Una delle critiche che da un paio di secoli rivolgono alle liturgie cristiane riguarda il loro segreto (ovvero presunto) imparentamento coi culti dionisiaci. La storia e la teologia spiegano che così non può essere
Nei giorni scorsi abbiamo ricevuto diverse mail, tra le quali due spiccavano per il fatto che si riferivano a due problematiche dottrinali in apparenza molto diverse ma di per sé non prive di interessanti spunti di connessione. La prima di queste recitava:
Come si può rispondere a quanti affermano che i cristiani siano rei di omofagia?
E la seconda, invece, suona:
Quali argomenti razionali si possono portare contro la tesi che nega che Gesù sia morto in croce?
Alcune doverose precisazioni
Innanzitutto “Omofagia” significa “mangiare carne cruda” (da ὠμός, crudo e ϕαγεῖν, mangiare). A chi non avesse mai incontrato il termine urgerà una ulteriore precisazione: quella di “omofagia” non è un’accusa spendibile contro i “crudisti” dei nostri giorni, che sono invece un’ala estrema dei vegani – sono cioè quelli che non soltanto non mangiano carni e neppure derivati animali, ma neanche cuociono i vegetali.
Tutt’al contrario gli omofagi, i quali non solo mangiavano (/mangiano) carne e la mangiavano (/mangiano) nell’ambito di sacrifici rituali, ma lo facevano (/fanno) rifiutando di proposito la cottura rituale e tutto quanto avesse dato al rito un che di “composto” e di “ordinato”. I culti che operano l’opzione rituale omofagica sono quelli ctonii, legati a divinità dionisiache, quali appunto quello delle menadi: l’atto “liturgico” consisteva allora nel cacciare l’animale designato, ucciderlo direttamente col farlo a pezzi, senza coltelli o lame rituali, e poi sbranarlo collettivamente, sporcandosi tutti col cruento banchetto.
Evidentemente a nessuno che abbia mai assistito a quei mortori che (troppo spesso) sanno essere le celebrazioni eucaristiche verrebbero mai in mente le menadi danzanti di Skopas o Le baccanti di Euripide. Eppure… se a qualcuno passa per la testa una simile accusa un motivo ci sarà. Proviamo a ragionarci su.
Parliamo dunque di omofagia
Per oggi ci atterremo alla sola domanda dell’omofagia, visto che già ci siamo dilungati con alcune osservazioni previe. Però prima di proseguire vorrei accennare, semplicemente con una citazione, al motivo per cui le questioni sollevate hanno dei punti di contatto. Scriveva infatti Ignazio di Antiochia, mentre veniva tradotto in catene a Roma per essere dato alle bestie:
Si astengono dal partecipare all’eucaristia e alla preghiera, perché non professano che l’eucaristia è la carne del nostro salvatore Gesù Cristo, la quale ha patito per i nostri peccati e che il Padre nella sua bontà ha risuscitato. Coloro che si oppongono al dono di Dio a forza di discutere muoiono. Converrebbe piuttosto che essi praticassero la carità per poter risorgere.
Lettera agli Smirnei 7,1
Di chi parlava Ignazio? Chi sono questi che non professano che l’eucaristia è “la carne del nostro salvatore Gesù Cristo”? Non ci crederete: i docetisti, ovvero quelli che negavano che Gesù fosse morto in croce.
Ma ne parleremo un’altra volta, ora vorrei tornare un istante in compagnia di Ignazio per rileggere dalla sua immortale Lettera ai Romani le parole più vibranti con cui si riferisce all’eucaristia:
Non mi soddisfano il cibo corruttibile o i piaceri di questa vita. Voglio il pane di Dio, che è la carne di Gesù Cristo, dal seme di Davide, e per bevanda voglio il suo sangue, che è amore incorruttibile.
Lettera ai Romani 7,3
Ci sarebbero innumerevoli cose da dire, tanto sul contesto (come ad esempio che il vescovo di Antiochia stava diffidando i cristiani di Roma dall’intervenire con tentativi di sottrarlo alle belve) quanto sul testo: a tale proposito, però, sarà utile ricordare almeno che ci si riferisce all’eucaristia come al “pane di Dio”, del quale – conformemente al dettato di Gv 6 – si afferma essere “la carne di Gesù Cristo”; ma poi vi si aggiunge un richiamo alla discendenza davidica, che non ha in Ignazio la sfumatura giudaizzante del titolo “figlio di Davide” nel Vangelo secondo Matteo, bensì vuole essere un rimando vivido alla storia concreta dalla quale Cristo è venuto nel mondo. In ultimo, l’affermazione cruenta “voglio per bevanda il suo sangue”, che ancora una volta si riferisce a Gv 6, viene mitigata dall’immediata postilla “che è amore incorruttibile”.
