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È nato in Francia un nuovo don Camillo: il romanzo di Jean Mercier

Don Camillo

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Giovanni Marcotullio - Aleteia - pubblicato il 19/04/17

“Monsieur le curé fait sa crise” è il breve racconto spirituale del noto redattore de “La Vie” (già autore di un ottimo saggio sul celibato ecclesiastico): nelle peripezie di un parroco stufo di essere ridotto a funzionario, si tracciano insieme una tagliente analisi dei mali della Chiesa cattolica nei nostri contesti secolarizzati e un'ispirata proposta per “gettare il cuore oltre l'ostacolo”

L’ho letteralmente divorato: me lo sono trangugiato tutto d’un fiato nel pomeriggio di Pasqua. E mentre lo mandavo giù, senza poter staccare gli occhi dalle pagine, una dietro l’altra, condivo la lettura con qualche lacrima e con molti sorrisi.

Monsieur le curé fait sa crise (“Il signor parroco ha dato di matto”, tradotto dalla San Paolo, ndrè un breve romanzo del giornalista francese Jean Mercier (scrive prevalentemente su La Vie). Un “conte spirituel”, lo ha definito la sua collega Marie-Lucile Kubacki, facendo una chiara allusione ai “contes philosophiques” di Voltaire: come quelli condensavano in poche pagine leggibili da tutti una visione del mondo sintomatica di molte implicazioni e gravida di altrettante conseguenze (spesso corrosive); così questo offre, in una narrazione leggiadra e avvincente, uno spaccato realistico e tagliente della realtà ecclesiale della Francia contemporanea. Si capisce facilmente: anche in questo caso, come in quello, sono possibili molti livelli di lettura, ma i pamphlet volterriani non sono certo i parenti più stretti del Nostro; su La Vie la collega di Mercier ha qualificato con l’aggettivo “doncamillesco” il “racconto spirituale” edito in Francia da Quasar.

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Niente va più per il verso giusto, nella parrocchia di Sainte-Marie aux-Fleurs di Saint-Germain-La-Villeneuve – si legge in quarta di copertina –: i membri del gruppo floreale si tirano i capelli, gira contro il parroco una petizione firmata dai fedeli, il vescovo è scontento, la cappella di Santa Gudule rischia la demolizione, dei vandali hanno profanato il confessionale e la vecchia Marguerite sente parlare i morti… senza contare che il parroco è scomparso stamattina.

Malgrado l’innegabile ed evidente venatura di giallo, però, don Benjamin (il protagonista del romanzo) resta irriducibile a preti-detective come il chestertoniano padre Brown o il nostrano don Matteo (che dell’altro è discendente diretto), ed è anche immancabilmente più postmoderno del granitico don Camillo, di guareschiana memoria. Seppure talvolta usa parole e maniere forti, che ricordano quelle del confratello di Brescello, non arriva mai alle mani; e quand’anche si trova a investigare, non è sui problemi altrui che investiga, ma sui propri.

Il signor parroco dà di matto, dovrebbe infatti suonare il titolo italiano del romanzo, e dà di matto proprio perché non ritrova più il senso del proprio ministero in un contesto invaso dalle edere parassitarie della burocrazia e sottomesso ai diktat di psicologia e pedagogia, che una volta si presentavano come scienze ausiliarie dell’attività pastorale. Un povero prete, al giorno d’oggi, cammina su uno stretto sentiero insidiato a sinistra dall’erosione di una società ormai dissolta nel nichilismo e a destra dagli spuntoni di un cattolicesimo reazionario e ottuso, che s’insospettisce di fronte alla parola “misericordia” e sembra non vivere che per combattere nemici – a costo di fabbricarsene di immaginari.

Già in questo si vede la sapienza analitica di Mercier, che fa filare snella la barchetta del suo racconto come tra le insidiose Scilla e Cariddi dei soliti progressismi e fissismi: don Benjamin è l’eroe della storia e non fa mistero di una sensibilità schiettamente conservatrice, ma questo non gli basta per evitare il “fuoco amico” degli attivisti vicini alla Manif pour Tous francese, che pretendono da lui una dedizione esorbitante a paranoiche campagne di Kulturkampf (svolte perlopiù mediante petizioni online). Le sue figure di riferimento sono l’anziano padre spirituale – un vecchio saggio provato nel lungo crogiolo del post-concilio francese – e un giovane confratello, anche più conservatore di lui ma insopportabilmente più carismatico nella pastorale, specialmente in quella giovanile e vocazionale.

Poi c’è il rapporto col vescovo, con cui aveva prima avuto una relazione profonda ma che gli anni sembrano aver trasformato in un grigio burocrate anaffettivo: quando don Benjamin viene convocato in episcopio e segretamente spera che i suoi studi biblici vengano alfine premiati con l’agognato posto di docente in seminario, il Vescovo si limita a una sommaria rampogna per l’insulto con cui il prete aveva telefonicamente apostrofato la “responsabile della formazione catechetica in diocesi” (tutta fuffa postsessantottina in salsa di paroloni pseudoscientifici). A quel punto “il signor parroco dà di matto”.

E uno si aspetterebbe il fugone con la vecchia fiamma, il sit-in davanti all’episcopio o perlomeno la stesura di un duro J’Accuse contro l’establishment ecclesiale. Niente di tutto questo: don Benjamin [attenzione: segue piccolo spoiler!] abbandona il cellulare per non essere rintracciato, prende qualche vestito e qualche paramento liturgico, il breviario e la Bibbia, e si nasconde in una baracca situata in fondo al giardino, al confine del territorio parrocchiale. Era il regno del suo predecessore, che aveva il pollice verde, ma per essere sicuro di non farsi stanare in poche ore il prete rispolvera le sue reminiscenze di muratura, che lo zio carpentiere gli aveva trasmesso in gioventù… e mura la porta del capannone, finendo recluso.

