Primo giorno di visita papale nel Paese del Sud-est asiatico e subito un confronto con i vertici dell’esercito. Con l’obiettivo di portare la pace per le minoranze perseguitate
Il viaggio di Papa Francesco in Myanmar è iniziato con un doppio cambio di programma: avrebbe dovuto incontrare il generale Min Aung Hlaing, ma si è ritrovato di fronte tutti i vertici militari del Paese. Il primo incontro è stato infatti con il capo dell’esercito e altri vertici militari che hanno governato per anni con pugno di ferro l’ex Birmania. «Nel colloquio di oggi – ha spiegato il portavoce della Santa Sede, Greg Burke – si è parlato della grande responsabilità delle autorità del Paese in questo momento di transizione».
Su ciò che dirà il pontefice pende poi un particolare divieto, quello di non pronunciare la parola ‘Rohingya‘, la minoranza islamica cacciata dal governo e che ha dovuta rifugiarsi in Bangladesh.
“Non deve nominare quella parola…”
Il dramma dei Rohingya è centrale nella visita apostolica di Papa Francesco in Myanmar. Il cardinale Charles Maung Bo, vescovo di Rangoon, capitale di Myanmar, in un’intervista a Tv2000 (11 novembre) aveva rinnovato l’invito a non parlare di Rohingya: «Ho avvertito il Papa. Gli ho detto che sia il governo che i militari, ma anche la gente in generale, soprattutto gli appartenenti alla Polizia non gradiscono questo termine. Speriamo che non usi questa parola perché ha un’accezione molto politica. È un termine contestato» ha detto l’arcivescovo di Rangoon.
L’esodo dei 600mila sfollati
Da fine agosto l’esodo dei profughi Rohingya verso il Bangladesh – 622 mila secondo l’Unhcr, che vanno ad aggiungersi ai 160 mila già presenti – ha causato una tragedia umanitaria. «Se usi questa parola – ha proseguito il card. Bo – vuol dire che sposi completamente la loro causa. Anche se io ho cercato di spiegare che se dovesse usare quella parola questo non vuol dire che il Papa vuole interferire nella politica interna birmana, ma semplicemente lo fa per una particolare simpatia verso queste persone che stanno soffrendo. Potrebbe farlo ma solo per indicare di chi stiamo parlando» (L’Huffington Post, 27 novembre).
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L’incontro con il premio Nobel
È stato spostato a domani 28 novembre il faccia a faccia più atteso, quello con il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, oggi consigliera di Stato e ministro degli Esteri, duramente criticata per non aver preso una posizione forte contro la persecuzione dei Rohingya. (La Repubblica, 27 novembre).
La minoranza cristiana
Ma nel colloquio con il premio Nobel sarà centrale anche la situazione dei cristiani nel Paese del sud-est asiatico. Il Myanmar ha 50 milioni di abitanti e meno dell’1% di cristiani: 600.000 in tutto. Il 90% della popolazione è composto da buddisti, come riferisce padre Bernardo Cervellera, missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME) (Aleteia, 10 ottobre).
Questo viaggio, infatti, interessa al Papa per sostenere le minoranze cristiane e la lotta alla povertà (il 15% della popolazione è povera, ma nelle campagne si arriva al 40%).
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Conversioni tra i contadini
E sono proprio i più poveri a sentirsi maggiormente accolti dalla Chiesa. Come spiega Cervellera «si sentono accolti, tra le altre cose, perché per gli induisti sono “paria” (fuori casta ndr) e per i musulmani gente da sfruttare. La maggior parte dei poveri è composta da animisti, ritenuti infedeli. Ogni giorno constatiamo fino a dieci notifiche di contadini sfrattati dai musulmani». Ed è questa continua crescita in termini numerici della minoranza cristiana ad infastidire chi è oggi al potere in Myanmar.
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