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Una mamma di 5 figli in Vaticano. Anche nella sterilità si è fecondi e la donna è sempre madre

GABRIELLA GAMBINO

Photo Courtesy of Gabriella Gambino | © Santiago Perez de Camino

Paola Belletti - Aleteia - pubblicato il 20/03/18

E' una delle due donne nominate il 7 novembre 2017 da Papa Francesco, insieme con Linda Ghisoni, al nuovo Dicastero per i Laici, la Famiglia, la Vita

Già professore aggregato di Bioetica della facoltà di Filosofia, ricercatrice e professore associato in Filosofia del Diritto della facoltà di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e professore incaricato presso il Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia,  incaricata per la sezione Vita. 

Gabriella Gambino ha accettato gentilmente di essere intervistata da Aleteia sui temi centrali della femminilità, della maternità, della vita. Le abbiamo rivolto alcune domande perché ci aiutasse a comprendere più in profondità la vocazione della donna. Le sue risposte sono state per noi una grande ricchezza e fonte di potente ispirazione e conforto.

Il carico delle grandi responsabilità che ha sulle sue spalle immagino si faccia sentire: famiglia, so che è moglie e mamma di 5 figli – e incarichi per la Chiesa, in questo nuovo Dicastero per il quale ha ricevuto la nomina a Sottosegretario per la sezione Vita. Come mantiene un equilibrio, per quanto dinamico? Cosa le permette di non soccombere?

Quando mi è stato proposto questo incarico, ho dovuto fare un profondo discernimento. Non solo perché è stata una chiamata inaspettata, che penso coglierebbe di sorpresa qualunque fedele laico nel mondo, ma perché guardando a come è stata la Chiesa finora, non avrei mai pensato potesse capitare ad una donna sposata, madre, impegnata da oltre vent’anni nel cercare di mantenere equilibri delicati, da un lato per seguire e organizzare la normale vita quotidiana di una famiglia numerosa; dall’altro, per lavorare nella didattica e nella ricerca in un ambito, come quello della bioetica, che oggi costituisce una vera e propria sfida antropologica. Per questo, quando mi sono resa conto che la realtà stava per farsi ancora più complessa, ho compreso che dovevo lasciarmi condurre e, come già in altri momenti di svolta della vita, fidarmi di Dio. E’ così che sono riuscita a imprimere nel mio cuore quel pensiero di Sant’Agostino, che ci ricorda che quando Dio sembra chiederci di più, non chiede mai l’impossibile, ma “ti esorta a fare tutto ciò che puoi, a chiedere ciò che non puoi e ti aiuta perché tu possa”. Un giorno alla volta, senza voler prevedere tutto e con pazienza verso noi stessi. In fondo, la fede che ci chiede il Signore è la stessa che ha permesso a Maria di non soccombere nel pronunciare il suo fiat: una fede concreta, che sa di doversi appoggiare su Dio, perché da soli possiamo ben poco.

Senza retorica: qual è il dono che, nei vari contesti compreso quello ecclesiale, possiamo offrire con il nostro specifico genio femminile? Pensando alla sua vita e alla sua esperienza: cosa dell’essere moglie e madre incide di più nel suo lavoro?

Anzitutto la consapevolezza che le persone che mi stanno accanto mi vengono in qualche modo affidate, come accade con i figli. Questa consapevolezza per me è motivo di grande forza interiore. In tal senso, penso che la virtù della fortezza sia quella sulla quale noi donne siamo chiamate a lavorare di più e che maggiormente dovremmo cercare di trasmettere, soprattutto ai nostri figli, per permettere loro di costruirsi una vita piena di senso e di speranza. La fortezza, infatti, ti mantiene solida nelle relazioni, ti rende affidabile per gli altri quando contano su di te, come in famiglia. Ti dona resilienza e fiducia. E ciò vale anche nell’ambiente di lavoro. La gestione di una famiglia numerosa mi ha anche insegnato a pianificare e organizzare, non tanto per prevedere tutto – cosa di fatto impossibile – quanto piuttosto per cercare di creare un ambiente sereno, animato da uno spirito di fiducia reciproca, di stima e di crescita. E’ molto importante saper dare un giusto peso alle cose, saper distinguere tra cose urgenti e cose importanti per cercare di dare priorità ai bisogni delle persone, avere fiducia nelle possibilità di ciascuno di cambiare e di migliorare. La maternità dona la consapevolezza che la nostra vita è un susseguirsi di fasi e che in ogni fase avvengono cambiamenti importanti e riflessioni di senso che possono rendere feconde situazioni apparentemente molto difficili.

