In America è successo (anche) questo. Ovvio che nella fretta di dare la notizia non si trovi tempo per inorridire
“La nuora Kayla Jones, 29 anni, da giovane aveva subito un’isterectomia a causa di un tumore, quindi non avrebbe potuto avere una gravidanza. Però le ovaie non erano state asportate e quindi, con la fecondazione in vitro poteva avere un figlio biologico suo e del marito. Ma occorreva una madre surrogata. Dopo le analisi di compatibilità, la madre di suo marito si è dimostrata una candidata ideale. E Patty era entusiasta di essere di nuovo madre.” (Corriere.it)
Ma occorreva una madre surrogata? Ecco che siccome una pratica è possibile diventa pensabile e soprattutto esigibile, raccontabile senza batter ciglio o un sussulto di rivolta interiore.
Benedetti limiti che, invece, con la gran cagnara che fa la tecnica e il suo gretto eppure ampio ventaglio di possibilità, ci ostiniamo a nascondere!
Carissima Kayla, nessuno ha chiuso d’ufficio con dei no, anche duri, il processo intentato contro la natura così matrigna con te? Nessuno ti ha detto: se non puoi avere figli forse potrai diventare madre in un altro modo? Tuo marito non ti ha detto ho sposato te e ti amo in ogni caso, anche se non potrai concepire un figlio?
No, a quanto pare no. Chi si è fatto attorno a voi, a te a tuo marito, al vostro bambino immaginario, ha fatto tutt’altro.
Non puoi avere un figlio? Te lo faccio io. Disse la suocera.
Alla nuora. E il figlio?
Ora, al di là della distanza imposta dalla mediazione tecnica e medica, ma il figlio, pensiamoci, non è inorridito al solo pensiero di avvicinarsi così tanto ad un tabù che, se è tale, avrà le sue buone ragioni?
Come ha potuto portare a termine una cosa del genere senza provare spavento e sì anche quel sano, vecchio disgusto che dovrebbe attivarsi al solo pensiero di immettere nel corpo della propria madre il suo proprio seme? Già a scriverlo, signori, non è semplice: occorre farsene un’idea in testa e come sappiamo, noi esseri mimetici per natura, le cose ce le figuriamo quasi fossero vere, vissute sulla nostra pellaccia.
Non vi pare che, con la scusa dei camici, delle fecondazioni in vitro, delle siringhe, degli ambienti asettici, delle brochure patinate a disposizione dei clienti, appoggiate sul bancone del front office di bellissime cliniche, con i video lacrimogeni tutti altruismo e solidarietà amorosa, si stia coprendo con della carta velina un teatro degli orrori? Una messa in scena delle peggiori mostruosità domestiche, una galleria lombrosiana dei tipi criminali che attecchiscono su traumi infantili irrisolti?
Invece no, la suplly chain della comunicazione prevede che dall’idea folle alla sua divulgazione compiaciuta e melensa, nessuno si fermi ad urlare che no, non si fa una cosa del genere.
Perché non può un bambino abitare nove mesi nel ventre di sua nonna, la nonna Patty. Concepito col seme di sua padre che è praticamente quasi fratello. Però in una provetta e non in una tuba vera, con del sangue intorno e il calore giusto tipico del corpo umano; no.
La fornitura della quota genetica della mamma-nuora è avvenuta lì, nella provetta (in vitro fa molto scienziato à la page eppure significa forzato da mano umana, fuori del corpo, fuori dell’incontro sessuale); e la titolare di quella metà di patrimonio genico è quella ragazzona che si vede in foto, abbracciata al ragazzone. Forse una volta nato, questo povero piccolo Cristo, che si chiama Kross, avrà voluto allattarlo la giovane fornitrice di ovocita? (Anche se non credo sia stato semplice, senza la gravidanza. Sappiamo che “ci sono le tecniche per farlo”).
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A Kayla hanno estratto ovociti (che è di più che farsi cavare i denti); il marito ha estratto dalle sue gonadi il liquido seminale nell’unico modo possibile. Dopo diversi tentativi fatti per convincere due cellule ad innescare la loro tipica reazione a catena che fa un portentoso mix di geni e si squaderna poi in una miriade di cellule, organi, tessuti, ce l’hanno fatta. E sono tutti contenti? Aspettiamo di capire dal bambino se sopravviverà alla propria rabbia che ne pensa lui, una volta grande. (E loro stessi, santo Cielo, quanto gli ci vorrà a rendersi conto che hanno fatto male anche a loro stessi?)