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I figli dei preti: forse è in arrivo il nuovo “caso Spotlight”? (II parte)

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Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 23/08/17

Dopo aver passato in rassegna il dossier del Boston Globe, e senza mancare di sottolinearne limiti e preclusioni, cerchiamo di spiegare per quale via anche un eventuale scandalo possa fare il bene della Chiesa, e perché in nessun caso questa possa essere costretta a sopprimere il celibato sacerdotale

QUI LA PRIMA PARTE DEL DOSSIER

Storia e letteratura

In modo incomprensibile, se ci si attiene al tema che sta a cuore a Doyle e non a quello che sembra essere nelle mire del Boston Globe, Rezendes passa in rassegna una serie di casi del passato, più o meno noti ma comunque pubblici. Il documento si rivolge a considerare rapporti al Vaticano concernenti i sistematici abusi sessuali di preti ai danni di suore, avvenuti prevalentemente (ma non esclusivamente) in Paesi africani. In alcuni casi estremi i preti avrebbero incoraggiato le donne rimaste incinte ad abortire. Il Globe inferisce che la Santa Sede avrebbe trattato i suddetti casi come “un fenomeno isolato” invece che come “il segno di un problema vasto benché latente”.

Il Boston Globe richiama poi il caso, celebre anni fa, di Eamonn Casey, un vescovo di Galway che fu costretto a lasciare il proprio ufficio in seguito alla diffusione della notizia che avrebbe avuto un figlio da una donna americana, Annie Murphy, la quale raccontò la loro relazione in un libro – Forbidden Fruit. Come si vede, ancora una volta la testata conferma l’uniformità della disciplina ecclesiastica nei vari casi elencati.

Non poteva mancare il nome di Marcial Maciel Degollago, del quale pure Rezendes deve correttamente ricordare che fu costretto alle dimissioni (dalla carica di leader fondatore dei Legionari di Cristo). Si fa pure il nome di Fernando Lugo, già vescovo cattolico ed ex presidente del Paraguay: nella fattispecie, in questo caso il Globe riporta, con imprecisione che è difficile credere candida, che Lugo era vescovo nel 2009, quando ingravidò e divenne padre del figlio di una sedicenne. Mentre è vero che già da due anni aveva richiesto la dimissione dallo stato clericale per seguire le proprie dichiarate ambizioni politiche (sarebbe magari auspicabile una rettifica…). Si accenna alla vicenda di Gabino Zavala, il popolare vescovo di Los Angeles, che nel 2012 dimissionò dopo aver riconosciuto di essere padre di due teenager che vivevano con la madre in un altro Stato. In tal caso il Boston Globe deve non solo confermare che anche quella volta la disciplina ecclesiale confermava la costante disciplina della Chiesa, ma deve pure aggiungere che la diocesi pagò un sostegno alla madre, nonché un assegno per l’istruzione dei ragazzi.

Se giudicando il caso di Jim Graham il Boston Globe ha forse qualche ragione di sentenziare severamente:

La Chiesa non avrebbe mostrato nel suo caso né trasparenza né misericordia, lasciando quell’uomo a un passo dal pervenire a una certezza sulle proprie origini.

Forse i dati diligentemente compilati da Rezendes dovrebbero indurre lo stesso a una più sfumata e meno odiosa condanna complessiva: checché se ne dica (anche) sul Boston Globe, la Chiesa non si è inventata il celibato come un crudele espediente della Riforma Gregoriana per evitare dispersioni patrimoniali. Un credente può condividerlo intimamente, ma per riconoscerlo dovrebbe bastare un lavoro di ricerca storica onesta e non ideologizzata.

