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Il mistero della bellezza femminile fonte d’ispirazione per l’arte

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Silvia Lucchetti - Aleteia - pubblicato il 20/05/17
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La nostra intervista al giovane pittore Francesco Astiaso GarciaLa prima domenica di maggio ho partecipato insieme a mio marito ad un bell’evento, molto interessante e vivace, organizzato da Progetto Pioneer dal titolo: “Che ne faremo di Venere? La bellezza femminile come limite o opportunità”.

Dopo la tavola rotonda in cui si sono alternate le voci di Costanza Miriano, Marta Rodriguez e Myriam Conti, guidate dalla giornalista Elisa Calessi, l’incontro è stato arricchito da ben due sfilate di moda, la prima a cura dell’associazione Turris Eburnea e la seconda con gli abitidell’atelier romano Eligere.

A conclusione del pomeriggio a tinte rosa, ma non caramelloso e nient’affatto autocelebrativo, una mostra sul volto femminile, sulla grazia della donna con i quadri del giovane artista italo-spagnolo Francesco Astiaso Garcia.

Non sono un’esperta d’arte ma le opere esposte mi hanno colpito per delicatezza e originalità, le ho trovate sognanti e ho pensato di contattare l’artista per capire meglio le radici della sua ispirazione.

Care lettrici di For Her, spero che questo tuffo nell’arte, soprattutto nella sua declinazione femminile, vi piaccia e vi susciti un desiderio sempre più grande di custodire e valorizzare la bellezza e grazia speciale che vi contraddistingue, perché come dice il nostro Pontefice: “Senza la donna, non c’è l’armonia nel mondo”.

Ciao Francesco, raccontaci qualcosa di te… come è nata la tua passione per l’arte?

È nata quando ero piccolo, come tutti i bambini amavo disegnare, dipingere, e ho continuato a farlo anche crescendo, senza smettere mai. Non c’è stato però un momento vero e proprio nella mia storia in cui ricordo di aver detto la frase: “voglio fare l’artista”. Dedicavo tanto tempo a fare ritratti ai miei fratelli, a dipingere i luoghi che mi colpivano. I miei genitori si sono accorti prima di me di questa passione, hanno capito che il mio cuore era indirizzato naturalmente da quella parte, e nel giorno della Prima Comunione mi regalarono una valigetta di colori ad olio.

E così da quella valigetta piena di colori arrivi fino alla laurea all’ Accademia delle Belle Arti di Roma con il massimo dei voti e la lode. Poi giri il mondo e realizzi affreschi e pitture murali in quattro continenti.(Roma, Madrid, Parigi, Varsavia, Shanghai, New York, Managua, Denver, ecc..)
Partecipi alla realizzazione degli affreschi dell’ abside della Cattedrale di Madrid, collabori con Kiko Argüello (figura fondamentale per la tua formazione ma ci torneremo più avanti). Esponi i tuoi quadri, apprezzati da pubblico e critica, alla galleria Astarte a Parigi, il Museo Nazionale d’Arte Moderna di Malta e le Sale del Bramante a Roma. Ricevi così giovane premi e riconoscimenti a livello nazionale ed internazionale.

Sì, sono successe tutte queste cose. Dopo gli studi la mia carriera è iniziata con la pittura ma ha poi ho proseguito anche con la fotografia. Questo grazie ai tantissimi viaggi che ho fatto, ai luoghi che ho visitato, che mi hanno aiutato ad approfondire la ricerca della bellezza.

Nel tuo intervento al convegno organizzato da Progetto Pioneer hai parlato dell’identità femminile. Come ti sembriamo oggi noi donne?

