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In “quer pasticciaccio brutto de Ratisbona” Georg Ratzinger non c’entra

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Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 21/07/17
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Tempesta d’inchiostro e di fango su Gerhard Müller, Georg Ratzinger e Benedetto XVI. Ma i documenti dicono altro. Che cosa insegna la vicenda

La tristissima vicenda di Ratisbona ha fatto versare rivoli d’inchiostro, ma si sarebbe tentati di dire “di porpora”, visto che la faccenda riguarda malauguratamente il clero e che parla, fra l’altro, – non ce ne dorremo mai abbastanza – di sangue versato.

Si parla di centinaia di persone che accusano ferite profonde nella mente, nello spirito e nel cuore; decine fra queste hanno denunciato crimini ben più laidi del mero maltrattamento; fra costoro alcuni hanno subito le più turpi profanazioni dell’innocenza. Il fatto che le vittime fossero tutte in età infantile, naturalmente, non fa che rendere più abominevole il delitto.

Premesso ciò – a scanso di ogni possibile accusa ci venga intentata, di voler in qualsivoglia modo “minimizzare” il fatto – andiamo appunto a osservare che cosa è accaduto: un’informazione è infatti (quasi) sempre una realtà parecchio complessa, dalle molteplici implicazioni – e prendersi il tempo di leggerla accuratamente è un esercizio talvolta faticoso ma sempre fecondo.

La notizia

Partiamo dalla superficie dell’informazione, così come è stata diramata dai titoli dei giornali. “Ratisbona, abusi su 500 bambini del coro”, “Decenni di abusi tra i Passeri del Duomo”, “Ratzinger sapeva e tacque”, “Müller coprì i pedofili”. Moltissime le varianti occorse sui giornali, ma quasi tutte di entità modesta: i dati essenziali sono questi. Sono titoli che qualcuno ha detto “infamanti”, ma di per sé sembrano puramente accusatori. A renderli infamanti potrebbe essere unicamente la conclamata falsità delle tesi. Va da sé che, se venisse contestata codesta falsità, sarebbe dovere morale dei tecnici dell’informazione (oltre che un caposaldo della deontologia professionale…) un’onesta rettifica, omologa per forza all’incisività dei titoli sopra riportati.


Regensburger Domspatzen
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I fatti

Il Rapporto Weber si chiama così dal cognome di Ulrich Weber, avvocato della Wasser Ring scelto dalla Diocesi di Regensburg per condurre l’inchiesta storica sul caso: la Wasser Ring è l’associazione di tutela delle vittime di abusi – scegliendo quell’avvocato la diocesi ha voluto garantire a sé stessa e al mondo un giudizio massimamente imparziale e trasparente. L’arcivescovo che presiedeva la sede di Regensburg all’atto della commissione del rapporto era Gerhard Müller.

I fatti non sono stati indagati dalle autorità civili perché tutti passati in prescrizione: nessuno Stato ha interesse a investire denaro pubblico per eventuali crimini a cui non possa neppure giustapporre un processo e una condanna. La Chiesa presieduta da Müller sembra averla pensata diversamente: si può rendere una qualche (seppur parziale) giustizia alle vittime anche “solo” raccontando la verità. E la verità è stata cercata fin dal 2010, quando l’arcivescovo Müller, ormai al suo penultimo anno di esercizio del munus pastorale, ha avviato un processo canonico contro un prete che (nel 1958, quando era ancora laico!) aveva commesso abusi su un giovane cantore. Questa storia, come le altre tristi realtà che emergevano, è stata puntualmente documentata nel sito della diocesi di Regensburg. In tempo reale.

Ora bisogna rendere merito a Massimo Introvigne e ai volenterosi collaboratori del “Blog di Raffaella”, che hanno incoraggiato i lettori (se non i giornalisti) a fare la fatica di affrontare le quattrocento pagine del documento, naturalmente scritte in tedesco. Il rapporto Weber è stato pubblicato nel 2016, e documenta abusi per un arco di tempo paragonabile a una vita umana. Per una metà di questa vita – molto tempo, certo – Georg Ratzinger fu Kapellmeister. Ora bisogna sapere che in questo libro il direttore del coro è citato per quattro pagine (378-381) – pari all’1% del dossier. Già dovrebbero sorgere domande sulle titolazioni dei giornali.

Ciò che da quelle pagine risulta, poi, è che nessuno mai ha lamentato alcun maltrattamento, né fisico né morale, procurato da monsignor Georg Ratzinger. Ben prima che scoppiasse il bailamme, anzi, fu lo stesso anziano musicista a confessare in un’intervista di aver provato molto rimorso per aver dato “qualche schiaffo” a qualche ragazzo, prima del 1980. A quali ragazzi? Ma ai soli che Ratzinger Bruder vedeva, ossia quelli del coro. Quando? Ma nel solo momento in cui li vedeva, cioè durante le prove (difficile schiaffeggiare un cantore indisciplinato durante la messa o durante un concerto).