Il Santo Padre intende dare maggiore cittadinanza al contributo femminile nella Chiesa. Anche se certamente Essa fin dal suo sorgere ha liberato la donna. Di sicuro non è di una lotta di classe tra maschi e femmine che il Pontefice parla, bensì di un cammino che prosegue nella maggiore espressione della nostra preziosa diversità e identica dignità.

“L’utopia del neutro rimuove ad un tempo sia la dignità umana della costituzione sessualmente differente, sia la qualità personale della trasmissione generativa della vita”, disse proprio nel suo intervento rivolto ai rappresentanti della Pontificia Accademia per la Vita. E invitava ad una nuova, decisiva alleanza uomo-donna. Cosa chiedono ora i tempi alla donna? Ma più che i tempi, cosa ci chiedono la Chiesa e il Signore?

Sappiamo che la rivoluzione pastorale che il Santo Padre sta avviando come processo prende le mosse anche dalla presenza necessaria, viva e partecipata dei fedeli laici, e in particolare delle donne, all’interno della Chiesa.  Sul proprium delle donne che ci viene chiesto di portare nella Chiesa e nella società si è sempre detto molto: sicuramente la nostra capacità di comunione, di vicinanza all’essere umano, di ascolto, ma più di ogni altra cosa, penso al tema della maternità. Perché la donna è madre, ma mi pare che di questo aspetto si parli poco, forse per il timore di rendere vane le conquiste dell’emancipazione femminile. Lo stesso Papa Francesco, in occasione della recente festa della traslazione dell’icona della Salus populi Romani, ci ha ricordato ancora una volta che la maternità va posta al centro della Chiesa, perché è il cuore del messaggio evangelico. La maternità come capacità di portare amore e protezione nei confronti della fragilità umana, come misericordia (trovo significativo che nella lingua ebraica lo stesso termine – rahamin – indichi la misericordia e il grembo materno), come accoglienza e, soprattutto, come capacità generativa morale e spirituale.




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Il femminile, infatti, ha la capacità di rimuovere quell’efficientismo maschile che stanca l’essere umano, che invece ha bisogno di sentirsi rigenerato nella sua identità filiale. In tal senso, un aspetto altrettanto importante è il ruolo che possono avere le donne nel riportare al centro della Chiesa la consapevolezza che siamo Figli di Dio. In fondo ogni madre, con il suo esserci, ricorda al proprio figlio che alla radice del suo esistere c’è un padre. Così la donna, con il suo essere nella Chiesa, può mostrare all’uomo contemporaneo, chiuso nel suo razionalismo e individualismo autoreferenziale, che all’origine della sua vita c’è il grande amore del Padre per ciascuno di noi. C’è un desiderio di Dio. Questa consapevolezza può restituire al mondo la fede, ossia la capacità di ogni uomo di fidarsi di Dio, e con la fede anche una maggiore solidità morale.  La fede autentica muove il soggetto ad un impegno coerente di vita. Lo sappiamo per esperienza: dall’idea di Dio che un padre e una madre trasmettono ai propri figli si genera l’idea di libertà che contrassegnerà la loro vita morale. Che non è affatto, come oggi si crede, quella condizione che si crea quando abbandoniamo i nostri figli nel labirinto delle proposte ideologiche e culturali, senza indicare loro una direzione, ma piuttosto quando li aiutiamo a saper distinguere, ascoltare e così rispondere alla proposta d’Amore che Dio rivolge a ciascuno di loro per poter dire di sì alla loro vocazione.

GABRIELLA GAMBINO
Photo Courtesy of Gabriella Gambino | © Santiago Perez de Camino

Le donne, custodi della vita e delle relazioni: vediamo l’uomo prima dell’uomo, anche senza essere madri biologiche. Archetipo o stereotipo?