Forse le donne oggi hanno una tendenza, come frutto di un certo femminismo, a non valorizzare più a pieno quell’identità che le ha sempre caratterizzate, con l’illusione anche un po’ ideologica (dopo tanti anni di sfruttamento reale) dell’uguaglianza e della parità. Ma questa parità è un po’ un paradosso: la ricchezza della donna è nel suo essere profondamente unica, non equiparata in tutto e per tutto all’uomo. Papa Francesco lo ha espresso benissimo, ha detto che alle femministe degli anni ‘20 sembrò di aver ottenuto qualcosa, però in fondo si accontentarono di molto meno rispetto a quello che doveva essere la loro vera lotta, anzi, al contrario sono arrivate quasi ad una caricatura della loro femminilità: al maschilismo in gonnella. Le donne hanno un privilegio maggiore, un dono speciale che l’uomo non ha: nel grembo ospitano la vita.
Però allo stesso tempo la maternità, la cura dei figli, non possono essere vissute come un peso imposto dall’esterno o dalla società, alcune semplificazioni eccessive possono anche nascondere un certo maschilismo. Credo che il dialogo, anche con le femministe più estremiste, sia importante. La maternità, condizione speciale della donna, non è un vestito obbligato ma un dono enorme da scoprire e vivere ognuna secondo la propria libertà e la propria sensibilità. Così mi sembra che ci si avvicini a qualcosa di più vero, che passa attraverso il rispetto di ogni singola creatura di Dio: è sciocco voler rendere le donne tutte uguali, sarebbe un errore assurdo.

Come cerchi di rappresentare la donna nella tua produzione artistica?

Da una parte c’è l’amore estetico verso le donne. C’è un discorso di bellezza formale: l’eleganza del corpo, le espressioni, il sorriso, la grazia, ho sempre prediletto come soggetto dei mie quadri la donna, vertice della creazione. Spesso nell’arte contemporanea (come nella pubblicità) la figura della donna è “deformata”, ma comunque molto presente. Dall’altro c’è un mio sentirmi vicino alle donne forse proprio perché sono un artista, mi sento attratto dalla sensibilità femminile.

È vero che tua moglie è la maggiore fonte di ispirazione?

Quando ho finito l’accademia delle Belle Arti ho fatto una tesi che si intitolava “Vita e arte, arte e vita”: questo rapporto inscindibile diviene ancora più intenso con il matrimonio, che ci coinvolge in forma totalizzante. Influenza quindi anche la mia arte. Spesso attraverso i Social o sul mio blog tendo a sottolineare la mia musa, mia moglie Maria José, non tanto per sbandierare la sua bellezza, ma per sottolineare il rapporto dell’artista con il mondo femminile e la relazione tutto speciale con la moglie, l’unica donna amata, amica, madre dei propri figli. Questo non vuol dire che non posso dipingere altre donne ma che in ogni caso il riferimento più importante è sempre e costantemente lei. Quindi pur non rappresentando il termine di paragone, è sicuramente una figura privilegiata che influenza la mia ricerca estetica. Infatti in un articolo su Città Nuova l’autore, riflettendo sul fatto che in fondo tutte le donne che dipingo riportano a mia moglie, scrisse: “E sono volti ardenti, delicati, fantasiosi, ove si nascondono non tanti tipi diversi di donna, ma forse una sola donna, quella che Francesco ama nella vita”.

In che modo la fede traspare nelle tue opere?

La fede è decisiva, soprattutto nella pittura figurativa che porta avanti un discorso sull’uomo, che ha dietro un antropologia. La lettura sull’uomo è importantissima: un conto è pensare che l’individuo è carne, che invecchia e si decompone e finisce ai vermi, un altro discorso è credere che c’è un’anima, che siamo creati in vista dell’eterno, quindi con questo senso escatologico che i cristiani hanno sempre avuto. Il corpo ha un’importanza enorme ma allo stesso tempo bisogna coltivare il nostro animo che è immortale, quei valori che vanno oltre la forma, e che ci portano a valutare la vita sempre e comunque con una dignità altissima. Ad esempio la posizione sulla sindrome di Down, sul rapporto che abbiamo con la vecchiaia, o qualsiasi tipo di malformazione che potrebbe avere un figlio che stai aspettando, ti fa capire che c’è un’antropologia profondamente diversa nel cristiano, o in chi ha ricevuto un annuncio e una parola di vita eterna in cui ha creduto. Chi non ha avuto quest’annuncio di vita eterna, in fondo vede l’esistenza come un orizzonte piatto, non aperto al cielo: se aspetta un bambino down probabilmente abortisce, come fanno il 96% delle donne francesi secondo i giornali. E senza giudicare queste donne, anzi, capendo che in fondo è la cosa più normale che possono fare se si parte da prospettiva diversa da quella del cristiano. Ma se di fronte alla possibilità di mettere al mondo un bambino deforme tu capisci che la vita umana ha una dignità altissima in ogni sua espressione, questo non può non influenzare il tuo modo di dipingere, non può non essere un contenuto fondamentale da esprimere in qualche modo nei ritratti di uomo, di donna, della vecchiaia.

