Il racconto fotografico di 8 donne toccate e rinate dal dolore«Non sono così! Per questo ho voluto realizzare questo progetto. Perché loro non sono così».
È Cristina che parla. Sono le nove e trenta di un mattino feriale. Siamo sedute al tavolo del suo elegante e caldo soggiorno, a Desenzano del Garda. Dalle finestre, oltre il giardino, l’azzurro del lago promette l’estate. Mi ha appena allungato una tazzina di caffè e ora mi passa fotografie, testi e parole accorate e asciutte insieme.
È una fotografa professionista. Mi affascina profondamente lo sguardo che deve aver maturato dietro un obiettivo (di macchine fotografiche serie e non degli smartphone). Si capisce subito che è un’artista, che le sue opere sono alto artigianato e che non cercano di strapparti un’emozione forte ma superficiale. Perché sono gesta, sono gesti. Sono studium, zelo. Sono semplici perché frutto di un lungo, intenso lavoro. Il risultato di una perizia tecnica e una intelligenza umana che lei quasi custodisce, offre solo se è sicura che non possa subire banalizzazioni.
«Non sono così le donne che hanno subìto interventi». «Così come?» le chiedo.
«Come si vedono di solito rappresentate: con immagini desolanti».
Cicatrici rapinate senza riguardo, buttate sulla carta fotografica come un pezzo di carne sul banco del macellaio. Ringhiere o letti d’ospedale, neri, grigi alle spalle. Donne sfregiate, le facce tristi e piene di rancore o angoscia. E rughe ostentate, su volti che sembrano dover accusare qualcuno di quello che è toccato loro.
«E non ci sono solo le mastectomie – aggiunge-. Sono tante le ferite che possono toccare ai nostri corpi. Non trovo giusta questa insistenza esclusiva sul cancro al seno».
«Io le conosco davvero alcune donne, parecchie per la verità, che hanno affrontato tumori, interventi, trapianti, menomazioni». Alcune sono vicinissime a lei. Il marito inoltre è un eccellente chirurgo specializzato in patologie al seno.
«Sai una cosa?» – mi dice. «Sono belle».
E pochissimo languide o lacrimose, comprendo da come le racconta. Dalle vite che fanno e dalle prove spesso ravvicinate e crescenti che hanno dovuto affrontare. Sono belle perché si vestono bene, si truccano, non mettono su chili a coprire cose vergognose. Lavorano. Continuano a vivere. Con un’intensità nuova.
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Hanno cicatrici importanti e siccome se le sono guadagnate, insieme ad una nuova profondità, ad una inattesa leggerezza e amore per la vita, sono disposte a mostrarle. Per come sono davvero: preziose.
#preziosecicatrici è l’hashtag del progetto. Gli scatti sono stati esposti lo scorso febbraio in una mostra realizzata a Brescia presso InLab 38 – Spazio Creativo.
Cristina, Elisabetta ed Annamaria lo staff che lo ha realizzato. Cristina Penocchio fotografa e capo progetto. Elisabetta Forte make up artist, specializzata in fashion designer e acconciatura. Annamaria Valentino jewerly designer e visual director.
Altri 8 sono i nomi delle donne che si sono lasciate fotografare insieme a e grazie alle loro cicatrici.
Il nudo pudico che vedrete è stato una conquista. Cristina ha saputo accompagnarle, si sono fidate di lei e accolte, sostenute tra loro; a volte urtate involontariamente. Perché una ferita troppo recente non è come una cicatrice ormai ben saldata.
«Le modelle, (soggetti autentici della storia che si vuole raccontare, ndr) vengono ritratte con le cicatrici coperte dall’oro, per valorizzare e impreziosire il corpo. L’idea nasce dalla tecnica del Kintsugi, usata in Giappone per recuperare oggetti rotti e renderli ancora più preziosi. Applicato al corpo dona alla persona una rinascita, una vita nuova».
O meglio esprime quello che è avvenuto a livello interiore ed esistenziale nella vita di queste e chissà quante altre donne.
«Le #PrezioseCicatrici ci raccontano una nuova bellezza, la crescita interiore generata dall’esperienza del dolore.»
Cristina racconta. Il desiderio di esprimere la ricchezza di quello che ha intuito rende insufficienti le parole. Gli scatti che ha realizzato sono di una potenza e di una bellezza che a me, profana in tema di fotografia ma piuttosto familiare con il dolore e la luminosità che alle volte sa scoprire, togliendoci polvere e detriti dall’anima, hanno colpito ed entusiasmato.
Altre volte ho visto utilizzare il Kintsugi come metafora. Questa volta la trovo davvero riuscita. Ed il riferimento alla cultura giapponese non è di maniera, ma anzi viene sottolineato con forza proprio perché in aperta antitesi con la corrente nella quale a volte ci sentiamo nostro malgrado trascinati dalla nostra cultura “dello scarto” (come direbbe il Santo Padre). È stato come andare a cercare acqua fresca di sorgente!
«L’arte del Kintsugi, nata intorno al XVI secolo e tramandata di generazione in generazione.
Dalla rottura viene data nuova vita all’oggetto che con le sue preziose linee diventa più pregiato.
Una filosofia così lontana dalla nostra idea consumistica della distruzione e sostituzione in favore di un concetto di rigenerazione e resilienza.
Questi aspetti di rigenerazione e resilienza sono il filo conduttore di questa mostra, un filo d’oro che evidenzia ferite di donne, ferite che ci portiamo nel corpo e nell’anima, ferite che danno forma alle storie.
Le #preziosecicatrici ci raccontano la nuova bellezza, la crescita interiore generata dall’esperienza del dolore.
Come il Kintsugi non cancella le crepe ma le ripara e le impreziosisce, i nostri segni di fragilità vengono mostrati con orgoglio perché sono la forza e diventano una storia da raccontare ed un insegnamento da conservare.
Se tutti noi potessimo mostrare le nostre ferite interiori, se le cicatrici che abbiamo sul nostro corpo trapassassero i nostri vestiti e si rendessero visibili agli occhi degli altri e di noi stessi, saremmo stupiti dal cerchio di amore, sostegno e compassione che ci unisce tutti.
Per perdere per sempre il senso di inutilità delle cose e dei fatti della vita».
Conosco un precedente, che è anche sempre un antecedente sommamente illustre e compassionevole, di questo modo di portare ferite e cicatrici. Il Risorto con le Sue piaghe gloriose.
E allora va bene, facciamo pure il giro lungo passando per il Giappone. Ma torniamo a Chi davvero non permette che nessun dolore vada sprecato e a Colui che guarirà da ogni malattia e menomazione tutti i nostri teneri, fragili corpi e le nostre anime provate. Sì, provate al fuoco come si fa con l’oro.
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Quanto è grande la speranza cristiana!
Sono grata a Cristina, Annamaria, Elisabetta e ad Anna, Ambra, Carola, Luisa, Astrid, Serenella, Lara, Monica…per come si sono offerte. Con fiera dolcezza. Con profondità e glamour. Mi sono parse testimonial perfette di quella femminilità talmente intensa che passa anche dalla texture del fondotinta e che anche noi di For Her vogliamo proporre e valorizzare.
Allora venite con me. Seguiamo Cristina e il suo sguardo.