(“Alla luce del «principio» la madre accetta ed ama il figlio che porta in grembo come una persona. Questo modo unico di contatto col nuovo uomo che si sta formando crea, a sua volta, un atteggiamento verso l’uomo – non solo verso il proprio figlio, ma verso l’uomo in genere -, tale da caratterizzare profondamente tutta la personalità della donna. Si ritiene comunemente che la donna più dell’uomo sia capace di attenzione verso la persona concreta e che la maternità sviluppi ancora di più questa disposizione”.  Mulieris dignitatem, VI, 18)

Il maschile e il femminile non sono stereotipi, ma archetipi, sono cioè dimensioni ontologiche in cui si manifesta l’essere umano, come uomo o come donna. Dimensioni profonde, che riflettono il modo di essere maschile e femminile di Dio. E che per questo possono realizzarsi in pienezza solo nella reciprocità e nella ricerca dell’armonia. La maternità e la paternità, pertanto, sono dimensioni antropologiche, non sono né interscambiabili, né sostituibili e stanno alla base di quel codice materno e di quel codice paterno che strutturano l’identità di ogni figlio.




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La maternità, in particolare, appartiene in maniera co-sostanziale alla donna: ella è costituita, cioè, secondo quella capacità che concerne la sua essenza e che è un dono, un privilegio, che la rende capace di una relazione profonda con l’essere umano. La stessa espressione che si usava un tempo con riferimento alla gravidanza come stato inter-essante esprime una condizione (inter-esse) tra due soggetti, una relazione in sé. Che è ciò che rende la donna strutturalmente capace di cogliere la presenza dell’altro e il significato profondo del suo esserci. In proposito, trovo che oggi sia necessario, più che mai, che la donna si assuma il compito di riportare nella Chiesa e nella società il senso autentico del sacrificio come sacrum-facere, come saper rendere sacra la realtà dell’uomo. L’incapacità di cogliere il senso del sacro è, infatti, ciò che rende difficile proteggere la vita umana e far comprendere il valore profondo del corpo, della sessualità e della sofferenza.

La maternità oggi è messa di lato, anzi dietro, a rincorrere la concitazione di una società impostata su un efficientismo per nulla “tarato” sui tempi dell’essere umano e della vita. Soprattutto perché ogni uomo si forma e nasce nel ventre della sua mamma, con calma. E una volta nato ha bisogno di presenza, vicinanza, tempo. Tantissimo tempo: non attacca più la storia del “tempo di qualità”. Non è la prima qualità del tempo delle madri e dei bambini la quantità? L’esserci?

E noi donne normali oggi, tirate da tutti i lati, siamo schiacciate dalla fatica e dai sensi di colpa. C’è qualcosa che dobbiamo chiedere alla società e alla Chiesa perché le nostre femminilità e maternità siano vivibili, per il bene dei figli e di tutti?

Credo che il primo passo dovrebbe essere quello di provare a conoscere e comprendere quelle dimensioni della femminilità e della maternità che sono costitutive della donna e che, solo se valorizzate, ne consentono il pieno sviluppo. Nel mondo occidentale, per esempio, attraverso la legislazione e la cultura dominante, il femminile sta perdendo il proprio portato simbolico, soprattutto in relazione alla maternità, e ciò rischia di danneggiare e snaturare le donne. La sostituzione e la frammentazione della maternità con le tecnologie riproduttive ne è la più evidente espressione, così come la rinuncia alla maternità per abbracciare opportunità professionali altrimenti impossibili. La filosofia per secoli ha accantonato il pensiero della nascita, occupandosi solo della morte, e ciò ha contribuito a rimuovere l’idea che si nasce da un corpo di donna, con tutte le conseguenze che ne sono derivate sul piano sociale, culturale, giuridico ed economico.