E la vecchiaia come la rappresenti nella tua arte?

La vecchiaia è un tema che mi ha sempre affascinato, mostrare la bellezza che c’è anche lì. Nel corpo che si disfa. La vecchiaia e la malattia, sembra un paradosso, hanno una loro bellezza. Mio padre ha il Parkinson, questa malattia cambia anche il corpo, ma c’è una bellezza paradossale in questo se accettata con fede. Ci sono persone che seppure lontane dalla fede riescono a vedere la bellezza della vita anche nella malattia, nella vecchiaia, vedere che c’è un ciclo nell’esistenza, dove ogni fase ha una dignità grande. Tutto questo influenza il mio modo di dipingere, e mi dà grande libertà nella scelta dei soggetti da rappresentare. La mia fede cristiana, la mia appartenenza è forte e mi caratterizza. Secondo me non si può staccare lo stile dal messaggio, la poetica dal contenuto. Nel mio caso voglio rappresentare l’uomo come unità di corpo e spirito come creatura di Dio, creata Sua immagine.

Il tuo rapporto tra arte e fede è stato sempre un connubio semplice?

Nella mia crescita sono stato combattuto, soffrendo una grande inquietudine, tra il voler essere un artista contemporaneo, adeguarmi alle mode, alle culture e ai costumi contemporanei (che ovviamente mi influenzavano) e quello che era invece la mia appartenenza come figlio di una famiglia cristiana, itinerante, missionaria all’interno del Cammino neocatecumenale. In più non ti ho detto della mia appartenenza pittorica ad un gruppo di artisti cristiani che nel frattempo, parallelamente alla mia formazione e alle mie prime mostre, mi ha visto impegnato nell’affrescare chiese in tutto il mondo, con Kiko Argüello e la sua equipe. E quindi come non unire questi due aspetti? Quello da una parte di partecipare al lavoro di un equipe di pittori che trovano un linguaggio, anche attraverso i canoni dell’iconografia bizantina, dell’arte tradizionale legata alla fede della chiesa e dall’altro quello di un popolo che ha ancora bisogno di immagini che avvicinino al sacro, di un kerigma dipinto. Questo è stato un percorso che ho anche sofferto tantissimo come artista perché mi sembrava di stare sempre a fare le stesse cose, di entrare in canoni che circoscrivevano completamente la libertà creativa, e in un certo senso è stato veramente così, è un canone iconografico molto stretto. Però con il tempo questo mi ha aiutato tantissimo, perché in fondo l’iconografia è rendere presente attraverso l’arte il cielo. Per quanto vogliamo tenere separate le circostanze della nostra vita, tutti noi abbiamo una storia e tutti i fili alla fine si riannodano, perché la trama la porta avanti Dio. Per quando io possa tentare di spiegare ancora mi meraviglio, sono uno spettatore, grato. Non potevo far finta che quello che avevo fatto nelle chiese, quello che avevo sentito dipingendo con Kiko fosse una cosa completamente slegata. Volevo unire le due cose, infatti poco a poco i quadri che creo sono quasi delle icone contemporanee. Con una tecnica moderna però mi prepongo lo stesso obiettivo della tradizione sacra: il tentativo di aprire una finestra sul cielo.

Perché gli artisti in generale non hanno più questa vocazione spirituale?

Credo che prima di poter assister ad un nuovo ritorno nell’arte su tematiche alte, ci sia bisogno di una ri-evangelizzazione. Prima portare la buona novella, una volta accolta gli artisti seguiranno dando i loro frutti.
Ma perché avvenga questo non possiamo attendere passivamente, infatti Antoine de Saint-Exupéry diceva:

«Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito».

Bisogna risvegliare nell’uomo la nostalgia di Dio e così anche nelle arti avremo un rifiorire di bellezza, di profondità nuova e contemporanea.

La prossima mostra personale dell’artista si terrà il 14 luglio nella meravigliosa galleria d’arte dell’Istituto di Cultura Cervantes di  Roma. Siamo tutte invitate! 🙂