Una diatriba ricorrente, perlopiù in bilico tra giacobinismo di terza mano e apologetica d’accatto. Eppure le questioni legate ai calendari antichi e alle ricorrenze liturgiche sono tanto complesse e spesso intricate da richiedere ben altra disposizione. Qui proviamo a fornire uno scorcio d’insieme.
Quando si parla del rapporto tra cristianesimo nascente e antichità classica, in particolare in rapporto alle feste che sarebbero state “copiate e adattate” dai cristiani, si scivola invariabilmente in posizioni polarizzate: da una parte infatti si schiereranno i procuratori del cristianesimo, che lo accuseranno di aver plagiato i culti esistenti al fine di asservire le masse a un nuovo sistema di potere; dall’altro vi si contrapporranno gli apologeti fai-da-te che, a rischio di contraddire la rivelazione, la ragione e la storia, protesteranno l’assoluta originalità del cristianesimo.
In siffatta semplificazione, come si vede, molti dettagli vengono persi – e tanto la verità quanto “il diavolo”, come dice il proverbio, stanno nei dettagli. «Bene dicit qui bene distinguit» è l’adagio classico che Tommaso soleva ripetere ai suoi studenti.
Solitamente è dalla festa del Natale che si attacca bottone per tentare il primo approccio, quando non si arriva alla “teologia delle scie chimiche” di chi afferma che Gesù sarebbe la copia di Horus, Dioniso, Krishna e Mitra: questa seconda declinazione va per la maggiore in segmenti attigui a certi centri sociali, dove tra uno spinello e una pinta di birra ghiacciata ci si dà arie da “gente studiata” – mentre è impossibile sostenere seriamente simili sciocchezze senza ignorare a fondo sia Gesù sia gli altri personaggi (anche Cattonerd ha fornito un agile debunking).
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La prima questione, invece, ha una sua dignità e coinvolge studiosi seri nel mondo accademico. In merito a ciò, anni fa io stesso scrissi un articolo divulgativo che tentava di mettere in luce il problema e una probabile soluzione. Visto il contesto, mi permetto di citare qualche riga di quello scritto:
[…] la prima datazione inequivocabile di una festa pagana per il sol invictus si riscontra nel cosiddetto Chronographus romanus del 354, che riporta, al 25 dicembre: «N(atalis) Invicti, c(ircenses) m(issus) XXX» (si allude ai festeggiamenti pubblici prescritti per il Natale del Sole invitto); nondimeno, anche la prima datazione diretta di una festa cristiana per il Natale del Messia si riscontra nel medesimo cronografo, che accanto alla festività pagana riporta una lista dei natalicia dei martiri romani (ossia delle date delle loro passioni), la quale si apre così: «VIII kal. Ian. natus Christus in Betleem Iudeae» («Il 25 dicembre è nato Cristo, a Betlemme di Giudea»). Il contesto indica quindi che si offre una data per una celebrazione liturgica, ma ritenuta storicamente fondata.
A Martin Wallraff sembra di dover quindi concludere che «l’origine della festa [corsivo redazionale] sarebbe da collocarsi a Roma in età costantiniana» (Christus verus Sol, 180) e che già sotto il regno di Costanzo essa si sarebbe propagata anche a Oriente. Così anche Saxer-Stephan Heid e altri; questa conclusione sembra tuttavia trascurare, in qualche modo, che Agostino rimproverava agli scismatici donatisti (che a Costantino avevano già dato del filo da torcere) il loro rifiuto della festa dell’Epifania, pur riconoscendo che praticavano normalmente quella del Natale. Ora, considerando che lo scisma donatista s’è aperto nei primi anni del IV secolo, e che i donatisti avevano trattenuto ciò che ritenevano costituire il bagaglio sicuro del patrimonio dottrinale della Chiesa, respingendo le “novità”, non si dovrebbe pensare che la festa del Natale fosse già celebrata, almeno in Occidente, almeno da qualche decennio prima della fine del III secolo? Se le cose poi stanno così, che cosa diventa la presunta anteriorità dell’indizione della festa pagana del 25 dicembre, che si fa normalmente cadere sotto l’impero di Aureliano (270-275)?
