Molti dei suoi lettori cercano in lui semplicemente un puntello per sorreggere la loro ostilità al cristianesimo e alla Chiesa, ma non pochi tra loro restano turbati dai suoi libri per difetto di strumentario tecnico
Pare che il paradossale apologeta inglese non l’abbia mai scritta, questa cosa, ma certamente è innegabile il suo sapore chestertoniano: «Quando la gente smette di credere in Dio non è vero che non crede più a niente: anzi, comincia a credere a tutto». Mi torna in mente ogni volta che vedo qualcuno levarsi dal collo “il giogo della fede” e caricarsi quello delle superstizioni… ma anche quello delle dicerie, dei complottismi, delle “fake news”.
Ci penso una volta di più leggendo Antico e Nuovo testamento, libri senza Dio, di Mauro Biglino. Nelle intenzioni dell’autore, questo libro dovrebbe replicare ad alcune delle obiezioni fondamentali mosse ai suoi lavori precedenti da alcuni lettori critici. Recentemente, la Uno Editori ha raccolto questo titolo con i due precedenti, del medesimo autore, ed ha accorpato il tutto con un capitolo inedito. Evidentemente autore ed editore guardano a questi scritti considerandoli in qualche modo un punto d’arrivo, un traguardo di compiutezza.
Meglio così: se non altro sappiamo che leggendo queste pagine attingiamo a uno stadio tendenzialmente stabile della loro proposta. Per quanto nell’introduzione all’ultimo volume della trilogia, appunto, si legga:
Questo nuovo libro è come un fiume, una corrente il cui flusso scorre con i pensieri che si richiamano gli uni con gli altri senza suddivisioni didascaliche.
(p. 12)
A dire il vero, una suddivisione mi sembra ravvisabile fin dall’indice: i capitoli 1-4 si concentrano sulla questione del termine “אֱלוֹהִים” [“Elohîm”]; i capitoli 5-6 entrano nel Nuovo Testamento e discutono le narrazioni sulla figura di Gesù; mentre gli ultimi capitoli (7-9) ambiscono a tirare le somme di tutte le considerazioni precedenti, appurando una buona volta se «quello che ci è stato detto sulla Bibbia è falso» o no. Chiaramente Biglino ritiene di sì, cioè che grossomodo tutte le credenze accumulate e trasmesse nei secoli mediante e riguardo ai testi biblici siano nient’altro che un sistema di controllo e di dominio delle coscienze. Invenzioni «costruite a tavolino – recita il sottotitolo del libro – per mantenere il potere».
Non una tesi inedita, a ben pensare: da Marx in qua, una siffatta critica è stata rivolta a ogni religione, e in particolare al cristianesimo. Anche il bersaglio di Biglino, si parva licet…, è in prima e fondamentale istanza la tradizione cristiana (e cattolica in specie), ma ciò comporta infine un attacco a ogni credenza religiosa. Neppure Marx aveva inventato qualcosa di eccezionale, a dirla tutta: almeno da Cicerone in qua si ammette che nell’età classica le liturgie romane fossero meri instrumenta regni (strumenti di governo), e che nessuno dei ceti alti credesse davvero alle divinità. A chi non conosca le tesi di Biglino sembrerà forse strano, ma in effetti l’accostamento alla testimonianza ciceroniana parrebbe portare acqua al suo mulino, poiché è convinzione dell’autore che il “dio unico” di Israele altro non sia che uno dei tanti “dèi” discesi dal cielo chissà come e chissà quando, che le religioni tutte siano in sostanza un inganno ordito dagli alieni per assoggettare gli uomini e che vi sia sempre stato qualcuno “messo a parte” del segreto – qualcuno che avrebbe tratto maggior frutto dalle mistificazioni religiose – e Cicerone sarebbe un candidato meraviglioso da portare a supporto di questa tesi. Anzi, strano che non se ne trovi traccia, nelle pagine di Biglino…
Ma forse il lettore ignaro dell’opera di Biglino sta rimanendo disorientato dall’eterogeneità degli argomenti chiamati in causa: filologia semitica, archeologia, letteratura classica, ufologia… No, non mi sono sbagliato: c’è davvero tutto questo nelle sue singolari tesi.
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Se aggiungiamo anche la critica di Feuerbach per cui le religioni tengono schiavi gli uomini con la paura della morte abbiamo davvero tutto. Salvo che Biglino ha (pure) il tic di ribadire che la Bibbia non promette a nessuno l’immortalità: questo però quando dimostra che “la Bibbia non è un libro sacro”, non quando rivela che “le religioni si fondano sulla paura della morte”. E pazienza se le argomentazioni confliggono insanabilmente tra loro: del resto è comprensibile, essendo “questo nuovo libro” «una corrente il cui flusso scorre con i pensieri che si richiamano gli uni con gli altri senza suddivisioni didascaliche». Il lettore è avvertito, bisogna darne atto.
Così si può leggere nella stessa pagina (58), anzi in due paragrafi consecutivi, quanto segue:
La sacralità e l’unicità di questo insieme di testi sono il frutto di una vera e propria imposizione che si è variamente sviluppata e concretizzata nei secoli con fini e obiettivi che nulla hanno a che vedere con la spiritualità e con la presunta purezza di un pensiero religioso distaccato e divinamente ispirato.
E subito prima si aveva:
[…] è fondamentale evitare tutte quelle riflessioni che nella voluta e ricercata complessità tendono a nascondere l’evidenza di un testo che, nella sua disarmante semplicità, nulla ha mai avuto di sacro.
