Dopo quella per i mafiosi il Vaticano pensa di estendere la pena. Sulla scorta dei moniti di Bergoglio e Wojtyla
Dopo la scomunica ai mafiosi, il Vaticano sta studiando la possibilità di allargare la pena canonica anche al tema della corruzione.
Il gruppo di lavoro che ha dato vita al seminario sulla corruzione promosso dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, che si è svolto il 15 giugno «sta provvedendo all’elaborazione di un testo condiviso che guiderà i lavori successivi e le future iniziative. Tra queste, si segnala al momento la necessità di approfondire, a livello internazionale e di dottrina giuridica della Chiesa, la questione relativa alla scomunica per corruzione e associazione mafiosa».
“CALPESTA LA DIGNITA’ DELLE PERSONE”
Il cardinale Peter Turkson ha motivato così questa riunione: «Abbiamo pensato questo incontro per far fronte a un fenomeno che conduce a calpestare la dignità della persona. Noi vogliamo affermare che non si può mai calpestare, negare, ostacolare la dignità delle persone» (Avvenire, 15 giugno).
DA GIOVANNI PAOLO II A FRANCESCO
Spiega Don Luigi Ciotti, fondatore dell’associazione “Libera – Contro le mafie” e membro del tavolo: «Abbiamo discusso con grande profondità, eravamo circa 50, laici e religiosi, magistrati, italiani e stranieri. Ha introdotto questa proposta l’arcivescovo di Monreale, Michele Pennisi che ha nel suo territorio i comuni di San Giuseppe Jato e di Corleone. Pennisi ha richiamato i pronunciamenti dei vari Pontefici, l’appello forte di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi. Fino alle prese di posizione forti di Papa Francesco, sin dall’incontro con i familiari delle vittime innocenti della mafia nella primavera del 2014. E ha sottolineato l’importanza di verificare la possibilità, in base alla dottrina giuridica della Chiesa, come un decreto di scomunica possa essere applicato per i mafiosi e corrotti».
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«Sarà indispensabile – sottolinea Don Ciotti – anche il parere dei canonisti della Curia romana e del Tribunale della Penitenzieria Apostolica».
I PRECEDENTI
Il tavolo ha accolto con favore la proposta. «C’è stata una presa d’atto e siamo rimasti d’accordo che avremmo continuato a lavorare secondo quanto il cardinale Turkson ci indicherà – evidenzia ancora il sacerdote – Bisogna considerare che già nel 1944 i vescovi siciliani avevano ipotizzato la scomunica contro gli appartenenti ai gruppi criminali. Giovanni Paolo II ricordò ai mafiosi il giudizio di Dio».
«Papa Francesco – continua Don Ciotti – il 21 giugno 2014 a Cassano allo Jonio affermò :”Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!” E nell’incontro con i familiari delle vittime innocenti della mafia, supplicò con molta umiltà: “Ve lo chiedo in ginocchio: convertitevi, perché altrimenti andrete all’Inferno”».
UN “FILO DIRETTO” CON LA MAFIA
L’estensione della scomunica ai corrotti è però un ulteriore passo in avanti. «Sì – replica il fondatore di Libera – perché il corruttore è uno che ha depenalizzato il suo crimine già dentro la sua coscienza, lo minimizza, lo giustifica. La corruzione è l’anticamera anche per la criminalità mafiosa. Il corruttore non prova il senso di colpa, per questo non può essere perdonato, in questo senso si deve intendere la scomunica, per questo corrompe se stesso o come dice Papa Francesco puzza, odora di morte» (Huffington Post Italia, 16 giugno).
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I CASI DI SCOMUNICA
La scomunica è la pena più grave nella Chiesa. L’antichissima fattispecie comporta l’allontanamento dalla comunità dei fedeli e la conseguente esclusione dai sacramenti. In passato la punizione massima ha interessato per esempio i Lefebvriani, gli ultraconservatori contrari al Concilio Vaticano II, o alcune sette religiose. Ma è scomunicato, «latae sententiae», cioè automaticamente, anche chi viola i segreti del conclave; oppure chi profana le ostie o attenta alla vita del Papa.
Ci sono poi peccati conclamati, come l’aborto, che in passato sono stati inseriti nell’elenco. È sempre possibile chiedere perdono, confessarsi, ma ci sono diversi gradi: se, infatti, generalmente una scomunica può essere tolta dal prete durante la confessione, alcune sono riservate al vescovo o, persino, alla Santa Sede, cioè alla Penitenzieria apostolica, il competente ufficio della Curia romana (La Stampa, 15 giugno).