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Cosa pensano i pontefici sull’immigrazione?

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Lucandrea Massaro - pubblicato il 12/06/18
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Da Giovanni XXIII a Francesco il pensiero della Chiesa non né cinico né “buonista”: è evangelicoÈ tornata urgente la questione delle migrazioni in questi giorni in cui la vicenda della nave Aquarius ha riproposto agli italiani e all’Europa il tema dell’accoglienza e della regolazione dei flussi. La Chiesa su questo tema si è impegnata da molto tempo e ha sviluppato una dottrina che mette al centro la persona e la sua dignità e la necessità di un concerto tra le nazioni affinché si perseveri nel bene comune, in spirito di fraternità.

Papa San Giovanni Paolo II riconobbe ad esempio diverse cause nel diritto di migrare. Il principale naturalmente è quella di salvare la propria vita e quella delle nostre famiglie dalle minacce quali la persecuzione, la fame e la guerra. Un’altra causa che dà il diritto di migrare è la responsabilità delle persone di provvedere a se stesse e alle proprie famiglie. Ad esempio, Giovanni Paolo II nella sua enciclica del 1982 Laborem Exercens ha affermato chiaramente che questo significa che a volte le persone devono lasciare la loro patria per cercare migliori opportunità.

In un’altra enciclica, la Sollicitudo Rei Socialis, Giovanni Paolo II ha anche affermato che le restrizioni indebite sulle capacità delle persone di esercitare il loro diritto di iniziativa economica sono un terreno legittimo per cercare luoghi dove c’è maggiore libertà di attualizzare tale diritto.

Ma esiste anche una seconda dimensione della dottrina cattolica sull’immigrazione che si traduce nei vincoli legati al diritto di migrare. La dottrina cattolica è molto attenta alle sfide che l’immigrazione crea per il Paese ospitante. Sempre San Giovanni Paolo II, ha notato che “un’applicazione indiscriminata (dell’immigrazione) arrecherebbe danno e pregiudizio al bene comune delle comunità che accolgono il migrante”.

Tutto questo è stato recepito nel Catechismo della Chiesa Cattolica . Papa Benedetto XVI mostrava nel 2006 che, anche se i cattolici devono accogliere i migranti, devono anche lasciare alle “autorità responsabili della vita pubblica di stabilire in merito le leggi ritenute opportune per una sana convivenza” (Acton Institute).

E di nuovo Benedetto XVI nel 2013 (nel messaggio per la 99ma giornata del Migrante) ribadiva che:

ogni Stato ha il diritto di regolare i flussi migratori e di attuare politiche dettate dalle esigenze generali del bene comune, ma sempre assicurando il rispetto della dignità di ogni persona umana. Il diritto della persona ad emigrare – come ricorda la Costituzione conciliare Gaudium et spes al n. 65 – è iscritto tra i diritti umani fondamentali, con facoltà per ciascuno di stabilirsi dove crede più opportuno per una migliore realizzazione delle sue capacità e aspirazioni e dei suoi progetti.

Tuttavia è necessario ricordare che

Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra, ripetendo con il Beato Giovanni Paolo II che «diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione» (Discorso al IV Congresso mondiale delle Migrazioni, 1998). Oggi, infatti, vediamo che molte migrazioni sono conseguenza di precarietà economica, di mancanza dei beni essenziali, di calamità naturali, di guerre e disordini sociali. Invece di un pellegrinaggio animato dalla fiducia, dalla fede e dalla speranza, migrare diventa allora un «calvario» per la sopravvivenza, dove uomini e donne appaiono più vittime che autori e responsabili della loro vicenda migratoria.

Per questo è doveroso non solo accogliere ma anche integrare i migranti affinché essi non perdano la loro dignità di figli di Dio.

Così, mentre vi sono migranti che raggiungono una buona posizione e vivono dignitosamente, con giusta integrazione nell’ambiente d’accoglienza, ve ne sono molti che vivono in condizioni di marginalità e, talvolta, di sfruttamento e di privazione dei fondamentali diritti umani, oppure che adottano comportamenti dannosi per la società in cui vivono. Il cammino di integrazione comprende diritti e doveri, attenzione e cura verso i migranti perché abbiano una vita decorosa, ma anche attenzione da parte dei migranti verso i valori che offre la società in cui si inseriscono.

Un punto fermo per i cattolici sono di nuovo le parole di san Giovanni Paolo II: 

I Paesi ricchi non possono disinteressarsi del problema migratorio e ancor meno chiudere le frontiere o inasprire le leggi, tanto più se lo scarto tra i Paesi ricchi e quelli poveri, dal quale le migrazioni sono originate, diventa sempre più grande.

