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Il sacerdote che dà fastidio a sindaci e narcos

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Alfa y Omega - pubblicato il 07/10/17
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Alejandro Solalinde e la difesa dei migranti in Messicodi Cristina Sánchez Aguilar

Il messicano Alejandro Solalinde era “un sacerdote borghese”, come si definisce egli stesso. In gioventù membro dell’organizzazione El Yunque, voleva diventare gesuita ma i superiori lo dissuasero perché era “troppo progressista”. Grazie ai Carmelitani ha capito che El Yunque era “un’organizzazione estremista” e ne ha preso le distanze. Ma “mi piaceva mangiare bene, amavo i bei vestiti…”



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Ha impiegato molto tempo per trovare il suo posto nel mondo, “con i migranti”. A 60 anni ha lasciato tutto per fondare a Ixtepec l’ostello Hermanos en el camino (Fratelli nel cammino), a 30 metri dalla ferrovia chiamata La Bestia. “Ora l’unico obiettivo importante per me è la croce greca che porto al collo”.

Nominato per il Premio Nobel della Pace, hanno cercato di ucciderlo in varie occasioni. Una notte un sicario gli ha puntato un’arma alla testa, ma un ordine inaspettato ha fatto sì che non lo assassinasse. Un’altra notte sono entrati nell’ostello il sindaco di Ixtepec e il suo seguito, armati di bidoni di benzina e disposti a dar fuoco a tutto. “Mi sono messo con le braccia incrociate davanti a loro e ho chiesto che mi bruciassero. Lo Spirito Santo mi ha parlato chiaro: è stato Lui, è stata la fede a darmi la forza di resistere”.

Quello che gli fa più male non sono le minacce delle autorità, ma l’incomprensione di molti fratelli sacerdoti e vescovi. “Do fastidio perché parlo. Si può rimanere in silenzio quando in questo Paese vengono assassinate sette donne al giorno? Qui nessuno leva la propria voce”.

Il sacerdote ricorda con nostalgia il documento di Aparecida. “È fantastico”, ha confessato, ma al massimo “qualche vescovo ha tirato fuori un quadernetto per la pastorale. Non è stato messo in pratica”. Un presule di una piccola diocesi gli ha detto: “Non credere che non capiamo ciò che ci chiedi, ma cambiare costa fatica”. Il sacerdote sottolinea però che “quando si capisce bene il messaggio di Cristo si può”.

Il dramma dei migranti

María sapeva che l’avrebbero violentata, e non una o due volte. “Nonostante questo ho preso la via verso nord, perché non volevo che i miei figli diventassero soldati delle maras [gangs di alcuni Paesi latinoamericani, n.d.t.]”. Viaggiava con il compagno e i due figli, di 10 e 8 anni. A un certo punto sono stati intercettati da una banda e trasferiti in una “casa di sicurezza”, nome con il quale sono noti i covi in cui i narcotrafficanti nascondono centinaia di migranti che sequestrano ogni giorno.

“Ci hanno chiesto il contatto dei nostri familiari perché pagassero un riscatto. Mia madre ha detto loro che era vedova e che aveva altri tre figli, e non sapeva da dove tirar fuori il denaro. Per via del dolore che le ha provocato il fatto di non potermi aiutare ha avuto un infarto”. Il padre di Juan, il compagno di María, ha detto che non avrebbe potuto raccogliere più di mille dollari. “Visto che era poco mi hanno venduto come prostituta, e ogni notte vari uomini mi violentavano davanti a Juan. Non ricordo i loro volti, solo gli occhi spietati. Per loro non ero altro che un corpo”.

La prima legge per le donne centroamericane che attraversano il Messico per raggiungere il sogno americano è “sopravvivere agli abusi sessuali”. Rispettano questa legge sette donne migranti su dieci che hanno sopportato violenze per mesi “da parte delle autorità, dei narcotrafficanti e anche dei compagni di viaggio”.

Prima di partire si iniettano il Depo-Provera, un anticoncezionale di un unico ormone che dura 90 giorni e ha un margine di errore del 3%. È chiamata comunemente “iniezione anti-Messico” e si vende in Honduras, Guatemala o El Salvador in modo libero per tre euro.

Ana María se l’è iniettata, ma aveva anche dei preservativi “per evitare le malattie”. Quello che non avrebbe mai immaginato è che i suoi nemici principali sarebbero stati i suoi compagni migranti, che hanno abusato di lei a colpi di machete. “Nonostante questo voglio proseguire la mia marcia verso gli Stati Uniti. Ormai sono rovinata, ma se arrivo al nord e mando il denaro a casa almeno le mie sorelle potranno studiare e avere una vita dignitosa. Non si vedranno costrette a partire”.

Lo ha raccontato quasi come un automa, seduta di fronte a Lucia Capuzzi, la giornalista del quotidiano Avvenire che dopo aver conosciuto padre Solalinde ha scritto un libro che Mensajero ha appena pubblicato in Spagna col titolo Una vida en riesgo (Una vita a rischio). “Gli hanno cambiato il nome. L’altro non mi piaceva”, ha riconosciuto padre Solalinde parlando con Alfa y Omega nella sede di Madrid di Amnesty International. Il titolo in italiano recitava “I narcos mi vogliono morto”, ma lui non vuole darsi importanza. I veri eroi della storia sono i migranti.