Senza che il lettore accorto possa scorgere un vero nesso, Rezendes accenna poi alla figura e al quadro cronologico di Alessandro VI Borgia, facendo della sua licenziosità quasi uno degli elementi contro cui si sarebbe scagliata di lì a qualche decennio la furia di Lutero: giova forse ricordare che in nessuna delle famigerate 95 tesi – mistica e artefatta origine della Riforma, che pure menzionano di continuo “gli errori dei Papi” – ci si lamenta della loro moralità personale. Allo stesso modo non si capisce a quale Concilio di Trento alluda Rezendes, visto che in nessuno dei decreti tridentini «i capi della Chiesa reagirono riaffermando il celibato». Anzi, al canone XVI del Decreto sull’Ordine Sacro si legge addirittura: «Se inoltre non si trovassero dei chierici celibatari per esercitare i quattro ordini minori, potranno essere loro sostituiti anche degli sposati dalla vita onesta, adatti a questi uffici, purché non bigami e a condizione che in chiesa portino la tonsura e l’abito clericale».

La sua (purtroppo lacunosa e grossolana) ricostruzione della storia della Chiesa balza quindi a Paolo VI, il Papa delle aspettative tradite, in cui tanti seminaristi avevano posto folli speranze, avviandosi al sacerdozio nel miraggio di vedersi prosciolti dalla promessa di celibato poco dopo averla fatta: proprio nel 1967 il pontefice avrebbe invece riaffermato la costante dottrina della Chiesa nella Sacerdotalis cælibatus (penultima enciclica prima della Humanæ vitæ, che sarà il vero e proprio “canto del cigno” del Pontefice…).

Così, dopo una velata critica alle lodi del celibato tessute anche dal cardinal O’Malley, Rezendes afferma:

Mentre i figli dei papi rinascimentali sono vissuti nel lusso, molti figli di preti oggi non sanno dove andare, e mentre alcuni ricevono regolarmente denaro dai vescovi dei loro padri, altri sono affidati al buon cuore dei padri.

E si torna finalmente a mettere a fuoco il dramma vero, quello che Doyle intende tematizzare e che probabilmente la Chiesa farà bene ad affrontare di buon grado: se giustamente ci si preoccupa di rimediare alle ingiustizie perpetrate dai preti pedofili, qualcosa di analogo si dovrà fare per quanti gli innocenti forse non li scandalizzano, ma di certo li mettono al mondo senza essere in condizione di accudirli adeguatamente.

Perché il punto non è il celibato, e – Rezendes lo riporta correttamente – anche D. Paul Sullins, uno dei circa 120 preti cattolici latini uxorati negli Stati Uniti (sociologo alla Catholic University of America e autore di Keeping the Vow: The Untold Story of Married Catholic Priest), difende quel celibato che Papa Montini aveva chiamato “fulgida gemma”: «Il celibato è un impegno difficile da assumersi, per un giovane che vuole diventare prete; quindi un giovane che si assume quell’impegno sarà un giovane altamente affidabile», ha detto in un’intervista, ribadendo subito: «Credo che vi siano impressionanti vantaggi per la Chiesa».

Una normativa per la Chiesa universale

Ma quindi, posto che il tentativo di colpire il celibato ecclesiastico con un ulteriore scandalo (dopo aver aperto la piaga infetta della pedofilia) è destinato a fare un buco nell’acqua – poiché mai la Chiesa cattolica accetterà di rivedere le proprie norme ecclesiastiche positive, su cui pure avrebbe potere, per delle pressioni mediatiche e/o lobbistiche – qual è oggi la posta in gioco? Quale l’obiettivo che anche per via del rilievo pubblico di questo nuovo “caso Spotlight” la Chiesa può far suo? Si può certo colmare quel vuoto normativo di cui si diceva prima: a nessuno fa piacere dover prevedere nel Codice di Diritto Canonico l’irresponsabilità dei chierici, ma in fin dei conti lo stesso Codice non deve purtroppo prevedere e normare anche delitti peggiori del semplice contravvenire alla promessa di celibato?

Ora come ora, ricapitolando, la questione sta in mano ai singoli Vescovi: Diarmuid Martin, arcivescovo di Dublino, che aiutò finanziariamente Doyle fin dai primi tempi, quando lanciava Coping International, dice che «i vescovi possono richiedere ai preti di onorare i propri doveri finanziari ed emotivi nei riguardi dei loro figli – e anzi dovrebbero», perché – spiega il prelato – «un bambino ha diritto a conoscere il padre e il padre ha obbligazioni fondamentali riguardo al proprio figlio o alla propria figlia». Rezendes non manca di elogiare la trasparenza e la disponibilità di Martin, sottolineando che il Vescovo accettò un’intervista filmata di più di un’ora senza chiedere neppure le domande in anticipo.