A quanto ne sappiamo, dunque, le due feste, in quanto feste, potrebbero essere sorte pressoché contemporaneamente, parallelamente e senza alcuna intenzione di mutua incidenza. Ciò che resta misteriosa, invece, è la “preistoria cronografica” di queste due celebrazioni, perché ci parrebbe di riscontrare segni d’autonomia genetica su entrambi i versanti. È stato rinvenuto un antico calendario egizio (di datazione controversa, e comunque da situarsi nel III secolo) che riporta in greco, al solito 25 dicembre: «Elìou genéthlion: aùxei phòs» («nascita del Sole: la luce cresce»).
Ma non è tutto, anzi il meglio sta in un altro punto, che sembrerebbe sciogliere non solo la coincidenza della festa pagana con quella cristiana, ma anche l’apparente confusione tra le due date in cui diverse chiese festeggiavano il Natale (25 dicembre e 6 gennaio):
[…] dal confronto dei calendarî ebraici con quello giuliano, Gianantonio Borgonovo ha forse introdotto elementi decisivi […] : «La prima osservazione, sottolinea Borgonovo, è la seguente: “Il 25 dicembre e il 6 gennaio fanno riferimento alla stessa data, ovvero il 25 di Tevet del calendario ebraico”. “Il 25 dicembre – prosegue – sarebbe la trascrizione popolare del giorno ebraico, mentre il 6 gennaio ne sarebbe l’equivalente preciso”». Non solo, ma tenendo per ferma l’ipotesi della coincidenza storica delle due date come risultanza di una sovrapposizione di calendarî, sarebbe possibile anche individuare l’anno esatto della nascita storica di Cristo: tra il 10 a.C. e il 10 d.C. «un solo anno – infatti – presenta l’equivalenza del 25 di Tevet con il 6 gennaio. Precisamente è il 3.756 dalla creazione del mondo secondo il computo ebraico. È il nostro 5 a.C.».
Quella dei calendari antichi e dei sistemi di datazione è una scienza complessa che richiede grande erudizione e fine intelligenza (sono davvero pochi al mondo a padroneggiarla): dal confronto coi calendari cultuali del tempio e con quelli liturgici delle prime comunità cristiane, dunque, sembrerebbe che le datazioni di concezione e nascita di Gesù siano state calcolate a partire da quelle corrispettive del Battista, a loro volta calcolate dai turni sacerdotali del servizio di Zaccaria (in pratica facendo affidamento sul dettato del testo di Lc 1. In effetti si deve riconoscere che l’ottavo giorno dalle Calende di Gennaio (ossia Natale) cade esattamente sei mesi dopo il 24 giugno, nascita del Battista. Il cerchio si chiude sapendo che anticamente si celebrava in Egitto, almeno dall’inizio del III secolo, anche la festa della concezione di Giovanni Battista – il 24 settembre. A fronte di tutta questa mole di dati, si vede bene come resti poca cosa della scialba obiezione sulla festa del sol invictus (99 volte su 100 chi pone l’obiezione non sa poi dire quando sarebbe stata istituita la festa pagana, ma vuole sindacare su quella cristiana).
Ora, se ci limitassimo a questo tipo di constatazioni staremmo semplicemente scegliendo di schierarci tra gli apologeti fai-da-te, ovvero staremmo deliberatamente trascurando – per quanto con argomenti rocciosi – almeno un paio di considerazioni liminari, che invece ci occorrono per inquadrare bene l’argomento.
Quali sono tali considerazioni?
- Anzitutto che il confronto tra il cristianesimo e “il mondo pagano” non si limita alla sola antichità classica ed ellenistica (dunque greco-romana), ma abbraccia tutta una serie di macro- e microambienti culturali distinti da questo primo: tipo l’Africa non-mediterranea di Numidia ed Eritrea, o l’Asia non mediterranea dell’India e dell’Arabia; o ancora l’Europa non mediterranea delle isole e delle penisole del Nord.
