Volti muti che il regime nazista immortalava prima di uccidere; specchio vivente di vittime con nome, cognome e anima
Profilo, fronte, trequarti. Tutto quello che ci resta di Czesɫawa Kwoka è una serie di tre scatti che la inquadrano durante la sua permanenza ad Auschwitz. Ci arrivò nel dicembre del 1942 insieme alla madre, ci morì nel marzo 1943 (un mese dopo la mamma) e non aveva ancora 15 anni.
È tutto così troppo, che riesco solo a pensare «come fu quel mese senza la sua mamma?». Altre mille domande non so formularle. A malapena riesco a pronunciare il suo nome polacco, Czesɫawa Kwoka. Sembra duro, di una persona forte e indomita; invece il suo viso ha una tenerezza disarmante, ma un piglio non proprio remissivo. Guarda dritta l’obiettivo e sono occhi che fanno paura, per purezza.
Leggi anche:
L’ostetrica che ad Auschwitz salvò tremila bambini dalla morte
Anche il fotografo ne fu colpito, anche lui era un prigioniero, anche lui polacco: un ventenne di nome Wilhelm Brasse, il cui gesto di ribellione al nazismo fu quello di non bruciare l’archivio fotografico che aveva contribuito a creare. Fece 40.000 scatti, tutti scanditi da un rituale preciso – ritmico e veloce come marchiare a fuoco le bestie – che comprendeva anche l’umiliazione dei prigionieri:
«Lo sgabello per la posa, un cubo di legno, veniva fatto girare su se stesso da un pedale azionato dal fotografo che così, senza allontanarsi dalla fotocamera, in pochi secondi impressionava le tre “viste” d’ordinanza: fronte, profilo e trequarti. Ma il kapò Maltz ne approfittava per un suo divertimento extra: quando l’internato accennava faticosamente ad alzarsi, con un colpo al pedale lo proiettava a terra violentemente, tra le risate degli aguzzini annoiati».
Lo scrive Michele Smargiassi in un articolo di Repubblica, il cui titolo è una sintesi dolorosamente schietta: Camere oscure e camere a gas. Fotografare i detenuti era una direttiva generale del regime e il più delle volte si usciva di lì e si entrava nella camera a gas. Non è il peggio che fu chiesto a Brasse; dovette anche documentare gli esiti immondi degli esperimenti di Mengele sui corpi già provati di creature piccole e innocenti. Uscito dal campo di concentramento, Brasse non toccherà più macchina fotografica e si guadagnerà da vivere in una fabbrica di insaccati.
Leggi anche:
“Ho resistito perché sono stata amata”: Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, nominata senatrice a vita
C’è chi ha salvato vite dai campi di sterminio, chi si è sacrificato al posto di qualcun altro, chi faceva un giornalino del campo (Giovannino Guareschi) per non darla vinta alla solitudine annichilente; chi recitando a memoria l’Ulisse di Dante ricordava ai prigionieri la dignità dell’anima umana in ogni dove (Primo Levi); lo strazio, la pena e il dono di Brasse è stato quello di custodire questo archivio di volti che, una volta uscito dalle grinfie della propaganda nazista, non è più l’album delle vittime ma lo specchio di fronte a cui ciascuno fa i conti con la Storia, e con la sua storia. Sono la nostra camera oscura, lo sfondo rispetto a cui mettere a fuoco le nostre paure e le nostre premure.
Non tutte le facce immortalate da Brasse hanno ad oggi un nome e – si sa – erano ridotte a numero dentro il campo. Czesɫawa era il 26947, il numero in serie successivo a sua madre, ultima traccia di una vicinanza che fu tale fino alla morte. Anche senza nome, anche ridotto a numero, un volto muto parla. Si distingue una ferita al labbro della ragazzina, la spiega il fotografo che ricorda l’episodio:
«Era così giovane e terrorizzata. La ragazza non capiva perché si trovasse lì, e non riusciva a capire quello che le era stato detto. Quindi una donna Kapo’ (chiamata anche Blokowa) prese un bastone e la picchiò sul volto. Questa donna tedesca stava sfogando tutta la propria rabbia sulla ragazza. Una bella ragazza, così innocente. La ragazza pianse, ma non poteva far niente. Prima che le scattassi la fotografia, la piccola si asciugò le lacrime e il sangue dal taglio sul labbro. A dire la verità, mi sono sentito come se fossi stato colpito io stesso, ma non ho potuto interferire. Sarebbe stata un’interferenza fatale. Non potevi dir nulla» (da Vanilla Magazine).
Lei fu uno dei 230.000 bambini al di sotto dei 18 anni che furono deportati ad Auschwitz-Birkenau tra il 1940 e il 1945. Non ci resta una sola parola di lei, per quanto Anna Frank abbia parlato per tutti. Ci resta il profilo: un labbro molto marcato all’ingiù che racconta una tristezza inconsolabile. Ci resta la posa frontale: occhi alti, un filo sopra l’obiettivo, forse timore a guardare i soldati svergognati, ma a posteriori lo definisco l’atto di sfida dell’innocenza. Ci resta il trequarti: viso d’incantevole bellezza, che guarda al suo destino in cielo.
Leggi anche:
Bergoglio visita il lager di Auschwitz e Birkenau il 29 luglio
Cara Czesɫawa, pronuncerò sempre male il tuo nome, ma non lo dimenticherò. Insieme a te altre bambine, uomini e donne dai nomi altrettanto difficili da scandire ma da non passare sotto silenzio; mi s’incespicheranno le sillabe nel leggere Krystyna Trzesniewska, e Rozalia Kowalczyk, come quando dico il nome di Wislawa Szymborska, tua connazionale poetessa che scrisse La mano, lasciandoci sospesi a rimuginare su mani che, come le tue, avrebbero dovuto sfogliare libri di fiabe e altre mani, che hanno concepito l’orrore:
Ventisette ossa,
trentacinque muscoli,
circa duemila cellule nervose
in ogni polpastrello delle nostre cinque dita.
È più che sufficiente per scrivere “Mein Kampf”
o “Winnie the Pooh”.
Parte dell’archivio fotografico di Brasse è presente al Museo di Auschwitz; qui sotto un trailer tratto dal documentario The Portraist