Un altro affare per i narcos

In Messico ogni giorno scompaiono 54 persone. Questa è la cifra ufficiale, ma il loro numero è infinitamente superiore. “Tutto il Paese è una fossa, ma nessuno parla”, afferma padre Solalinde. I migranti sono un affare per i criminali dei cartelli della droga. Non hanno nome. Nessuno sentirà la loro mancanza.

Il modus operandi per catturare i migranti consiste nell’aspettare che La Bestia, il treno merci che attraversa il Messico, sia pieno di illegali. I narcos fermano il macchinista minacciandolo con una pistola con una frase comune: “Plata o plomo”.

Il conducente in genere sceglie di non morire e di prendersi un po’ di soldi. I migranti vengono portati in fattorie isolate e lì avviene la selezione: “Gli anziani, inutili, vengono assassinati”, gli altri restano come ostaggi sotto la vigilanza di sadici che li torturano e chiedono alle famiglie fino a 7.000 dollari.

La tragedia è che quel denaro, che in genere getta le famiglie nella rovina e con le fa indebitare per tutta la vita, non porta alla liberazione dell’ostaggio, ma alla sua cessione a un’altra banda. “Sono obbligati a prostituirsi, ad affrontarsi a colpi di arma da fuoco con bande rivali o destinati al mercato dei trapianti. I trafficanti di organi arrivano a pagare per un rene o un fegato 150.000 dollari”, ha spiegato il sacerdote. Nelle discariche urbane appaiono spesso, infatti, corpi senza occhi o senza polmoni. Solo nella regione di Coahuila nel 2016 sono stati scoperti circa 4.500 resti umani.

Hermanos en el camino

Nel gennaio scorso padre Solalinde ha abbandonato la sua parrocchia tranquilla e si è messo a 60 anni a costruire un ostello a 30 metri dalla ferrovia, con poco denaro e l’opposizione delle autorità. La causa scatenante è stata la scomparsa di decine di migranti di un gruppo di 700 arrivato a Ixtepec. “Li hanno venduti alla Polizia, che a sua volta li ha ceduti ai narcos. I loro compagni hanno deciso di andare a cercarli e anch’io sono voluto andare. I poliziotti ci hanno fermati prima di arrivare a uno dei covi. Poi ho saputo che era il modo per dare ai narcos il tempo per trasferire gli ostaggi. Ci hanno attaccato con gas e idranti. Sono stato arrestato e sono rimasto 14 ore in carcere”. “È stata una benedizione”, ha confessato. “Ho visto il mostro in faccia”.

Per comprare il terreno ha dovuto camuffarsi, perché il sindaco aveva detto ai vicini di non vendere al prete neanche un metro di terra. “Il muro di cinta che ora circonda la casa è stato costruito con una donazione di Benedetto XVI, che ci ha inviato 18.000 euro dopo aver ricevuto una lettera nella quale gli raccontavo del costante assalto da parte di narcos e autorità”.

In questi dieci anni sono migliaia le persone che sono passate per l’ostello Hermanos en el camino.
Riposano, mangiano, se vogliono vanno a Messa nella cappella dipinta di rosa e coronata da un Cristo ferito, “come loro”. Possono restare quanto desiderano senza pagare niente, e il personale volontario aiuta a presentare denunce contro i criminali o la Polizia.

“Perché tutto ciò che accade non sarebbe possibile senza la complicità delle istituzioni. I narcos finanziano le campagne dei politici”. Di fatto, si calcola che circa l’80% dei 2.200 comuni messicani sia controllato da sindaci legati ai narcos, come ha spiegato nel prologo del libro don Luigi Ciotti, noto per la sua lotta contro la mafia.

Il caso di Elvis

Prima del 2014, uno ogni dieci ospiti era stato vittima di qualche crimine, ora sono nove su dieci, ma delle 811 denunce presentate dall’ostello tra il 2014 e il 2016 solo due hanno portato all’identificazione del responsabile.

“Il Messico applica la tortura”, dice il sacerdote, raccontando il caso di un ragazzo guatemalteco bruciato con una pistola elettrica dai membri dell’Istituto Nazionale per le Migrazioni (INM). Denunciare, però, può costare la vita, e per questo molti decidono di tacere.

Non lo ha fatto Elvis Garay, un giovane nicaraguense denunciato dalla moglie messicana alle autorità quando gli è scaduto il permesso di soggiorno. “Per due mesi gli agenti delle migrazioni lo hanno violentato, e visto che ha voluto presentare una denuncia è stato messo in un centro psichiatrico dove lo hanno torturato psicologicamente. Una dottoressa gli ha detto di andarsene, che erano arrivati ordini dall’alto di ucciderlo”.

Il ragazzo “è venuto a cercarmi e sto lottando con lui. Siamo anche andati al Ministero dell’Interno. Per farlo tacere sono arrivati addirittura a offrirgli la cittadinanza, ma lui è impegnato ad andare avanti con la denuncia e porteremo la cosa davanti a istanze internazionali. Vuole giustizia perché chi verrà dopo di lui non subisca le stesse cose”.

Padre Solalinde avverte che “il Governo ormai sa che se succederà qualcosa a Elvis non resterò con le mani in mano”.

Non ha paura di essere ucciso? “Poco tempo fa hanno ammazzato il coordinatore del nostro ostello. È stata l’unica persona che è riuscita a far andare a processo due poliziotti. Possono uccidermi in qualsiasi momento, ma denuncerò fino all’ultimo respiro”.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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