Il reporter del Boston Globe, tuttavia, sembra stupito del fatto che anche Martin, nel rispondere alle sue domande, abbia invariabilmente esposto la via costantemente confermata nella storia della Chiesa: un prete che ha figli deve lasciare il ministero. Per qualche motivo difficile da cogliere, a Rezendes pare che il Papa – usando pressappoco le stesse parole per esprimere esattamente lo stesso concetto – «abbia adottato una linea perfino più dura»: un prete che diventa padre «deve lasciare il ministero sacerdotale e prendersi cura della sua prole» (la frase si trova in Il cielo e la terra, il libro che da cardinale arcivescovo di Buenos Aires scrisse a quattro mani col suo amico il rabbino Abraham Skorka).

Perché le parole di Bergoglio suonino a Rezendes più dure di quelle di Martin è tanto meno spiegabile in quanto lo stesso Rezendes puntualizza che per il futuro Papa Francesco era pensabile (perlomeno all’epoca) che si permettesse a qualche prete di mantenere il ministero anche con un figlio, in caso di sincero pentimento. Il Cardinale spiegava allora che «la legge naturale viene prima dei suoi diritti di sacerdote». Probabilmente il reporter registra quest’impressione perché – come sembra da diversi suoi passaggi – una buona soluzione sarebbe l’abolizione del celibato sacerdotale. Cercheremo di spiegare, in conclusione, perché si sbagli a pensare così.

Il Boston Globe ricorda comunque che la Conferenza episcopale Irlandese ha recentemente approvato una serie di linee-guida in cui si chiede a ogni prete che mette al mondo un figlio di «fare fronte alle proprie responsabilità – personali, legali, morali e finanziarie». Se dunque dal Vaticano non è ancora pervenuta alcuna risposta a Doyle, da tre anni a questa parte, si deve già registrare che nell’Irlanda funestata dagli scandali di pedofilia, invece, i vescovi gli hanno aperto le porte, riconoscendogli pubblicamente il merito di aver portato – con la sua iniziativa – al documento chiamato “Principles of Responsibility Regarding Priests Who Father Children While in Ministry”.

Del già ricordato cardinale O’Malley il Globe ricorda che se da un lato il porporato ha sempre declinato la loro richiesta di un’intervista (peraltro comunicando che la Pontificia Commissione per la Protezione dei Minori non aprirà un apposito sportello per i figli dei preti), dall’altro ha promulgato un regolamento in cui si legge che il prete che diventa padre contrae «un’obbligazione morale a farsi da parte nel ministero e provvedere al bene e ai bisogni della madre e del bambino».

Non è poco, in fondo, anzi sembra già in nuce tutto quanto si possa ottenere: comprensibilmente Doyle auspica che il documento dei vescovi irlandesi sia adottato a canovaccio di un documento della Chiesa universale, ritenendo che solo allora quelle parole potranno essere vastamente e completamente efficaci. È questo un auspicio che la Chiesa può ragionevolmente far proprio: nel ripristinare la giustizia in situazioni che l’avevano vista violata non ha che da guadagnare. A maggior ragione se l’ingiustizia era stata causata dai propri ministri.

«Anche noi abbiamo lo Spirito di Cristo»

Eccomi a te, oracolo del Signore degli eserciti.

Alzerò le tue vestifin sulla facciamostrerò alle genti la tua nudità,

ai regni le tue vergogne.