- In secondo luogo, poi, che fu uno sbaglio ideologico proprio di certa teologia protestante liberale del XIX secolo quello di concepire il cristianesimo come una mai meglio precisata pura essenza a sé stante, che sarebbe successivamente entrata in contatto con variegati ambienti culturali. Un’impostazione fallace che non poteva produrre se non aporie ed errori, dal momento che già da sempre il cristianesimo è nato come meticciato di giudaismo (il quale a sua volta era tutt’altro che monolitico) ed ellenismo (eterogeneo per definizione).
Ma per provare a comporre queste due considerazioni in un discorso complessivo fluido e duttile ci appoggiamo a uno dei miei maestri negli studi di patristica. Bruno Luiselli, parlando di cose non immediatamente attigue al nostro tema, lo diceva:
E una cosa è da sottolineare: grazie all’inculturazione, l’insegnamento cristiano si faceva, come si fa oggi, rispettoso delle culture, si confrontava con esse, vi si incarnava e vi si radicava talmente da produrre nuove ricchezze culturali. Nel volgersi, poi, alle genti del mondo extra romano (come da mandato messianico: «Andate e insegnate a tutte le genti» [Mt 28,19]), il cristianesimo continuava la sua inculturazione nei vari versanti allora detti barbarici, utilizzando lingue e culture delle loro masse. Ma, non disponendo quei versanti degli ausili all’ermeneutica biblica che all’interno della romanità erano le disciplinae (o artes) liberales, queste stesse venivano dunque introdotte negli orizzonti della cristianizzazione dei barbari. Di conseguenza, quella che all’interno del mondo romano era stata l’inculturazione del secondo livello, cioè del livello delle élites intellettuali, si trasformava in acculturazione in senso romano, che di fatto creava, via via, intellettuali cristiani non romani ma romanamente acculturati. Con la progressiva cristianizzazione del mondo non romano, l’inculturazione cristiana, messa in opera dalla predicazione e dalla catechesi delle masse, e l’acculturazione intellettuale romana, comportata dallo studio e dall’insegnamento del testo scritturistico, procedevano dunque, via via, parallelamente, e attraverso esse la stessa cristianizzazione da una parte, legittimando e valorizzando le lingue e le culture locali, favoriva, di fatto, la genesi della pluralità delle letterature in lingue volgari (e “nazionali”), dall’altra produceva la genesi della koinè intellettuale e sovranazionale linguisticamente e culturalmente di formazione romana tradizionale e portatrice di cultura classica. Con ciò, dunque, il cristianesimo diveniva motore centrale nel processo di formazione culturale dell’Europa.
Bruno Luiselli, Gotica, letteratura, in NDPAC 2384-2394, 2385
Feste cristiane più o meno “pure”
Questo si dica e si ritenga per quanto riguarda un discorso di metodo. Se invece volessimo proporre una qualche – necessariamente approssimativa – tassonomia nel merito, cioè uno schema di come si possano suddividere le feste cristiane in ordine al loro minore o maggiore grado di “contaminazione esterna”, proporrei la seguente tripartizione:
Feste native
La domenica
Assolutamente la più originale delle feste cristiane, mutua la propria datazione dal giorno dopo il sabato ebraico. Tale festa si è sparsa immediatamente in ogni forma di cristianità conosciuta subito dopo la Pentecoste storica. Il suo cuore è l’eucaristia, accostata alla lettura delle Scritture.
La Pasqua
Quasi contemporaneamente alla domenica, molte comunità hanno preso a festeggiare quella domenica in forza della quale ogni domenica è appunto “il giorno del Signore” (e più tardi sarà detta “la pasqua della settimana”). Come si capisce, la Pasqua mantiene nella sua manifestazione una lievissima posterità cronologica, rispetto alla domenica, ma ne costituisce il fondamento sacramentale. Vi è legato in modo particolarissimo e originario il battesimo, che in alcuni cammini iniziatici veniva impartito esclusivamente (salvi i casi di rischio di morte) nella notte tra “il grande Sabato” e la “Pasqua del Signore”. Era originariamente festa a data fissa, mentre ben presto sarebbero rimaste solo le comunità più giudaizzanti (dette “quartodecimane”) a celebrarla il 14 di Nisan – tuttavia la regola attualmente vigente, che ne fa una data mobile legata sia al calendario lunare sia a quello solare, non sarebbe giunta che al concilio di Nicea.