D’altro canto è Papa Francesco che ribadisce in ogni occasione la “prudenza”, come ha fatto nel dicembre 2016 nel suo messaggio al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede:

Un approccio prudente da parte delle autorità pubbliche non comporta l’attuazione di politiche di chiusura verso i migranti,  ma implica valutare con saggezza e lungimiranza fino a che punto il proprio Paese è in grado, senza ledere il bene comune dei cittadini, di offrire una vita decorosa ai migranti, specialmente a coloro che hanno effettivo bisogno di protezione». Citando Papa Giovanni XIII, ha ricordato il diritto di immigrazione di ogni essere umano, aggiungendo che «nello stesso tempo» occorre garantire che i popoli che li accolgono non «sentano minacciata la propria sicurezzala propria identità culturale e i propri equilibri politico-sociali. D’altra parte, gli stessi migranti non devono dimenticare che hanno il dovere di rispettare le leggi, la cultura e le tradizioni dei Paesi in cui sono accolti.

Criterio, quello della prudenza, ribadito ancor nel 2016 durante il viaggio di rientro da Malmö quando, rispondendo ai giornalisti come è sua consuetudine di ritorno dai viaggi ufficiali, ha spiegato cosa pensa dei Paesi che chiudono le frontiere:

credo che in teoria non si può chiudere il cuore a un rifugiato, ma ci vuole anche la prudenza dei governanti: devono essere molto aperti a riceverli, ma anche fare il calcolo di come poterli sistemare, perché un rifugiato non lo si deve solo ricevere, ma lo si deve integrare. E se un Paese ha una capacità di venti, diciamo così, di integrazione, faccia fino a questo. Un altro di più, faccia di più. Ma sempre il cuore aperto: non è umano chiudere le porte, non è umano chiudere il cuore, e alla lunga questo si paga. Qui, si paga politicamente; come anche si può pagare politicamente una imprudenza nei calcoli, nel ricevere più di quelli che si possono integrare. Perché, qual è il pericolo quando un rifugiato o un migrante – questo vale per tutti e due – non viene integrato, non è integrato? Mi permetto la parola – forse è un neologismo – si ghettizza, ossia entra in un ghetto. E una cultura che non si sviluppa in rapporto con l’altra cultura, questo è pericoloso. Io credo che il più cattivo consigliere per i Paesi che tendono a chiudere le frontiere sia la paura, e il miglior consigliere sia la prudenza.

Ma durante la Via Crucis del 2016, Bergoglio ha “scandalizzato” qualcuno dicendo:

Come non vedere il volto del Signore in quello dei milioni di profughi, rifugiati e sfollati che fuggono disperatamente dall’orrore delle guerre, delle persecuzioni e delle dittature?

Sarebbe dunque cosa buona impegnare risorse e buona volontà perché i paesi in difficoltà possano trovare una via per un loro armonico sviluppo in modo da evitare che la povertà e il bisogno obblighi chi li abita a dover fuggire

Paolo VI, nell’enciclica Populorum Progressio, trattando della carità universale mette a cuore i doveri che sono connessi all’ospitalità e si preoccupa che si aiutino soprattutto gli studenti del «Terzo Mondo» ospiti per studi a non smarrire il senso dei loro valori spirituali (n. 68) e anche i «lavoratori emigrati, che vivono spesso in condizioni disumane costretti a spendere il proprio salario per alleviare un po’ le famiglie rimaste nella miseria sul suolo natale» (n. 69).  L’Enciclica si conclude con una profetica e sapiente affermazione che «lo sviluppo è il nuovo nome della pace» (n.76). Infatti la pace non può ridursi alla sola assenza di guerra (Vatican Insider).

Come si può capire il criterio è sempre il Vangelo, cioè un criterio legato al principio di realtà, ma di una realtà che contempli Cristo e il suo comandamento d’amore, non è mai ideologico. Tutti i pontefici degli ultimi quarant’anni – e anche più – hanno sempre messo al centro (si può dire) il comandamento di Dio al Popolo di Israele dopo la consegna delle Tavole della Legge:

«Amate dunque lo straniero, perché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto

Deuteronomio 10, 19

Senza dimenticare che chi guida una nazione ha degli obblighi verso di essa e verso chi si è affidato a lui per la propria sicurezza e il proprio benessere. Nessuno è chiamato a rovinarsi per il prossimo, ma nessuno è esentato dallo stendere la mano verso il povero se vuole dirsi cristiano. Oltre ai mezzi ci vuole fraternità, voglia di condividere la vita e di riconoscere nel prossimo un fratello, chiaramente per quanto riguarda i primi (i mezzi) tutto è condizionato alle possibilità di ciascuno, ma anche tenendo conto dell’insegnamento di Cristo di non dare solo il superfluo:

E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: «In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri.Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

Marco 12, 41-44