Siamo arrivati ad un punto tale, che siamo noi donne, ormai, a fare una gran fatica a cogliere le dimensioni del nostro essere, che, se vissute con equilibrio, ci consentirebbero di realizzare davvero le nostre potenzialità. In tal senso, credo sia necessario incominciare a far presente, per esempio, che se le norme che disciplinano la maternità sono spesso inadeguate e in un Paese come l’Italia un terzo delle donne lascia il lavoro alla nascita del primo figlio non è perché le donne hanno sensi di colpa ingestibili, ma perché hanno un bisogno oggettivo, cioè antropologico, di dedicarsi ai figli e di poter vivere questa relazione in pienezza, soprattutto nei primi anni di vita del bambino. L’esserci della mamma, infatti, serve non solo al figlio, ma alla donna, che deve poter elaborare la sua maternità nel tempo. La maternità, infatti, si caratterizza come esperienza interiore unica, un periodo di trasformazione dell’identità femminile, che ha bisogno di pazienza e di tempo. Non si riduce all’istinto materno e ha bisogno di un intenso lavoro psichico, affinché la donna possa elaborare quell’equilibrio prezioso che le consente di imparare ad essere sia donna che madre. Per questo è necessario che la società, la cultura, ma anche la Chiesa, comprendano che andare maggiormente incontro alle necessità della maternità non è solo nell’interesse del bambino, ma prima di tutto delle donne e del loro bisogno antropologico di poter essere madri e donne in pienezza. In questo senso, approfondire gli aspetti fenomenologici dell’essere donna e madre può avere ricadute importanti per salvaguardare la giustizia nella coesistenza sociale, ossia per poter valorizzare e promuovere ciò che spetta alla donna in quanto tale.

E ai nostri ragazzi, così esposti ad ipersessualizzazione da una parte e a stigmatizzazione della gravidanza vista come incidente, effetto collaterale altamente indesiderabile, dall’altra, non stiamo dicendo che anche loro sono un incidente di percorso, che dare la vita è una grande scocciatura? Aborto e contraccezione sembrano strofa e ritornello che ripetono “la vita si può disprezzare e buttare”, proprio in una società, la nostra, stretta nel gelo demografico.

Ma la Chiesa ha da offrire loro il grande tesoro e la bellezza dell’amore coniugale e della sessualità guariti dalla Grazia. Se lo ricorda abbastanza secondo lei?

Non ancora. E’ pur vero che negli ultimi anni le sfide che la sessualità, la maternità, la famiglia e la vita stanno vivendo sono davvero inedite, perché sono sfide istituzionalizzate da un controllo biopolitico della vita umana, attraverso legislazioni complici, che riducono la maternità ad una decisione riproduttiva e che sottovalutano le implicazioni della tecnologia sul significato della genitorialità e del nostro essere figli. Si pensi, per esempio, al fatto che non esistono luoghi di “elaborazione” della sterilità di coppia. Luoghi nei quali l’uomo e la donna possano essere aiutati a comprendere il significato profondo di quella condizione per renderla una sterilità feconda sul piano esistenziale. La tecnologia, invece, che trova una soluzione pratica per ogni problema, anche a costo di sacrificare delle vite umane, ha lo spazio per insinuarsi in maniera pervasiva, medicalizzando tutto e trasformando la sterilità biologica in un potere che, nella cultura, contrappone in maniera altalenante il diritto di non avere figli al diritto al figlio. Ormai anche nella mente delle adolescenti. Mi pare, pertanto, urgente, adoperarci, soprattutto nella Chiesa, affinché riusciamo non solo a formare sotto il profilo bioetico le donne, per renderle consapevoli delle sfide che devono saper riconoscere in relazione al proprio corpo, alla sessualità, alla maternità e al valore della vita, ma anche per saperle accompagnare quando devono compiere scelte che hanno ricadute etiche importanti sulla loro esistenza. Formare sacerdoti, operatori pastorali, educatori e genitori è un’emergenza. Le donne devono ritrovare la consapevolezza di essere le autentiche custodi della vita umana e non avere paura della propria maternità. In fondo, come leggevo in un bellissimo libro su Maria, l’uomo e la donna sono coloro senza il cui coraggio nemmeno Dio potrebbe avere dei figli. La capacità e la gioia di generare in un orizzonte di libertà e responsabilità, consapevoli del valore inviolabile di ogni vita umana, è il dono meraviglioso che Dio ci ha fatto.  E’ ora che ricominciamo ad annunciare questa gioia dentro e fuori la Chiesa.

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