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Noah, 9 anni, soffre di epilessia: tutta la classe lo aiuta

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Annalisa Teggi - Aleteia - pubblicato il 09/04/18
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La madre si è commossa trovando nella classe di suo figlio un cartello che assegna un compito a ogni bimbo in caso di emergenza

Le notizie sul bullismo si beccano sempre dei titoloni, ringraziamo il variegato mondo del web quando aiuta certe belle notizie a diventare – ormai si dice così – virali. È il caso di una mamma romagnola che ha condiviso con un post su Facebook una piccola scoperta che l’ha commossa.

Tutto accade in una scuola elementare di Riccione. Il suo bimbo Noah di 9 anni soffre di epilessia; la diagnosi precisa è «Anomalie epilettiformi», una forma benigna scoperta circa un anno fa e che con la crescita dovrebbe scomparire del tutto. Attualmente Noah si trova a confrontarsi con attacchi molto brutti e mamma Barbara ha scoperto che in classe è stato appeso un cartello di emergenza: in caso di bisogno a ogni bimbo è stato assegnato un compito nel momento in cui Noah dovesse star male.

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Si legge: l’insegnante soccorre il bambino, Lia va a prendere il farmaco, Tommaso va a chiamare i bidelli, Giulia prende il cellulare, eccetera. Scorrendo questo cartellone ho pensato subito ai grandi dipinti della Crocifissione in cui ogni pittore rielabora a modo suo un fermo immagine di ruoli: Giovanni che sostiene la Madonna, Maria Dolente, la Maddalena che si abbraccia ai piedi di Gesù, il Centurione che si stupisce. Ognuno nel dolore ha un suo posto, un suo compito.

Ho rivisto nel cartello di quella terza elementare un quadro vivente che porta avanti l’idea di un dolore patito insieme. Qualcosa in più di una semplice lista di cose da fare, qualcosa di più di un pronto soccorso infantile. La parola giusta c’è ed è un peccato che sia così abusata da essere diventata quasi sbiadita: compassione.
Sono piccoli esempi quotidiani come questo a ridarle vigore, a tirar fuori dall’armadio degli stereotipi la compassione e a colorirle di rosso le gote, a ridarle la tempra di bimbi, donne e uomini che piangono e lottano insieme. Mica in capo al mondo nelle imprese epocali da annali. Ma qui, dove la storia cambia davvero, nel quotidiano.

Noah aveva avuto un attacco a scuola lo scorso novembre e dev’essere stata un’esperienza terribile per tutti i suoi compagni vederlo soffrire ed essere inermi. La bravura della maestra si è messa all’opera, trasformando lo shock in un’occasione di collaborazione; perché anche a noi adulti resta appiccicato addosso un terrore che lievita al buio, quando ci confrontiamo con un episodio di pericolo che non sappiamo gestire. Reagire, essere parte di un progetto in cui la presenza di ciascuno è di aiuto all’altro, è la terapia migliore per scacciare gl’incubi annidati giù nelle viscere.



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Creando un progetto di aiuto a Noah, la maestra ha dimostrato senz’altro una capacità esemplare di mettere la malattia di un bimbo al centro della classe come occasione di affetto e non di rifiuto; però quel cartellone è anche un messaggio di conforto a tutti i compagni, come a dire: tu, nell’emergenza, hai un posto e il tuo posto è di stare col bene, quando il male sembra indomabile; tu fai il tuo passo, sei dalla parte giusta, non temere e aiuta.

Spero davvero, come si è augurata mamma Barbara, che questi bambini «un domani non esiteranno a dare una mano a chi incontreranno in difficoltà lungo la loro strada» (da Corriere.it) . Mi sento di aggiungere che questo altruismo ha anche un riflesso personale: l’incubo che spesso ci inchioda ad un egoismo difensivo è di essere toccati dal male quando s’incontra una malattia, un incidente, una sofferenza. Inconsciamente ci mette a tu per tu con la domanda: «E se fossi io senza via di scampo?».
Le ombre di questo terrore si dissipano abitando e condividendo il dolore altrui, non perché si diventa forti, come supereroi ma perché s’impara il bisogno di stare aggrappati agli altri, a chiedere insieme, a essere voci con le lacrime agli occhi e le mani strette le une nelle altre.