Ti getteròaddossoimmondezze,

ti svergognerò, ti esporrò al ludibrio

Nahum 3, 5-6

Resta ora, in ultimo, da rispondere a quella che sembra essere la mira remota (ma principale) di questo e di altri “report giornalistici”, che certamente farebbero il bene della Chiesa – disponendola anche obtorto collo alla propria purificazione – perfino se fossero mossi da intenzioni malevole, quando la Chiesa accogliesse quei fatti con umiltà e in atteggiamento di ascolto: resta da spiegare perché nessuno scandalo potrà costringere la Chiesa a mutare le proprie disposizioni sul celibato ecclesiastico. Si racconta che quando chiesero a Paolo VI perché le Chiese latine non potessero adeguare la loro prassi a quelle orientali il Pontefice – evitando di richiamare nel dettaglio i singoli concili e i loro canoni, eppure sintetizzando il tutto – abbia parafrasato l’Apostolo: «Anche noi abbiamo lo Spirito di Cristo» (1Cor 7, 40). E non a caso, visto che in quel passo Paolo parlava appunto di verginità e di astinenza…

Le ragioni cristologiche, ecclesiologiche ed escatologiche del celibato ecclesiastico, dunque, sono già sufficientemente espresse nell’enciclica dedicata di Papa Montini. La distinzione tra la prassi orientale e quella occidentale, nonché la conferma della validità di entrambe nel reciproco rispetto si trovano ugualmente in quel documento. Lo stesso si dica dell’enumerazione dei vantaggi e delle convenienze della “formula latina” per il sacerdozio.

Quindi che cosa resta da dire?

Almeno due cose che – tra molte altre – ho imparato da un’altra inchiesta, condotta con serietà e rigore da un giornalista cattolico: se Jean Mercier è ormai fortunatamente noto in Italia per il suo delizioso romanzo Il signor parroco ha dato di matto, si deve ancora lamentare la mancanza di una traduzione del suo documentato dossier sul Célibat des prêtres. La discipline de l’Église doit-elle changer ?(Desclée de Brouwer, Paris 2014). Il saggio nasce dalla volontà di raccogliere sul campo le esperienze di sacerdozio latino uxorato attualmente in actu, cioè fondamentalmente quelle dei ministri di culto di altre confessioni che, entrando nella comunione cattolica, chiedono e ottengono di essere ordinati preti e di venir contestualmente dispensati dall’obbligo del celibato. Tali preti sono dunque perfettamente cattolici, per di più latini (non si trovano nella complessa situazione delle Chiese cattoliche orientali), sono pastori in cura d’anime, mariti di mogli con cui possono lecitamente avere rapporti coniugali e da cui hanno figli. Dunque un campo di indagine tanto interessante quanto vergine.

Le due cose che ho imparato, dunque, sono queste:

  1. non ogni donna è in quanto donna capace di essere la moglie di un prete;
  2. ad ogni modo per nessun figlio che nasca da un prete cattolico è facile indossare quel ruolo (che inoltre, a differenza di quanto ha fatto la madre, in nessuno modo lui ha potuto scegliere e abbracciare).

La moglie del prete

Quella che Mercier individua per “la moglie del prete” è una vocazione specifica. Né certamente è lui il primo a chiamarla così: se nelle Chiese ortodosse la si chiama “santa presbitera” c’è senz’altro un motivo. Confrontando le suddette esperienze cattoliche con quelle, analoghe, ortodosse e protestanti, Mercier annota:

Dalla totalità delle testimonianze si evince almeno una costante: il successo di una coppia pastorale riposa sulla solidità della sposa, in particolare. La maggior parte di queste donne hanno potuto fondarsi su di un modello già disponibile, quello della “moglie di pastore” (un modello in piena evoluzione, perché esistono ormai coniugi maschi di pastore femmine), prima di diventare mogli di laici cattolici e poi mogli di preti cattolici.

(p. 240)

E Mercier illustra così i “due modelli fondamentali”, che sono un modello tradizionale (richiamato da Henriette Balland, Kate Prior, José Hawkins) costituito da «donne estremamente votate al marito, le quali spesso non hanno una vita professionale molto impegnativa»; e un modello moderno (per il quale nomina solo Sarah Drummond): «in molte sono direttrici di scuola. Seguono spesso a distanza la vita della parrocchia, rifiutando di impegnarsi in attività impegnative, e auspicano che si riconosca una distinzione tra la loro sfera privata e quella professionale».

