Se facciamo così, le incombenze non diminuiscono, ma aumentano la gioia e il coraggio per affrontarleQuesta mattina una carissima amica mi ha mandato un messaggio. È un’amica, davvero. Più di una volta mi ha detto, suggerito o scritto proprio quello di cui avevo sete. Uscendo anche dalla comfort zone della consolazione reciproca, del “hai ragione, sei bravissima, non ti preoccupare”. A volte mi ricorda proprio una sorella, maggiore. Sebbene mia coetanea (e bellissima).
Certo, mi conosce e sa quindi come siano più o meno le mie giornate; ricorda bene il numero dei miei figli, moltiplicato per il coefficiente età-preadolescenza e non nasconde la sua sfacciata predilezione per il piccolo, così severamente colpito da malattia. Sa che la mia sensibilità sconfina spesso in sofferenza, che le lacrime restano pronte sul bordo dell’occhio smaniose di scrosciare come una cascata sapida.
Mi risolleva volentieri con qualche colorita espressione toscana. Condisce le telefonate con episodi grotteschi. Ma la cosa che sa fare meglio è spiegarmi, farmi sempre e di nuovo presente dove posso andare a prendere fiato. Dove trovare ristoro. Dove posare lo sguardo prima che soccomba sotto il peso di palpebre aperte da tante ore. Dove trovare il silenzio di una grotta fresca e inaccessibile, in fondo all’anima.
Mi ricorda sempre l’essenziale, viziandomi ogni tanto con qualcosa di superfluo. Una cosa che fa di sovente è verificare la frequenza di uscite in solitaria, anzi in coppia. «No, guarda, ci devi proprio stare, col tu’ marito, anche solo un’ora. Anche solo per mangiare un panino con la porchetta sulla panchina del parco vicino casa, ma soli, tu e lui».
E mi raccomanda di non saltare la Messa, quella quotidiana. O almeno di difendere come castello fortificato uno spazio piccolo di preghiera personale. Le basi, insomma, l’abc della vita spirituale. I solchi da scavare sempre più netti e profondi perché l’io interiore, la vita dell’anima non inselvatichisca, non soffochi coperta di rovi spinosi fatti a forma di preoccupazione e stress. Perché, senza acqua, non diventi tutta polverosa, la mia terra. E il seme piccolo, ma potente, cresca.
Ecco, stamattina, mi ha regalato un pensiero dell’amata e forse ancora troppo poco conosciuta Santa Teresa Benedetta della Croce, al secolo – breve – Edith Stein. È passata da poco la sua memoria liturgica, che cade il 9 agosto, ma per me è oggi la giornata forte nella quale, grazie a quell’amica (e ad un’altra carissima amica e confidente, che oltre a suggerirmi letture magnifiche mi fa scompisciare sempre dalle risate anche solo un attimo dopo le ultime lacrime versate dal vaso sempre pieno della lamentela) guardo a questa donna come ad un modello altissimo e vicino. Come ad un messaggero coraggioso che attraversando truppe nemiche, paludi e boschi è corso indietro a consegnarci un lasciapassare.
Leggi anche:
7 citazioni di Edith Stein che ogni donna dovrebbe leggere
«Quando la mattina ci svegliamo, subito i doveri e le cure del giorno cominciano ad assediarci e si affaccia l’interrogativo: “Come si può sistemare tutto in un giorno? Quando farò questo, quando farò quello? Come affrontare questo dovere, come porre mano a questa faccenda?”
Ci si vorrebbe alzare d’impeto e cominciare a correre. Allora è necessario prendere in mano le redini e dirsi: “Calma! La mia prima ora del mattino appartiene al Signore“. Il lavoro quotidiano che Egli mi affida voglio affrontarlo, ed Egli mi darà la forza per portarlo a termine. Così voglio andare all’altare del Signore. E quando il Signore viene a me nella santa Comunione, Gli potrò chiedere: “Che desideri da me Signore?” E ciò che, dopo il silenzioso colloquio con Lui, mi si presenterà come il compito più immediato, darà inizio al mio lavoro. Se comincio la mia giornata lavorativa dopo la Messa mattutina, vi sarà in me un sacro silenzio e la mia anima sarà vuota da ciò che vorrebbe inquietarla e affaticarla e sarà, invece, piena di santa gioia, di coraggio ed energia».
Questa perla è tolta dallo scrigno de La Donna. Questioni e riflessioni, OCD, 2010.
Ecco, io mi trovo ormai quasi a sera. La giornata mi ha vinto. Le occupazioni, i compiti, la fisioterapia, le medicine da procurare, le richieste speciali da inoltrare ad uffici speciali e tendenzialmente chiusi. I libri scolastici da ordinare, la cucina in subbuglio. La ragazza dell’associazione Mato Grosso che suona al campanello e chiede abiti usati. Il cane che ruba e rompe una scarpa. I bisticci tra sorelle. I compiti da finire. Il marito premuroso ma stanco. I vestiti che si ammucchiano. La burocrazia e i suoi ingranaggi infernali che riprendono a sferragliare. Le disgrazie fresche di giornata lette su qualche schermo. Le piccole offese, le punzecchiature feroci, le fatiche, le distanze, le risposte asciutte, le pretese avanzate.
Il male subito, ma soprattutto il male fatto, l’incuria e l’impazienza. Lo sconforto colpevole. E la pace è fuggita, contrariata, dal mio cuore così agitato e in disordine.
La Messa l’ho persa. La liturgia delle ore, anche. Nemmeno un Angelus con le figlie, ho recitato. Solo brevi giaculatorie. Ma tutto è andato come disperso, nell’agitazione, nell’affanno.
Non sono tornata indietro, non mi sono abbassata per entrare nella grotta. Sono rimasta fuori alla polvere e alla calura. Non ho chiesto al mio Signore quello che volevo. Non Gli ho chiesto quello che Lui avrebbe voluto da me.
Sarebbe forse bastato canticchiare, tra me e me, anzi tra me e Lui il ritornello dell’altra grande Teresa: “Vuestra soy, para vos nací:¿qué mandáis hacer de mi?”
Lo faccio ora, chiudo il pc e mi nascondo in bagno. O esco in giardino e accarezzo il cane. Sto vicino alla Madonnina bianca e mi faccio fare compagnia. E le canticchierò quel ritornello. Con Lei chiederò al Signore “¿Que mandais hacer de mi?”. Varrà per questo scampolo di giorno, fatto tutto di presente e per questo ancora col sapore di eterno.