Ora attenzione: neppure le punizioni corporali vanno banalizzate, ma proprio per questo non va considerato alla leggera il contesto in cui i fatti hanno avuto luogo. Chi pensa di conoscere la Germania e la cultura tedesca perché in qualche agosto ha fatto una visita a Monaco o a Berlino ne sa ancora meno di chi pensa di conoscerla perché si è regalato un Erasmus a Bonn: la Germania di Adenauer e Kohl, quella umiliata dai patti di pace della Seconda Guerra Mondiale e dalla piaga della secessione non assomiglia in nulla alla Germania di Metternich, e neppure a quella di Kaiser Wilhelm II. Quella Germania, rurale e provinciale anche nelle sue eccellenze (Martin Heidegger motivò con Warum bleiben wir in der Provinz il suo rifiuto della cattedra a Berlino, e se ne stette a Freiburg i.B.), era la Germania in cui fino a quarant’anni fa i bambini ricevevano in uno dei loro primi natali Der Struwwelpeter, il bestseller di Heinrich Hoffmann meglio (ma meno) noto, in Italia, come “Pierino Porcospino”. Negli anni dello Struwwelpeter in Italia dominava Il Signor Bonaventura: il Belpaese non può capire quale effetto sociale provocasse una pedagogia tanto spietata e tanto capillarmente diffusa. Leggano lo Struwwelpeter, i commentatori che in questi giorni fanno gli scandalizzati, e quando avranno chiuso il libro ne converranno: gli schiaffi a scuola a confronto erano carezze.

Ma non abbiamo ancora detto ciò che pure va detto, se omettiamo che in quelle famose quattro pagine Weber fece domande precise, ai testimoni, a proposito del vecchio Kapellmeister:

Dava l’impressione di non percepire la realtà circostante al di fuori della musica. Era una persona rispettata, più come un nonno che distribuiva settimanalmente dei dolci e con la sua passione più alta per la buona musica… Non sapeva nulla della scuola. Anche della vita interna al collegio non sapeva davvero molto.

Quando poi seppe degli schiaffoni reiterati fino al sangue – nel 1989 – scrisse una lettera di segnalazione al direttore della scuola. Il resto non lo seppe mai.

Il contesto

Del resto si sarebbe occupato Müller, come ricordavamo, negli ultimi due anni prima di essere convocato a Roma alla Congregazione per la Dottrina della Fede. Ma dicevamo poc’anzi che il sito della diocesi di Regensburg è puntualmente aggiornato fin dal 2010, e che il Rapporto Weber – che la stampa italiana ha detto essere stato diramato “dai media tedeschi” – è stato pubblicato dall’ente committente, cioè dall’Arcidiocesi, e l’inchiesta si era conclusa nel 2016. Che il caso sia stato sparato sulle prime pagine nei giorni che hanno visto susseguirsi a stretto giro di posta le dimissioni di Müller da Prefetto della CDF, la morte di Joachim Meisner e la lettura del messaggio di Benedetto XVI al funerale di quest’ultimo è cosa che non può non destare sospetti, almeno in chi mastichi un minimo le cose che avvengono all’ombra del Cupolone. Non c’interessa qui entrare in polemica con le varie testate che si sono prestate al “pasticciaccio brutto”, né senza nuovi dati sapremmo, con ciò soltanto, formulare ipotesi di reato o (tantomeno) individuare mandanti. Sta di fatto che la regina del giallo ce lo ha insegnato: tre coincidenze valgono da prova, e solo un’intenzione malevola può giustificare l’opacissima operazione mediatica occorsa nei giorni scorsi.

Spacciare per scoop una realtà trasparente è un trucco che riesce male, ma poiché l’opinione pubblica, imbolsita com’è da decenni di qualunquismo e politically correct, è generalmente disattenta a date e cronologie, il trucchetto della polpetta avvelenata – confezionata per tempo e poi servita con una rapida stiepidita al momento opportuno – funziona sempre.

Così il fine di questa tempesta d’inchiostro e letame risulta essere smaccatamente politico. In un primo momento ho pensato che lo scopo fosse togliere di mezzo lo stesso Benedetto XVI, evidentemente ingombrante anche nella sua sola ombra: ma non so convincermi che effettivamente vi possa essere un mandante tanto potente e tanto crudele da avventarsi contro un “nonno” (come lo definisce affettuosamente Papa Francesco) per stroncarlo alla sera della sua vita. Intendiamoci, il crepacuore esiste, e al Papa Emerito avrà fatto non poco male percepire il dolore dell’anziano fratello sommerso dalla macchina del fango (tanto più perché l’accanimento è dato dal fatto che porta il suo stesso cognome). Ma l’obiettivo primario doveva essere Müller, che proprio nel momento in cui diventava ormai “un ex” (per quanto eminentissimo) aveva “l’imprudenza” di dirsi desideroso di restare a Roma. «Per studi, convegni, conferenze».

La morale della storia

Che cosa c’insegna questa vicenda, che per la sua romanità curiale ho chiamato “pasticciaccio brutto de Ratisbona”? Niente. Ovvero ci ricorda due cose:

  • La prima è che davvero la penna ne uccide più della spada, e che se non riesce (direttamente o indirettamente) a liquidare fisicamente le persone, può senza dubbio affibbiare una lettera scarlatta. L’Adulterio di Hawthorne si porta ormai benissimo, in società: la Pedofilia, anche solo adombrata alla lontana in sospetto o in chiacchiera, no. Almeno se perpetrato da (o con la connivenza di) ecclesiastici.
  • La seconda è che la “sporcizia” di cui parlava il cardinal Ratzinger nella dolorante via crucis del 2005 si trova tanto tra chi abusa dei bambini quanto tra chi abusa del proprio potere mediatico. E prima o poi bisognerà pure avere il coraggio di andare a vedere come mai le persone che tormentano i bambini vanno così spesso a rifugiarsi in pose clericali protette da ambienti mondani e in vista, ma lontani dalla gente e dal mondo.