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Ma Gesù non era a sostegno della pena di morte? E la macina da mulino per chi scandalizza i piccoli?

GHIGLIOTTINA
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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 12/10/17 - aggiornato il 29/11/21
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In un discorso tenuto l'11 ottobre 2017, papa Francesco ha chiesto che il n. 2267 del Catechismo sulla pena di morte venisse modificato ancora una volta. Ciò che sarebbe accaduto nel maggio 2018 e notificato nell'agosto dello stesso anno.

Certo, il libro che va sotto il nome di “Memorie di un carnefice scritte da lui stesso” si gioverebbe non poco di un’edizione critica: a naso si scorgono almeno due o tre mani intervenute sul testo – un diario, probabilmente scarno, del boia; un redattore anticlericale intervenuto diffusamente a caricare il chiaroscuro delle contraddizioni insite nel soggetto; un novellista con una vaga indulgenza verso il tema erotico intervenuto a condire tante amarezze con un poco di piccante, e forse questo fu Ernesto Mezzabotta (meno immediato sarebbe stabilire quale mano sia stata la prima, tra la seconda e la terza, e se per caso rispondano a un unico progetto editoriale). 

Scritto e pubblicato il 12 ottobre 2017, questo articolo non può contenere le modifiche al nº 2267 del Catechismo della Chiesa Cattolica che sarebbero poi effettivamente state positivamente introdotte, e delle quali pure si è successivamente scritto.

I Papi contro la pena di morte

“Mastro Titta” è un eponimo proprio di ogni boia romano, trattandosi della contrazione onomastica del titolo “Maestro di Giustizia”, ma il Bugatti fu di gran lunga il più celebre di tutti, forse per l’essere stato l’ultimo (quasi: nel 1864 il beato Pio IX, suo corregionario, gli accordò una pensione e lo sostituì con Vincenzo Balducci [anche “Calducci”]), o anche per la fortuna letteraria che gli venne dalle Memorie, dai sonetti del Belli e dalle lettere di illustri viaggiatori, dal Rugantino e da altri romanzi popolari… Fatto sta che nello Stato Pontificio si sono “segati colli” (come suggestivamente si dice a Roma) fino a due mesi prima della breccia di Porta Pia. L'11 ottobre 2017 Papa Francesco, in modo inatteso ma non estemporaneo, ha fatto riferimento a quel lungo tempo in cui la legge dello Stato Pontificio ha contemplato la pena capitale:

Il passaggio di Papa Francesco è interessante perché non solo il Santo Padre ha ripercorso e assunto “le responsabilità del passato”, ma ha pure soppesato il peso specifico della dottrina sulla pena di morte nella tradizione della Chiesa, e lo ha fatto con piena e autorevole avvertenza – non a caso cita il famoso passo del Commonitorium sullo sviluppo armonioso della dottrina – evidenziando che, semmai, fu proprio l’inserimento di «questo estremo e disumano rimedio» nell’ordinamento secolare ecclesiastico a rappresentare un allontanamento dallo spirito e dalla lettera del Vangelo. Lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica (che contestualmente Papa Francesco chiedeva espressamente di ritoccare) espone “l’insegnamento tradizionale della Chiesa” in materia senza particolari enfasi, e anzi picchettando con cura il perimetro delle condizioni:

La richiesta del Santo Padre avrebbe ottenuto il proprio effetto l'11 maggio 2018 (la notifica sarebbe poi giunta il 1º agosto 2018). Avendo convocato in udienza il Cardinal Prefetto della CDF Luis Ladária, il Romano Pontefice avrebbe approvato la seguente riformulazione del nº:

Si deve notare che il terzo paragrafo del numero di riferimento integrava in un primo ritocco, già cinque anni dopo la pubblicazione provvisoria del 1992, il contributo magisteriale di Giovanni Paolo II, in materia. Il Papa polacco, infatti, era intervenuto due anni prima, nella Evangelium vitæ, per esporre e difendere la concezione cristiana della vita umana. In quel testo si parlava moltissimo di aborto e di eutanasia, ma non mancavano cospicui riferimenti alla pena di morte e allo “scandaloso commercio delle armi” (EV 10) – giusto per evitare di arruolare il Magistero in dialettiche politiche “di destra” o “di sinistra”. Nella primo capitolo del documento, dunque, un attimo prima di salutare con favore le crescenti attenzioni “bio”, Papa Wojtyła rendeva ancora più angusto lo spazio libero per la concessione anche solo teorica della pena di morte:

E si spiegava una trentina di numeri più in là, il Pontefice:

E a mezza strada tra i due punti Giovanni Paolo II illustrava pure le ragioni teologiche dell’ideale cristiano, perfino di fronte all’apparente (o reale) contraddizione con la prassi e le dottrine elaborate in un certo passato (che ci spiega non essere “il passato”, a differenza di quanto alcuni pretendono):

C’è un “messaggio complessivo”, della Rivelazione, che dev’essere letto al di là di singole contraddizioni: questo messaggio è portato alla perfezione nel Vangelo e se la Chiesa è chiamata a non abbassare l’asticella della perfezione in materia di matrimonio, e dunque di sacramentaria, cioè di grazia, ancora meno potrà farlo nell’ambito della pura filosofia naturale.

Le parole di Gesù… a sostegno della pena di morte?

E a proposito di Vangelo, alcuni obiettano che sembrerebbe sussistere un appiglio esegetico per giustificare la pena di morte partendo dalle parole di Gesù. Si tratterebbe del passo matteano della “macina da mulino”:

Una sorta di “lodo pedofilia”, dunque? Esisterebbe una colpa passibile di morte nell’umano consesso, stando a Gesù? E quella colpa sarebbe la pedofilia? Sembra un’interpretazione isterica, viziata da un clima (anche comprensibilmente) elettrizzato, sull’argomento: in realtà nulla lascia pensare che parlasse dei bambini (almeno in via esclusiva), e se il contesto rende più che plausibile che i bambini c’entrino basta avere un minimo di attenzione critica, su quel medesimo contesto, per cogliere anche la distinzione. Il contesto infatti si estende dal v. 1 al v. 10 del cap. 18 di Matteo: l’ultimo versetto riprende i termini del v. 6 e dell’1 per chiudere la pericope. All’interno dei dieci versetti si evidenzia, per quanto ci interessa, una significativa distinzione: in 18,1-5 si pone la domanda sulla grandezza (usando la parola greca μείζων [mèizon], letteralmente “più grande”), ma la risposta di Gesù si compie col gesto di chiamare e additare un bambino (l’evangelista usa la parola παιδίον [paidíon], che significa “fanciullo” e che non si contrappone dialetticamente, di per sé, a “grande” o a “più grande”): il discorso diretto di Gesù, poi, spiega che bisogna “diventare come i bambini” [παιδία] per entrare nel regno; che chi diventa come quel bambino [παιδίον] è “il più grande” [μείζων] nel regno; e che chi accoglie anche un solo bambino [παιδίον] come quello nel suo nome sta accogliendo Gesù stesso. Dunque la parola “bambino” torna tre volte sulle labbra di Gesù e una sulla penna dell’Evangelista. Quattro volte in quattro versetti. E nessuna in tutti gli altri sei.

Dal versetto 6, infatti, Gesù continua a parlare di quelli di cui ha detto fino a quel momento (usa il dimostrativo “questi”), ma non usa più la parola “bambino” [παιδίον], bensì quella “piccolo” [μικρός] (mikròs, che si contrappone, dialetticamente e di per sé, a “grande” e a “più grande”). La parola non tornerà più fino al versetto 10, dove appunto ricompare nel medesimo sintagma del v. 5 riprendendo il tema dei cieli, che era stato posto nel v. 1.