Oltre Ignazio: Ambrogio, Francesco e gli altri
Ignazio sapeva benissimo quello che voleva, a quanto ci è dato leggere nelle sue lettere, ma ancora meglio sapeva ciò che credeva: e senza tirarla troppo in lungo con un’interminabile serie di citazioni osserverei che le comunità cristiane ortodosse, cioè quelle che tra di loro si sono (grossomodo) sempre riconosciute il carisma della fede retta, hanno sempre utilizzato espressioni oscillanti tra un fisicismo al limite del truculento e uno spiritualismo che sembra quasi perdere di vista la sostanza del sacramento dell’eucaristia.
Così è proprio nel Vangelo secondo Giovanni, che per giudizio unanime di tutta la Tradizione cristiana è il Vangelo spirituale… e che opera la scelta più estrema, quanto all’eucaristia: nel racconto dell’ultima cena di Gesù, Giovanni omette (Gv 13,1-15) infatti ogni riferimento a qualcosa di particolare che fosse accaduto quella sera (a parte la lavanda dei piedi: quella è l’unico a raccontarla); viceversa, nel racconto di una delle moltiplicazioni dei pani, Giovanni riporta un discorso (Gv 6,22-71) di Gesù che (ancora una volta) egli è l’unico degli evangelisti a farci conoscere, e sceglie un lessico greco particolarmente forte, per dire il “mangiare” cultuale dei cristiani – addirittura suggestivo onomatopeicamente.
Poi la storia ha conosciuto le sue sue tendenze, certo, e dobbiamo registrare che alcune omelie alessandrine del IV secolo sembrano intendere l’eucaristia in senso puramente spirituale, mentre certi scritti di san Francesco danno l’idea che il Poverello ritenesse la carne di Cristo presente in senso fisico e spaziale, “sotto i veli del pane” (entrambe le tesi sono false ed erronee, in senso stretto).
Certo, quella di “transustanziazione” è una categoria scolastica, se si vuole limitata e sicuramente difficile da capire a fondo: non si deve però fare l’errore di credere che la chiarezza della dottrina eucaristica cristiana stia o cada in base a quella particolare formulazione storica del dogma eucaristico. Sant’Ambrogio, infatti, era chiarissimo nel De sacramentis:
Questo pane è pane prima delle parole sacramentali; quando interviene la consacrazione, da pane diventa carne di Cristo […] Con quali parole si compie la consacrazione e di chi sono tali parole? […] Quando si viene a compiere il venerabile sacramento, il sacerdote ormai non usa più le sue parole, ma usa le parole di Cristo. È dunque la parola di Cristo a compiere questo sacramento.
Ambrogio, De sacramentis, IV,14-16
E ancora più chiaro era stato nel De mysteriis:
La parola di Cristo che poté creare dal nulla ciò che non esisteva, non può trasformare in qualcosa di diverso ciò che esiste? Non è infatti cosa minore dare alle cose una natura del tutto nuova che mutare quella che hanno […]. Questo corpo che produciamo [conficimus] sull’altare è il corpo nato dalla Vergine. […] È certamente la vera carne di Cristo che è stata crocifissa, che è stata sepolta; è dunque veramente il sacramento della sua carne […]. Lo stesso Signore Gesù proclama: “Questo è il mio corpo”. Prima della benedizione delle parole celesti si usa il nome di un altro oggetto, dopo la consacrazione si intende corpo.
Ambrogio, De mysteriis, 52-53
Parole famose, a chi abbia anche solo un po’ d’orecchio per la musica sacra: l’Ave verum di Mozart avrebbe ripreso, oltre milletrecento anni dopo Ambrogio, il testo che da questo passaggio ambrosiano, al crogiolo della scuola di Corbie e dell’inquietudine religiosa di Carlo il Calvo, ne sarebbe risultato nel cuore del medioevo latino.
Gli eccessi della teologia… e le sue costanti
È vero, quella della “presenza reale” sarebbe diventata quasi un’ossessione, per seguire la quale la teologia sarebbe fatalmente arrivata a dimenticare il dinamismo ecclesiale ed escatologico dell’eucaristia e concentrarsi sulla famigerata “transustanziazione” – più o meno come i ragazzini di oggi (si generalizza pour parler, eh…) non sanno più andare coi pattini ma passano i pomeriggi a giocare con gli “spinner”, senza minimamente sospettare che i cuscinetti a sfera sono stati inventati per far funzionare meccanismi più grandi e più complessi (e ogni pattinatore ne porta otto sotto ai piedi!). Però, del resto, lo “stupore eucaristico” che si ricava dalla contemplazione di quello che già Agostino chiamava “mysterium caritatis” può ben giustificare l’indulgenza al miracolistico.