La conclusione?

Senza dichiarare uno dei due modelli superiore all’altro, si può considerare che una moglie di prete cattolico ha una vocazione propria. Nel giugno 2005, mons. Léonard parlava in questi termini di Henriette Balland, la moglie di Patrick: «L’apprezzo molto. È al contempo molto presente e molto discreta. Eh, non è cosa per tutte, essere mogli di preti!».

(p. 241)

In tal senso, auspicare che, solo perché da lei ha avuto un figlio, a un prete sia permesso di sposare una donna restando nel proprio ministero significa conoscere l’animo umano e le dinamiche sociali ancora meno della storia e del diritto della Chiesa.

I figli dei preti

La questione dei figli è terribilmente più complicata, e poiché ci riporta al nostro tema principale sarà opportuno saccheggiare più diffusamente le osservazioni di Mercier, che scopriremo confermare alcune delle dichiarazioni del Boston Globe – ad esempio quella sulla tendenza al suicidio – pur collocandole in un orizzonte molto più ampio: provenendo da ambienti in cui non esiste stigma sociale, non v’è stata negazione dei rapporti, la posizione nella comunità, lungi dall’essere svantaggiata, è addirittura di preminenza, questi figli di preti ci inducono a considerare che ad essere problematici per loro siano ben altri fattori che la disciplina del celibato ecclesiastico (proprio perché questi non la conoscono ovvero non la vivono).

Quest’inchiesta non ha permesso di esplorare in maniera sufficiente la sorte dei figli. Ma, con ogni evidenza, c’è una forte pressione per i figli di preti cattolici venuti fuori dalla Riforma, quella di mettersi al servizio dell’esemplarità del loro padre prete. Il fenomeno è ancora più forte nella misura in cui questi preti sono dei convertiti, e dunque in quanto debbono essere doppiamente esemplari… Si constatano pure, talvolta, dei legami fusionali tra i figli (divenuti adulti) e il loro padre prete, alle volte vissuto sul piano spirituale, poiché il padre prete funziona come una figura tutelare difficile da abbandonare. Se la Chiesa dovesse un giorno ordinare degli uomini sposati, essa dovrebbe confrontarsi col fardello che rappresenta l’esemplarità per i figli dei prelati.

(p. 242)

E Mercier torna ancora, nelle conclusioni generali del libro, a raccogliere insieme la grande quantità di input che durante l’inchiesta lo avevano colpito: la vita estremamente particolare di una “famiglia pastorale” (anche al netto di incomodi come trasferimenti poco pratici o penalizzanti per i bambini) raccoglie in sé una quantità enorme di problematiche. A ben vedere si capisce perché, fino al Concilio Trullano, anche i “viri probati” (di cui oggi si parla talvolta a vanvera) erano tenuti ad osservare la continenza coniugale quando la coppia, concordemente, sceglieva e chiedeva di entrare nel ministero presbiterale.

Se i congiunti di pastori hanno scelto il loro stato – o perlomeno vi aderiscono –, se la loro “metà” è giunta al ministero dopo il matrimonio, la cosa non è vera per i bambini che nascono in una famiglia pastorale, e si ritrovano sotto pressione, anche inconscia, tanto è potente la cultura dell’esemplarità del pastore e dei suoi figli. Non si può sottovalutare, qui, il ruolo normativo della Bibbia per i protestanti: la lettera a Tito sottolinea che gli anziani o “presbiteri” (presbyteroi) devono essere irreprensibili, avere figli credenti «che non si possano accusare di cattiva condotta o di indocilità». L’esemplarità dei figli è dunque richiesta dall’autorità suprema, dalla Scrittura.

