Intervista a Claudio Mita responsabile della cooperativa Botteghe e Mestieri, parte dell’opera “Casa Novella”. Una fioritura sorprendente di umanità e bellezza dal fallimento e dalla depressioneBuongiorno e grazie della disponibilità. Cominciamo subito: chi sei e di cosa ti occupi?
Mi chiamo Claudio Mita, ho 40 anni – quasi, non ancora compiuti per la verità – sono sposato e padre di due figli. Sono cuoco e ho svolto questa attività per diversi anni anche mentre studiavo all’università. Mi sono laureato in scienze della formazione nel 2003 e nello stesso anno ho iniziato a lavorare a Castel Bolognese nell’opera sociale Casa Novella.
Come ci sei arrivato?
Tramite Chiara, figlia di Novella, una delle figlie naturali. Lei era in facoltà con noi a Bologna; sapeva che stavano cercando una nuova figura e me lo comunicò consigliandomi di presentarmi direttamente. Arrivai così a Casa Novella. Fino ad allora si erano realizzati percorsi residenziali e diurni per minori. E invece in quel momento avevano la necessità di iniziare dei percorsi rivolti ad adulti con disagio psichico e psichiatrico. Erano persone con situazioni più o meno gravi. Lo scopo era aiutarli cercando di riavviarli al lavoro. Dove il lavoro è pensato come un momento di riabilitazione, di ripresa della vita sociale interrotta o disturbata dai disagi psichici. Una riabilitazione integrale della persona. E io mi occupo di questo: cioè seguo l’aspetto di inserimento lavorativo nella nostra realtà. Nel 2005, due anni dopo l’inizio della mia collaborazione, abbiamo fondato una cooperativa sociale di tipo B (che hanno nel proprio statuto proprio l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate) e l’abbiamo chiamata Botteghe e Mestieri . Lo abbiamo fatto perché nelle attività formative che avevamo svolto fino ad allora con persone che accusavano disagi psichici vedevamo che il tessuto imprenditoriale del territorio non rispondeva in maniera esaustiva, non era in grado. La malattia psichiatrica non è tanto un problema di abilità ma di tenuta. C’è bisogno di tanto, tanto tempo. Avevamo questi dieci ragazzi che non sapevamo come, dove collocare; non erano pronti. Dopo un percorso di qualche mese sarebbero tornati ad una vita … alcuni stavano a letto tutto il giorno. Uno, fuggito dal proprio paese di origine, si era barricato in casa e aveva tagliato i rapporti con la famiglia. La problematica psichiatrica non si affronta in tre mesi di formazione! Quindi abbiamo deciso di rischiare noi, fondando questa cooperativa. E lo abbiamo fatto provando a creare dei laboratori dove il rapporto con un maestro potesse far scattare di nuovo quella scintilla, quella passione per la vita attraverso lo strumento lavorativo. Il lavoro era un mezzo e non lo scopo. Chiaramente c’è sempre stato il rapporto con i servizi sociali che nel tempo si è evoluto perché la gestione di questi casi è passata in mano al centro per l’impiego. E’ una cosa un po’complessa.
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Da dove vi arrivavano e vi arrivano le segnalazioni di nuovi casi, anzi di persone che potreste accogliere e aiutare voi?
Anche tramite privati. Amici, volontari della nostra associazione. Una cosa è certa: questa cosa non l’avevamo costruita tramite contributi fissi pubblici, ma cercando di mettere in piedi una realtà con una propria sostenibilità: le nostre attività si reggono, si misurano con il mercato. Quindi anche dal punto di vista del lavoro non si trattava di realizzare percorsi occupazionali, come fossero delle messe in scena per impiegare in qualche modo il tempo e sviluppare abilità, sì ma relative. Lo scopo era di trasmettere un mestiere vero e delle competenze vere. Il tema educativo per noi è fondamentale ma fare una cosa non reale, fittizia un po’ da centro occupazionale non ci sembrava lo strumento adeguato. La cooperativa l’abbiamo chiamata Botteghe e mestieri associandola come idea a quelle attività che si facevano fin dal Medioevo. Ragazzini che erano ancora piccoli, 8-10 anni, andavano “a bottega” e imparavano un mestiere, ma non solo. Erano introdotti alla realtà. Sperimentavano un vero processo educativo grazie al maestro. Vivevano con questi maestri che se li tiravano su. Il concetto è un po’ questo. E’ per noi uno strumento educativo, quindi non può essere fittizio. La seconda cosa decisiva: la questione della bellezza.