La bussola, tuttavia, non è mai stata persa fintanto che si è conservato l’equilibrio dogmatico nel comprendere la dottrina della fede. Ad esempio san Gaudenzio di Brescia, che opera a metà tra Ambrogio e Agostino, scrive in uno dei suoi trattati:
Cristo è lui solo che è morto per tutti. È lui il medesimo che si trova nel sacramento del pane e del vino anche se sono molte le assemblee nelle quali si riunisce la Chiesa. È il medesimo che immolato ricrea, creduto vivifica, consacrato santifica i consacranti.
La carne del sacrificio è quella dell’Agnello divino, il sangue è quello suo. Infatti il Pane disceso dal cielo ha detto: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» [Gv 6, 52].
Molto giustamente il suo sangue viene indicato anche sotto il segno del vino. Lo disse egli stesso nel vangelo: «Io sono la vera vite» [Gv 15, 1]. Il vino offerto nella Messa come sacramento della passione di Cristo è suo sangue.
Per questa ragione il patriarca Giacobbe aveva profetizzato di Cristo, dicendo: Egli laverà nel vino la sua veste e nel sangue dell’uva il suo mantello [cf. Gn 49, 11]. Avrebbe infatti lavato nel proprio sangue la veste del nostro corpo, di cui egli stesso si era rivestito. Egli, creatore e signore di tutte le cose, produce il pane dalla terra e dal pane produce sacramentalmente il suo corpo, poiché lo ha promesso e lo può fare. Egli inoltre che ha fatto dell’acqua vino, dal vino fa il suo sangue.
«È la Pasqua del Signore» [Es 12, 11], cioè il passaggio del Signore. Queste parole ti ammoniscono di non credere terrestre quello che è diventato celeste. Il Signore “passa” nella realtà terrestre e la fa suo corpo e suo sangue.
Quello che ricevi è il corpo di colui che è pane celeste e il sangue di colui che è la sacra vite. Infatti mentre porgeva ai suoi discepoli il pane consacrato e il vino, così disse: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue» [Mt 26, 26-27]. Crediamo dunque a colui al quale ci siamo affidati: la verità non conosce menzogna. Quando infatti diceva alle turbe sbigottite che il suo corpo era da mangiare e il suo sangue da bere, molti sussurravano: «Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?» [Gv 6, 60].
Per cancellare con il fuoco celeste quei pensieri aggiunse: «È lo Spirito che dà la vita; la carne invece non giova a nulla. Le parole che vi ho dette, sono spirito e vita» [Gv 6, 63].Gaudenzio, Trattato 2, 26. 29-30
Però se dovessi rispondere in sintesi a perché – no – l’eucaristia non può in alcun modo essere definita omofagia direi:
- perché non è un’accusa che è stata rivolta ai cristiani prima degli ultimi due secoli (nell’antichità li accusavano anche di cannibalismo e di incesto, ma di parentela coi culti dionisiaci mai), e quindi è facilmente scartabile come una inferenza a posteriori delle recenti ricerche storico-filologiche, dall’idealismo tedesco in qua;
- perché il culto cristiano è sempre stato caratterizzato da ordine e trasparenza: i mysteria erano riservati agli iniziati, sì, ma nessuno ha mai avuto problemi a diventare cristiano, nella storia;
- perché fin dall’antichità, anzi, v’era stata una robusta tradizione poetica che voleva identificare così strettamente Gesù crocifisso (e quindi il suo sacramento) con l’agnello della Pasqua ebraica, al punto dal volerlo “arrostito d’amore”.
Cristo, il divino abbacchio
Tra sant’Ambrogio e sant’Ilario, e probabilmente non più tardi del VI secolo, l’innologia latina si era arricchita di un preziosissimo inno, che il breviario romano ancora riporta nei vespri festivi del tempo di Pasqua: nella seconda quartina dell’Ad cenam agni providi leggiamo che il corpo di Cristo sarebbe stato «rovente sull’altare della croce» [«in ara crucis torridum»]. E ancora Lutero avrebbe composto un inno in tedesco in cui leggiamo: «Ecco qui il vero Agnello di Dio, / del quale Dio ha comandato; / esso è stato arrostito in un torrido amore / all’albero della croce [Christ lag in Todesbanden]».
Omofagia, dunque?
No, nulla di meno vero, se si parla dell’eucaristia cristiana: quella infusa dallo Spirito di Cristo è una “sobria ebbrezza” – bisogna essere parecchio più sballati, per lasciarsi andare ai misteri di Dioniso.