Per la maggior parte le persone adulte suscettibili di recare tracce sul loro destino di figli o di figlie di pastore (diciamo oltre la soglia dei 40 anni) sono state cresciute in famiglie in cui il modello di pastore era ancora tradizionale (perlopiù un uomo). Per molti, non è mai stato facile essere il figlio di un pastore. È complicato essere tenuti all’esemplarità agli occhi della comunità, e anche vedere nel proprio padre un’icona della Trascendenza. Altri hanno vissuto con gioia questo stato e se ne rallegrano. Un futuro pastore si dice felice, per esempio, del fatto che suo padre, pastore, sia pure il suo “padre spirituale”.

Il figlio di pastore è spesso cresciuto nello scrupolo di valorizzare la missione sacra di suo padre, e dunque si attiene a essere o a sembrare perfetto; la qual cosa lo spinge a non “ascoltare” i propri bisogni, a sacrificarli per corrispondere a ciò che la comunità religiosa si aspetta da lui, a farsi in quattro per darle ciò che chiede. Oppure può risultare schiacciato dalla perfezione di suo padre, col quale non riesce a entrare in rivalità, e questa cosa lo spinge a svalutarsi. Oppure può soffrire dello scarto | tra la lusinghiera immagine che il padre rende all’esterno e quella che percepisce negativamente dall’interno della famiglia.

Questo potrebbe spiegare una prevalenza del suicidio tra i figli di pastori. È una realtà sulla quale non esistono statistiche, ma che torna nei mormorii delle consultazioni pastorali, e che è un po’ il tabù dei protestanti. Una verità raccolta da Nicole Jeammet dalla bocca di un pastore, quando la stessa Nicole lo interroga sulla difficoltà di essere figlio di pastore:

«La sua osservazione non potrebbe essere più vera, a tal punto che – senza disporre di esatte cifre statistiche – i suicidi dei figli di pastori sono più frequenti della media. Ne conosco diversi, a dire il vero, in questi ultimi anni. Mi vengono alla mente tre esempi negli ultimi tre anni, tra i quali uno che mi era abbastanza vicino, mentre due sono persone che conoscevo di vista».

Tra adorazione e detestazione del padre-pastore, ci si può domandare se esista una via mediana tra la “fusione” e il “rigetto”.

Negli Stati Uniti un terapeuta, egli stesso figlio di pastore missionario, Timothy Sanfort, ha dedicato ai figli di pastori malati della loro nervrosi di perfezione un libro intitolato I have to be perfect, e introduce così la problematica:

Lavoro da diversi anni come terapeuta professionale con dei figli di pastori e con delle famiglie coinvolte nel ministero. Avendo avuto modo di ascoltare storie su storie, ho rilevato diversi temi e modi di pensare comuni e simili, tra i figli di pastori e di missionari […]. Malgrado tutte le esperienze positive che ho avuto (come figlio di pastore), inclusa una buona relazione con i miei genitori, avevo subito dei danni perché ero venuto su in un ambiente ministeriale. Ci sono questi “rischi del mestiere” che vengono dal fatto che i vostri genitori | sono impegnati nel ministero. La mia visione semplicistica è cambiata. Ora vedo i danni profondi lasciati nel mio spirito.

In casi estremi, dei figli che vanno a rotoli trascinano il padre nella loro caduta. Nel dicembre 2008 un vescovo luterano norvegese, Ernst Baasland, si è ritrovato rovinato dai debiti di gioco di suo figlio 43enne, che aveva fatto fuori il patrimonio famigliare. Dovette rassegnare le dimissioni.

(pp. 288-290)

In fondo Michael Rezendes potrebbe raccogliere questi appunti: anche il vescovo luterano norvegese, del tutto svincolato dalla disciplina cattolica del celibato, gli conferma che davvero questo è il sentimento costante di tutta la cristianità – il sacerdozio non può mai diventare un lavoro, né la famiglia saprà mai ridursi a una cornice asettica. I figli dei preti vanno certamente aiutati in quanto sono le vittime più innocenti dell’intemperanza di due adulti che vengono meno ai loro doveri; le modalità per farlo vanno però cercate nella bimillenaria esperienza di chi sa cosa sia il sacerdozio, non nelle pressioni di una o più lobby mediatiche.

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