Che cosa intendi con “la questione della bellezza”?
Novella ci ha costruito un po’ il suo metodo. Lei diceva: la bellezza parla del mistero delle cose, del significato profondo che le cose hanno. E una persona che ha vissuto la propria vita pensando che non ci potesse essere risposta al proprio desiderio di felicità quando viene introdotta, accolta in un posto bello, ecco questa bellezza aiuta a rimettersi in una posizione di verità nei confronti della realtà.
Novella, sempre Novella. Chi era costei? Anzi chi è?
È quella che ha fondato tutta la “baracca”! Ebbe questa crisi, passò negli anni successivi al matrimonio una depressione importante. Era stata anche ricoverata in ospedale e la cosa si era aggravata perché una parente a cui era molto legata, forse una cugina, morì giovanissima. Questa cosa la sconvolse. Una domanda su Dio ce l’aveva. Era cristiana, ma non capiva come il cristianesimo potesse nella quotidianità avere una concretezza. Questa morte le aveva distrutto tutto quello che fino ad allora aveva vissuto come proposta cristiana; diceva di avere tutto, ma non le bastava nulla. Smise di andare a messa. Entrò in crisi col marito, andò in depressione. Il medico in estate le consigliò di andare in un posto tranquillo per trascorre dieci giorni di vacanza.
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Lei già sposata, con un figlio (in totale ne avrebbe avuti tre), incontrò due giovani, marito e moglie, in una tenda scalcagnata, ma era incuriosita da come stavano tra di loro. Una sera la invitarono a dire i vespri; avevano solo due seggioline, ma una la diedero a lei. Quel gesto la colpì intensamente: si sentì riconosciuta! Infatti Novella diceva “nell’accoglienza la persona ritrova una dignità mai pensata”. Fu un vero terremoto.
Questo è quello che capitò a lei ed è la missione della nostra opera, perché è il desiderio di ogni uomo essere guardato con stima. Passò così questi giorni di vacanza (c’è un libro, edito da Itaca edizioni, dove Novella racconta: Dalla tenda alla casa)
La bellezza sperimentata nel rapporto con questi amici le fece vivere il cristianesimo nella quotidianità, finalmente. Per lei fu il rilancio della propria vita, del matrimonio, di tutto. Lo fu talmente tanto che si sentì di dover restituire tutto questo, così come l’aveva ricevuto. Tornò a casa con il desiderio di accogliere e far compagnia a tanti che erano nella solitudine! E così iniziò la sua opera. Non ricordo bene, ma il primo fu credo un ragazzino che raccolse per strada. Cominciò ad accogliere le persone in casa propria, un umilissimo appartamento, di persone che faticavano ad arrivare alla fine del mese, condividendo gli spazi dei figli, il cibo che avevano. Accoglieva dei ragazzini che avevano un genitore solo e sempre al lavoro. O bambini con genitori tossicodipendenti. Fatto questo Novella fece anche un’altra cosa incredibile: il fervore che metteva nella sua vita riuscì a coinvolgere talmente tante persone che queste iniziarono a darle una mano. E così nacque l’associazione San Giuseppe e Santa Rita.
Perché questa dedicazione?
Santa Rita perché è la Santa delle cause impossibili e San Giuseppe perché è il custode della famiglia. E così iniziarono le attività. Presero in affitto l’appartamento di fianco al loro. Cominciarono a darsi i turni per cucinare, stirare, restare la notte. E iniziò il rapporto coi servizi sociali che mano a mano affidarono a lei e alla sua associazione delle persone. Il suo sogno era costruire una grande casa dove tutti questi ragazzini potessero essere accolti. Dove potessero essere accolti per quello che erano. E perché potessero vivere quello che lei aveva vissuto. E questa è una cosa profondamente cristiana perché il cristianesimo si trasmette esattamente così. Dopo tutta una serie di vicissitudini incredibili nel 1994 Novella riesce a raccogliere un po’ di soldi e inizia a costruire questa casa che nel marzo 1996 viene inaugurata. Nel maggio dello stesso anno, dopo tre mesi, Novella muore in un incidente stradale. La sua famiglia si era già trasferita in questa casa. Però a quel punto chi ha vissuto questa cosa dice che tutto poteva finire lì perché lei aveva un carisma enorme… poteva morire tutto, con la sua morte. Invece gli amici quelli più stretti si rimboccarono le maniche e in questi anni il tutto è fiorito in una maniera straordinaria.
