità che impregni tanto la solitudine quanto il servizio, tanto l’intimità quanto l’impegno evangelizzatore, così che ogni istante sia espressione di amore donato sotto lo sguardo del Signore. In questo modo, tutti i momenti saranno scalini nella nostra via di santificazione (GE 31).
Solo a partire dal dono di Dio, liberamente accolto e umilmente ricevuto, possiamo cooperare con i nostri sforzi per lasciarci trasformare sempre di più. La prima cosa è appartenere a Dio. Si tratta di offrirci a Lui che ci anticipa, di offrirgli le nostre capacità, il nostro impegno, la nostra lotta contro il male e la nostra creatività, affinché il suo dono gratuito cresca e si sviluppi in noi: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1)” (GE 56).
Potremmo pensare che diamo gloria a Dio solo con il culto e la preghiera, o unicamente osservando alcune norme etiche – è vero che il primato spetta alla relazione con Dio –, e dimentichiamo che il criterio per valutare la nostra vita è anzitutto ciò che abbiamo fatto agli altri. La preghiera è preziosa se alimenta una donazione quotidiana d’amore. Il nostro culto è gradito a Dio quando vi portiamo i propositi di vivere con generosità e quando lasciamo che il dono di Dio che in esso riceviamo si manifesti nella dedizione ai fratelli (GE 104).
Chi desidera veramente dare gloria a Dio con la propria vita, chi realmente anela a santificarsi perché la sua esistenza glorifichi il Santo, è chiamato a tormentarsi, spendersi e stancarsi cercando di vivere le opere di misericordia (GE 107).
La santificazione è un cammino comunitario, da fare a due a due. Così lo rispecchiano alcune comunità sante. In varie occasioni la Chiesa ha canonizzato intere comunità che hanno vissuto eroicamente il Vangelo o che hanno offerto a Dio la vita di tutti i loro membri (GE 141).
Infine, malgrado sembri ovvio, ricordiamo che la santità è fatta di apertura abituale alla trascendenza, che si esprime nella preghiera e nell’adorazione. Il santo è una persona dallo spirito orante, che ha bisogno di comunicare con Dio. È uno che non sopporta di soffocare nell’immanenza chiusa di questo mondo, e in mezzo ai suoi sforzi e al suo donarsi sospira per Dio, esce da sé nella lode e allarga i propri confini nella contemplazione del Signore (GE 147).
In questo cammino, lo sviluppo del bene, la maturazione spirituale e la crescita dell’amore sono il miglior contrappeso nei confronti del male. Nessuno resiste se sceglie di indugiare in un punto morto, se si accontenta di poco, se smette di sognare di offrire al Signore una dedizione più bella (GE 163).
La logica del dono e della croce. Non si fa discernimento per scoprire cos’altro possiamo ricavare da questa vita, ma per riconoscere come possiamo compiere meglio la missione che ci è stata affidata nel Battesimo, e ciò implica essere disposti a rinunce fino a dare tutto. Infatti, la felicità è paradossale e ci regala le migliori esperienze quando accettiamo quella logica misteriosa che non è di questo mondo. Come diceva san Bonaventura riferendosi alla croce: «Questa è la nostra logica» (GE 174).
Quando scrutiamo davanti a Dio le strade della vita, non ci sono spazi che restino esclusi. In tutti gli aspetti dell’esistenza possiamo continuare a crescere e offrire a Dio qualcosa di più, perfino in quelli nei quali sperimentiamo le difficoltà più forti (GE 175).
Ecco, in breve, quella che mi pare l’ossatura del documento: alla quale è chiesto di dare carne, la nostra carne, “come sacrificio vivente e gradito a Dio” (Rm 12,1). La beata Maria Gabriella ci ricorda che l’autodonazione in cui consiste la santità, se veramente tale, non può fare sconti, non può dire “solo fino a qui mi dono, solo fino a qui mi sacrifico”. Ogni cristiano, se vuol essere davvero santo, è dunque chiamato anzitutto a capire fino a dove vuole arrivare. Papa Francesco, adducendo l’esempio di Maria Gabriella come esemplare imitazione di Cristo, ci sta ricordando che non potremo sbagliarci se guarderemo fino a dove è arrivato Lui: “fino alla fine” (Gv 13,1). Li amò fino alla fine. È chiaro che per arrivare a questo amore la buona volontà non basta, anzi è assolutamente inutile. Come ha reagito Maria Gabriella di fronte a questa constatazione? Con l’unica risposta logicamente possibile, se la nostra logica è quella sopra enunciata:
È veramente grande l’amore di Gesù e nessuna creatura per quanto perfetta arriverà mai a uguagliare questo amore. L’amore di Gesù purifica, brucia, incendia i cuori […] Quando penso a questo, mi confondo nel vedere il grande amore di Gesù per me, e la mia ingratitudine e incorrispondenza alle sue predilezioni. Adesso comprendo bene quel detto che dice che Dio non vuole la morte del peccatore, ma che gli si converta e viva, perché l’ho sperimentato in me. Egli ha fatto a me come il figliol prodigo (L 7[11]);
O Gesù, io mi offro con te in unione al tuo sacrifico, e sebbene sia indegna e da nulla, spero fermamente che il divin Padre guardi con occhi di compiacenza la mia piccola offerta, perché sono unita a Te e del resto ho dato tutto ciò che era in mio potere. O Gesù, consumami come una piccola ostia di Amore per la tua gloria e per la salvezza delle anime” (L 23);
La mia felicità è tanto grande e nessuno può togliermela. È più grande di quella che godono i ricchi nei loro palazzi perché questi, forse mentre godono, hanno forse la morte nel cuore. Non c’è felicità più grande di quella di poter soffrire qualche cosa per amore di Gesù e per la salvezza delle anime. Siate felice anche voi, madre mia, e ringraziate il Signore di questa grazia grande che ha fatto a voi e a me” (L 34); “Gesù mi ha scelta quale privilegiata dell’amor Suo dandomi la sofferenza per rendermi più simile a Lui ed io ne sono ben felice e lo ringrazio. Sento che non arriverò mai a capire abbastanza l’amore che Gesù mi dimostra in offrirmi questa croce… (L 40).