La Pentecoste
Festa a data mobile immediatamente discendente dalla Pasqua. Trasfigurata rispetto all’originario portato giudaico, indica fin da età remote la vocazione universale della Chiesa.
Il Natale/l’Epifania
Come abbiamo ampiamente illustrato sopra, è ancora incerta la data di prima comparsa della celebrazione natalizia del Signore ma, se è probabile che tale data non affondi nel punto 0 della linea del tempo cristiana, andranno ridimensionate le storiografie che vorrebbero fare del Natale “un’invenzione costantiniana”.
Feste derivate
Culto dei martiri
I cristiani hanno immediatamente tributato a chi moriva o anche solo soffriva fisicamente per la fede in Gesù un onore e una deferenza sacrali. Il Martyrium Polycarpi spiega bene che questo avvenne perché nel martire si individuava un “ὡμόιωμα τοὖ Χριστοὖ” [homòioma tou Christou], in latino una “similitudo Christi”, che oggi potremmo rendere con “una cristificazione perfetta”. Si tendeva a seppellirli generalmente il più vicino possibile al luogo del martirio, ove sorgevano delle memoriæ che sovente sarebbero diventate basiliche. A causa del legame del martirio con l’eucaristia (di nuovo si torni al Martyrium Polycarpi) è sembrato naturale inculturare la celebrazione eucaristica nella prassi pagana del refrigerium. Questo è un buon esempio per capirsi: non si stava cercando di “soppiantare” una pratica con l’altra, come è evidente, ma il senso della fede di un cristiano non poteva che scorgere in quel nesso mistico tra il martire e l’eucaristia il pieno compimento del pasto offerto e consumato sulla memoria dei morti.
Culto dei santi
Con lo scemare delle persecuzioni, furono venerati anche gli uomini morti non violentemente ma “in odore di santità” – a cominciare dai monaci, anacoreti e/o cenobiti – e a costoro fu tributato un culto (di doulía) analogo e subordinato a quello dei martiri.
Pratiche sacramentali
Quando fu evangelizzato il cuore dell’Europa continentale (a cominciare dai Goti di Wulfila nel IV secolo) i grandi missionari che andarono a nord trovarono popolazioni che vivevano in un mondo incantato, popolato da spiriti, fate, elfi e folletti. Un “paganesimo” affatto diverso da quello olimpico che (non senza qualche zona d’ombra misterica) aveva conquistato il Mediterraneo. Una delle prime operazioni che gli araldi del Vangelo fecero, tra queste popolazioni, fu quella che i teologi come Johannes Baptist Metz hanno chiamato “la mondizzazione del mondo”: l’ambiente smetteva di essere palcoscenico di divinità e semidivinità assortite, le quali venivano “allontanate” davanti agli occhi degli indigeni per restare nient’altro che “realtà intramondana”. Ciò avveniva perlopiù mediante l’aspersione in un’acqua che evocava il battesimo ma non veniva utilizzata per battezzare: nascevano così “le benedizioni”, nel cui genere (quello dei sacramentali) sarebbero rientrate altre pratiche importanti e antiche che tuttavia non entrarono nel novero dei sacramenti – come l’esorcismo.
Un caso-limite
Non mancarono, naturalmente, punti di conflitto forte, tra pagani e cristiani, proprio perché gli uni e gli altri ebbero talvolta l’impressione di essere vittime di “colonizzazione ideologica”.
Si pensi a quando nel 415 furono i parabolani di Cirillo d’Alessandria a massacrare a morte la filosofa neoplatonica Ipazia. Un fatto molto grave che ha lasciato pesanti ombre sulla figura di santa Caterina d’Alessandria, la quale sarebbe morta sotto Diocleziano (dunque nel 305) ma del cui culto locale non si hanno notizie certe fino al VI secolo. Un silenzio che non può non rendere molto sospette le somiglianze tra la biografia della filosofa e le tarde leggende sulla principessa egiziana: Jean-Pierre Déforis fu il primo a dubitare apertamente della storicità del personaggio, e la storica dell’arte Anna Jameson fu la prima ad additare apertamente le vistose assonanze tra i due personaggi. Il culto di santa Caterina non è mai stato abolito o proibito, però l’ipotesi che il profilo agiografico sia stato ricalcato su quello della vittima eccellente esula – per la sua straordinarietà – dal campo della semplice inculturazione, per approdare al mondo di Totem e tabù di Sigmund Freud. Ma così – come risulta evidente – trascenderemmo pure i campi della storia e della teologia per navigare a vista nell’infido mare della psicanalisi.