Quello che accade nei vv. 7-9 spiega dunque chi sono i “piccoli” e in che senso si distinguano (se si distinguono) dai “bambini”: Gesù si mette a parlare in seconda persona, impiegando il “tu generico”, e spiega cosa vuol dire evitare gli scandali e come fuggirli. “Tagliati la mano o il piede” e “cavati l’occhio”: in ballo c’è sempre il regno del v. 1. Il “piccolo” è l’uomo che ascolta Gesù e «torna e diventa bambino» (perché l’infanzia spirituale non è conseguibile tramite un “regresso” psicologico o un’impensabile inversione dei processi biologici – cf. Gv 3, 1-8), e quel piccolo – che è in ciascun discepolo – deve essere difeso dallo scandalo e al contempo ha il dovere di preservarsene.

Dunque i bambini non c’entrano e quindi possono essere scandalizzati? Ma figuriamoci! Gesù invita gli uomini a diventare come i bambini per permettere poi di scandalizzarli? Non ha senso. Il fatto è che chiunque si conosca un minimo sa bene – e la sua grandezza sta solo in questo – di essere piccolissimo e fragilissimo davanti a qualunque alito di vento. Ormai diversi anni fa Georges Cottier, teologo della casa pontificia, commentava così il passo:

Dunque la mano che ci dà scandalo può essere l’ansia di protrarre una manomissione nella fede cristiana col solo pretesto che essa è stata lunga e dunque ci rassicura nelle nostre ansie di instabilità: il Signore, tramite il Magistero autentico della sua Chiesa, ci invita per esempio a tagliare la scandalosa mano che toglie la vita ai fratelli. Allo stesso modo, può darsi che ci sia un occhio cattivo che ci è di scandalo: Papa Francesco ci invita pressantemente a toglierci dalla testa l’invidia (“occhio cattivo” sta appunto per “invidia”, in greco) per la misericordia di Dio. È per il nostro bene: è quando pensiamo di essere giusti che siamo ingiusti; è quando pretendiamo di essere giganteschi rispetto agli altri che siamo dei nani di fronte a Dio.

1969: Nell'anno del Signore

E perché in questo carosello di paradossi e di contraddizioni non ci facciamo mancare nulla, riporto con piacere le battute di un bellissimo film di Luigi Magni, produzione italofrancese: è l’ultimo in cui comparve Mastro Titta al cinema (anche se Magni sbaglia a rappresentarlo come un vecchio – nel 1825, quando si svolge la storia, il Bugatti era nel pieno rigoglio fisico di un quarantaseienne), e per giunta è datato 1969 – l’anno in cui Paolo VI stralciò “l’ultimo supplizio” dal libro “dei delitti e delle pene”.

In una serie di botta e risposta da antologia tra Alberto Sordi, Giuseppe Rinaldi e Massimo Turci (rispettivamente un anonimo frate, Leonida Montanari e Angelo Targhini) si evidenziano con graffiante intelligenza le contraddizioni di un potere – quello pontificio – che pretendeva al contempo di perpetrare le più violente violazioni dei diritti umani e le più alte

E proprio perché Magni non faceva anticlericalismo d’accatto la contraddizione viene attribuita non “alla Chiesa”, ma “al potere” – come ieri ricordava Papa Francesco – e se la contrapposizione tra alto e basso clero è pur sempre un cliché liso e stinto (peraltro il cardinale Rivarola non irrogò la sentenza di morte su Targhini e Montanari, a differenza di quanto mostra Magni…), bisogna riconoscere che il sublime Albertone nazionale sapeva rendere tragici quei dialoghi che sulla carta nascevano comici. Ecco perché il tutto acquistava un’aria seria e soave, fresca e sempreverde come una pineta. Il Vangelo e la viva Tradizione della Chiesa, che all’osservatore distratto ne appariva distante, vi si ritrovano con un sorriso pieno di memoria e di riconciliazione.

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