Parole traboccanti di gioia, eppure pallidi riverberi della felicità che sfolgorò nel cuore di Gabriella, di Teresina, e nella beatitudine di chiunque riesca a sbloccarsi, a donarsi fino in fondo: “La parola «felice» o «beato» diventa sinonimo di «santo», perché esprime che la persona fedele a Dio e che vive la sua Parola raggiunge, nel dono di sé, la vera beatitudine” (GE 64: notiamo come anche qui, nella parte centrale dell’esortazione di Francesco in cui la santità cristiana è evocata secondo le coordinate delle beatitudini evangeliche, campeggi il dono di sé). Maria Gabriella ci ricorda così, nella sua felicità sconfinata, che quanto più si vive la donazione di sé tanto più si vive la felicità dei santi, su cui il Santo Padre si sente in dovere di fare una precisazione teologica di non poco momento (come se non bastasse la scelta emblematica del titolo dell’esortazione!):
Quanto detto finora non implica uno spirito inibito, triste, acido, malinconico, o un basso profilo senza energia. Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza. Essere cristiani è «gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17), perché «all’amore di carità segue necessariamente la gioia. Poiché chi ama gode sempre dell’unione con l’amato […] Per cui alla carità segue la gioia» (S. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 70, a. 3). Abbiamo ricevuto la bellezza della sua Parola e la accogliamo «in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo» (1 Ts 1,6). Se lasciamo che il Signore ci faccia uscire dal nostro guscio e ci cambi la vita, allora potremo realizzare ciò che chiedeva san Paolo: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti» (Fil 4,4) (GE 122).
Ora, il Carmelo è precisamente – anche se non esclusivamente – il luogo dove è possibile constatare storicamente quanto queste parole siano vere, quanto le felicità più grandi siano quelle conseguite dalle anime che più s’offrirono e soffrirono (è davvero uno questione d’apostrofo): da S. Teresa di Gesù e S. Giovanni della Croce, che morirono dalla voglia di “vedere Dio” lasciando memorabili versi di desiderio struggente, a S. Teresa di Gesù Bambino, “mistica e comica”[12] che si sentiva in uno stato di perenne “baldoria spirituale”[13] (anche negli ultimi anni della sua notte oscura), alla “gioia contagiosa” di Maria Teresa Gonzalez-Quevedo[14] alla “fiamma di gioia” di Maria Angelica di Gesù (Yvonne Bisiaux)[15] alla “vacanza infinita” di S. Teresa di Los Andes[16]: nel giardino del Carmelo è un continuo zampillare di gioia, sotto l’albero della croce.
La gioia della festa esagerata dei figlioli prodighi, di coloro che hanno sentito scorrere su di sé le misericordie del Signore: è questo “l’esercito dei perdonati” (GE 82) che diventa a sua volta un esercito di “donati”. È questo quanto il Papa si augura e auspica per tutti. Perché in questa mistica dell’offerta totale di sé non potrebbe indicarci antidoti migliori contro i letali nemici della santità individuati dall’esortazione: il neognosticismo (GE 36-46), il neopelagianesimo (GE 47-62), la riduzione del cristianesimo a ONG (GE 100)[17]. Ma attenzione: questo non vuol dire che Papa Francesco auspichi per tutti un “atto di offerta” della propria vita, formale, quale quello che fecero la beata Maria Gabriella Sagheddu o S. Teresina. C’è un’altra citazione carmelitana di capitale importanza di cui tener conto all’inizio dell’esortazione: quella tratta dal Cantico Spirituale di S. Giovanni della Croce, con cui il Doctor mysticus precisa che non ci sono regole fisse per tutti, e che ognuno deve giovarsi “a modo suo” dei suoi versi, del suo radicale invito alla testimonianza cristiana (GE 11).
Papa Francesco, avendo citato poche righe prima il caso di Maria Gabriella e additandola come esempio universale, intende semplicemente ribadire che non possiamo concepire la santa testimonianza cristiana come qualcosa che esuli dal dono totale di sé, a prescindere dal fatto che questo dono avvenga in una forma di vita consacrata o laicale. Il desiderio mistico di Maria Gabriella e di Teresina di offrire la propria vita, accettando anche una morte a breve termine per conformarsi al proprio sposo, unendo le proprie sofferenze alle Sue per la salvezza delle anime (Col 1,24), non è che la visibilizzazione, la manifestazione “sugli altari” di quanto ogni cristiano che senta sul serio la chiamata alla santità è chiamato a vivere: comprendendo che il chicco di grano, se vuol far frutto, non può non accettare per amor Suo la propria morte (naturale o prematura); che la croce è ciò che necessariamente deve apparire su quel chicco se vogliamo che si franga in spiga; che il Battesimo è immersione non in altro che nella morte e risurrezione del Signore; che il martirio, se solo per alcuni può essere di spada, per tutti può essere di spilli. La spiritualità dell’offerta della vita ci inchioda al ricordo di quale sia la posta in gioco: non una proposta morale, non una passione a noi estranea, ma vera morte e vera nascita, come in ogni vera storia d’Amore che si rispetti.
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