La bizzarra protesta prende una piega inattesa quando, mentre tutti cercano il parroco (e un giornalino locale prova ad alzare qualche quattrino speculando sulle ipotesi d’indagine), qualcuno passa accanto al muro di cinta del territorio parrocchiale e lo sente cantare il Benedictus delle Lodi da una grata di aerazione della baracca, che spunta praticamente al livello del terreno sulla strada. L’imprevisto prende corpo e all’improvviso tutti vogliono andare a inginocchiarsi davanti a quella grata: prima per interpellare il parroco – che fino al giorno prima era un erogatore di servizi ma certo non un soggetto di aspettative e bisogni – sulle ragioni della sua protesta; poi, all’improvviso, per rovesciare in quel buco en plein air i pesi della loro coscienza e riceverne in cambio l’assoluzione.

Così l’oscuro paesino di provincia diventa all’improvviso la capitale del sacramento dimenticato, e sui giornali nazionali e internazionali si parla dell’inedito ammutinamento di questo moderno emulo di Giuliana di Norwich (il quale a sua volta scatenerà un fenomeno emulatorio). Se il testo andasse avanti su questa falsariga, lo si potrebbe prendere per un romanzetto apologetico del sacramento della Penitenza. E lo si sminuirebbe non poco. La maturità umana e spirituale dell’autore, infatti, emerge soprattutto nella variazione che a questo punto Mercier impone al racconto: è troppo raffinata la sua conoscenza delle dinamiche della vita interiore, perché egli si accontenti di trasformare il suo don Benjamin in un novello Curato d’Ars. Il paragone c’è, naturalmente, ma viene presto rovesciato nel ridicolo: proprio la fitta trama degli incontri e delle relazioni in cui il parroco è inserito esige che l’intreccio si dipani ulteriormente, ben oltre la (geniale, oltre che divertente) situazione del prete che riesce a fare il prete solo quando abbandona i compiti del ministero.

Dire di più sarebbe davvero anticipare troppo, al lettore, e non è questo qui il mio scopo: a me preme solo salutare nel libro di Jean Mercier un’opera della cui intelligenza ecclesiologica e del cui talento narrativo c’era pressante bisogno. Vi si ritroveranno i sacerdoti, che si vedranno raccontare da un laico lo spaesamento in cui una certa psicopolizia sessantottina, sotto i veli del mitologico “spirito del Concilio”, ancora vorrebbe relegarli; vi si ritroveranno i vescovi, che hanno cessato di essere signori locali ma che, poiché non sono (ancora) diventati quei pastori eminenti proclamati dalla Christus Dominus, si s-contentano di galleggiare nel mantenimento di un non meglio precisabile status quo; vi si ritroveranno gli operatori pastorali tutti, che vedono l’actuosa participatio del Vaticano II incarnarsi mostruosamente nella loro larvata clericalizzazione; e vi si riconosceranno tutti i laici che sempre più scambiano la vita del cattolico impegnato con l’impegno autoassunto di dare ogni giorno pagelle di cattolicità dal Papa in giù.

Soprattutto, però – ma questo starà in larga parte nelle capacità promozionali dell’editrice italiana – sarà data a molti l’occasione di scoprire l’essenza del cristianesimo, il cuore della proposta della Chiesa, ciò che in termini desueti e forse respingenti si direbbe “l’Evangelo”. Certo, la cultura in cui tutti siamo immersi è indifferente e spietata. Lo sappiamo, ma Mercier ha il merito di ricordarci con queste sue pagine delicate che essa è tale perché nessuno ha mai versato «sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino delle speranza» (Prefazio comune VIII). I passi in cui si narra lo spontaneo e naturalissimo inginocchiarsi delle persone, lontane o vicine (e anzi spesso i “vicini” si rivelano incredibilmente lontani), davanti alla grazia di Cristo, rivelano una lunga frequentazione della miseria umana e della misericordia divina, di cui l’autore sembra a qualche titolo esperto. Proprio mentre alcune circostanze vengono demitizzate della loro aura ieratica (Mercier rivela che spesso don Benjamin si pulisce le unghie, nel confessionale, …e anche il naso!); dalle pagine del romanzo la lucetta rossa che brilla accanto al dimenticato tabernacolo trema di nostalgia nel lettore. Si avverte il sapore della riconciliazione, s’intravede il profetico miraggio di una Chiesa libera da mode culturali e vassallaggi intellettuali, in cui l’afflato collegiale tra gli ordini del clero (e al loro interno) non sia un astratto teorema celeste.

Gli snodi della seconda parte del racconto spirituale di Mercier – che non a caso in Francia è noto per un ottimo saggio sul celibato ecclesiastico – mettono a fuoco le risorse colpevolmente inutilizzate nella vita del clero non-più-giovane, non-più-attivo, non-più-performante: contro gli scarti prodotti da paradigmi che non sanno gestire il deficit del “capitale umano”, il racconto di Mercier fa brillare l’imprevedibile creatività dello Spirito di Cristo, che sceglie le cose e le persone deboli e inermi per far ammutolire (di meraviglia e di vergogna) tutte le istanze che pretendono di progettare la società (e la Chiesa) sul metro del profitto. E fa tutto questo, il libro di Mercier, con scintillante e ispirata fantasia.

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