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Un episodio eclatante di inculturazione moderna
Siamo soliti pensare all’inculturazione come a un fenomeno liminare all’epoca patristica, e dunque confinato in epoche remote. Essa invece è un atteggiamento costante del cristianesimo nei riguardi del mondo (in cui, oltre che per cui, già da sempre il primo esiste), e forse ci riuscirà tanto più facile coglierne la portata rileggendo queste parole che Pio XII volle pronunciare a due anni dalla morte, il 1o maggio 1955:
DiteCi apertamente, sotto questo libero cielo di Roma: Saprete voi riconoscere, tra tante voci discordi e ammalianti a voi rivolte da varie parti, alcune per insidiare le vostre anime, altre per umiliarvi come uomini, o per defraudarvi dei legittimi vostri diritti come lavoratori, saprete riconoscere chi è e sarà sempre la vostra sicura guida, chi il fedele vostro difensore, chi il sincero vostro Padre?
Sì, diletti lavoratori; il Papa e la Chiesa non possono sottrarsi alla divina missione di guidare, proteggere, amare soprattutto i sofferenti, tanto più cari, quanto più bisognosi di difesa e di aiuto, siano essi operai o altri figli del popolo.
Questo dovere ed Impegno Noi, Vicario di Cristo, desideriamo di altamente riaffermare, qui, in questo giorno del 1o maggio, che il mondo del lavoro ha aggiudicato a sé, come propria festa, con l’intento che da tutti si riconosca la dignità del lavoro, e che questa ispiri la vita sociale e le leggi, fondate sull’equa ripartizione di diritti e di doveri.
In tal modo accolto dai lavoratori cristiani, e quasi ricevendo il crisma cristiano, il 1o maggio, ben lungi dall’essere risveglio di discordie, di odio e di violenza, è e sarà un ricorrente invito alla moderna società per compiere ciò che ancora manca alla pace sociale. Festa cristiana, dunque; cioè, giorno di giubilo per il concreto e progressivo trionfo degli ideali cristiani della grande famiglie del lavoro.
Affinché vi sia presente questo significato, e in certo modo quale immediato contraccambio per i numerosi e preziosi doni, arrecatici da ogni regione d’Italia, amiamo di annunziarvi la Nostra determinazione d’istituire — come di fatto istituiamo — la festa liturgica di S. Giuseppe artigiano, assegnando ad essa precisamente il giorno 1o maggio. Gradite, diletti lavoratori e lavoratrici, questo Nostro dono? Siamo certi che sì, perché l’umile artigiano di Nazareth non solo impersona presso Dio e la S. Chiesa la dignità del lavoratore del braccio, ma è anche sempre il provvido custode vostro e delle vostre famiglie.
Ecco, come si vede quello che ho documentatamente negato per il Natale devo documentatamente affermarlo per la festa di san Giuseppe Lavoratore: in questo caso la Chiesa intervenne apertamente a smaltare delle proprie ragioni e dei propri fini una ricorrenza sorta settant’anni prima in Nordamerica tra ingiustizie e soprusi di Stato. Giova in tal senso richiamare – e valga questo per conclusione – che i fini propri alla Chiesa sono la gloria di Dio e la salvezza degli uomini: sarebbe stato assai deprimente lasciare ai lavoratori, per loro festa, il ricordo delle sconfitte subite nella lotta di classe (anche per la “festa della donna” s’è verificato lo stesso – ma non si può chiedere al mondo di dare speranza agli uomini, non ne è capace…). L’unica cosa che, col senno di poi, si può rimproverare alla Chiesa per il suo aver inculturato la festa dei lavoratori con la figura di san Giuseppe… è di averci messo tutti quegli anni.
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