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E oggi com’è l’opera nata da Novella Scardovi?
Abbiamo due case residenziali, una per minori e adolescenti e una per nuclei mamma-bambino. Tre centri diurni educativi per minori. C’è un centro socio-occupazionale a Lugo di Romagna per dei ragazzi che fanno un percorso di inserimento al lavoro. Poi c’è un centro per ragazzi autistici a Faenza. Una falegnameria a Faenza nello stesso edificio; e sempre lì abbiamo aperto questo laboratorio di pasta.
E tu sei responsabile del laboratorio…
Io sono presidente della cooperativa Botteghe e mestieri e mi occupo dello sviluppo di tutte le attività, ma in particolare di quella del laboratorio di pasta: laboratorio, negozio prodotti alimentari…Esiste anche un e-commerce che si chiama bottega del monastero. E’ un negozio online con 600 prodotti di 40 monasteri da tutta Europa; anche qui lavorano ragazzi in difficoltà, sia nel magazzino che nello sviluppo del sito.
Un nome eccellente?
Camaldoli: fanno prodotti erboristici e liquori. La merceologia è ampia. Cosmesi, regali aziendali, libri
E qualche birrificio buono?
Tutte le birre trappiste. Orval (Belgio), Chimay sempre dal Belgio, le birre de La Cascinazza (a Buccinasco, MI). Poi vorrei aggiungere che tutta la “baracca” dà lavoro a cinquanta persone e ospitalità a centoventi persone in difficoltà con l’aiuto di circa settanta volontari.
E per te, si tratta di un lavoro come un altro?
No, non lo è. Però io credo di avere imparato a considerare il lavoro in una maniera che probabilmente in un altro luogo non sarebbe stata possibile. Il lavoro è nella condizione adulta per la compiutezza della persona, non come accessorio della vita. Nella concezione moderna, non c’è posto per la fatica e spesso il lavoro è considerato un impedimento per la felicità e per la realizzazione di sé. Quindi no, non è stato un lavoro come un altro perché mi ha fatto capire che la vita è unita e il lavoro è un’opportunità di realizzazione di sé stessi e quindi il significato della vita c’entra totalmente col lavoro. Se andassi via da qua, ora, potrei dire che questa concezione me la posso portare con me in un altro qualsiasi lavoro.
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Cos’è questo fruscìo? Sembra vento…
(Ride, ndr). Sì, io sono venuto a rispondere alle tue domande in mezzo alla bellezza del Creato. Avrei risposto peggio davanti allo schermo di un computer! Posso dire un’altra cosa sulla questione lavoro? (non aspetta il mio assenso- e fa bene!- e conclude). E’ molto interessante perché quando uno si presenta da noi e viene a chiederci aiuto per lui il lavoro non è soltanto venire a prendere due soldi o tirare a sera. Quelle persone ripongono nel momento lavorativo, con le capacità che hanno, le forze di cui dispongono, i limiti che si portano dietro; con l’orario che riescono a garantire, che siano due o quaranta ore, ripongono nel lavoro un’aspettativa di risposta al proprio desiderio di felicità. Niente di meno! Pensate che dignità incredibile! Pensate se tutti andassimo a lavorare così, operai, dirigenti, politici, spazzini, cuochi, medici…… con questa coscienza. Il nostro compito è stare di fronte a questa domanda senza censurare nulla e tentare di proporre un’ipotesi di significato cristiano della vita, indicare una strada attraverso una compagnia. E gli strumenti sono il lavoro e l’accoglienza. Sarebbe bello se chi mangia la nostra pasta fosse consapevole di questo lavoro, questa intervista spero aiuti in questa consapevolezza.