Insomma, la Bibbia è il frutto di un complotto ordito a tavolino da un alieno particolarmente meschino (YHWH, nientemeno), ma leggendo questo stesso testo ingannatore con «ragionamenti semplici, chiari, coerenti» dovrebbe balzare agli occhi la matrice dell’inganno.
Se non ci si stupisce di come si possano ritenere “semplici, chiari, coerenti” certi fantasiosi bizantinismi, c’è perlomeno da stupirsi della coriacea e plurimillenaria resistenza di un dolo tanto palese… sarà il trucco della lettera di Poe, chi lo sa!
A proposito del richiamarsi di idee… sarà un caso ma scorrendo le pagine di questa innovativa esegesi ho riassaporato la memoria dei romanzi di Zecharia Sitchin e Peter Kolosimo. Davvero quasi le stesse trovate, in quei testi come in questo. E peccato che, anche qui, non ci siano citazioni a confermare l’esattezza della reminiscenza. Sarà che Biglino afferma di voler limitare la bibliografia al minimo indispensabile; sarà che certi genî arrivano per vie separate alle medesime verità (in fondo anche Newton e Leibniz scoprirono contemporaneamente, ma senza collaborare, il calcolo infinitesimale!); o sarà che anche alla Nasa tutti hanno letto Jules Verne e visto Fritz Lang, ma che nessuno ama mostrarsi debitore di romanzieri, quando ambisce a passare per “uomo di scienza” o “intellettuale”.
Questo un po’ mi stupisce per quanto riguarda Biglino, perché ho recentemente scoperto che sulla “sua” storia degli Elohîm tale Riccardo Rontini produce un suggestivo fumetto.
La si dirà una “Biblia Biglini pauperum”, che ha se non altro il pregio di illustrare plasticamente la profondità di un pensiero che nega l’esistenza di una divinità da cui innumerevoli persone attestano di essere state salvate, e afferma l’esistenza – per dirla col salmista – di «un dio che non può salvare».
Dunque la questione di/degli Elohîm è fondamentale, dice Biglino. Anzi, più esattamente:
Ho […] scelto di rispondere in modo circostanziato alla più importante delle contestazioni che l’esegesi giudaico-cristiana mi rivolge: quella relativa al termine Elohim, al suo essere plurale o singolare, al suo significare “Dio” oppure no.
Come si comprende bene, questa infatti è la questione di fondo, tutte le altre non ne costituiscono che il corollario e rivestono un’importanza di gran lunga inferiore.
È infatti fondamentale stabilire se la Bibbia parla del Dio unico oppure no.
(p. 9)
È un approccio che onestamente mi lascia senza parole: non perché mi impressioni la teoria in sé, che appare inconsistente a chiunque sia arrivato alla lezione numero 3 di ebraico biblico (e mano a mano che si procede con le lezioni appare sempre più inconsistente), ma perché Biglino le riconosce quest’importanza capitale, mentre tutto il suo procedere si fonda su asserti fragili quanto l’assurda pretesa di individuare un plurale laddove innumerevoli passi attestano per via verbale un soggetto singolare (e quindi un “plurale di astrazione”, tipico delle lingue semitiche… ma anche del greco, che per esempio chiama “il futuro” “τά μέλλοντα” [tá méllonta, le cose che stanno per essere]).
Allora precisiamo preliminarmente che אֱל [“El”], tutte le sue forme – abbreviate, piene o derivate – non sono native della lingua ebraica, bensì sono comuni al semitico nord-occidentale e alle lingue di molti dei popoli che hanno abitato la zona. S’intendono così richiamati tutti quei piccoli regni di cui il medio oriente antico era pieno, e le sovranità cittadine, o città-stato, disseminate per il territorio: Mari, Ebla, Ugarit, Meghiddo e via dicendo.
“El” era certamente un nome comune semanticamente coesteso al nostro “dio” o “divinità”, “nume” o “lare”: nessuna delle sue forme indica un nome proprio, se non per derivazione di eccellenza, come quando s’intende “capo degli dèi”, “padre degli dèi” (e per “padre” non s’intende certo ciò che la dogmatica trinitaria cristiana avrebbe elaborato nei secoli).
Un caso analogo a quello dell’ebraico Elohîm è dato dall’accadico Ilanu, che è il plurale di Ilu ed è perfettamente equiparato al suo significato singolare di “dio” (mentre mai accade l’inverso, cioè l’uso plurale della forma singolare).
Ora, questa è grammatica storica delle lingue derivanti dal semitico nord-occidentale: se con un nome dalla morfologia plurale si usano abitualmente voci verbali dalla morfologia singolare il filologo è tenuto a postulare che, per qualche motivo (di natura linguistica, non teologica né – tantomeno – ufologica), quel referente plurale abbia un contenuto singolare. Al grammatico spetta poi il ruolo, mediante la linguistica comparata, di cercare di stabilire come e perché si verifichino certe anomalie linguistiche (capitano anche in altre lingue, specialmente per nomi astratti, come ho ricordato con l’esempio del greco). Fino a questo punto, insomma, il teologo non è chiamato in causa. Ancora meno lo è l’ufologo. E siamo alla terza lezione di ebraico biblico.
Ma dopo questa premessa – che è materia di filologia pura e di grammatica storica, dunque non soggetta a influssi di sorta – volgiamoci a vedere come Biglino argomenta la sua tesi. Vediamo anzitutto la vicenda dello sfortunato alieno precipitato sul pianeta Terra.
Supponiamo che io colonizzatore (cioè Elohim biblico, theos greco, deus romano, ecc.) sia un materialista impenitente, non creda in nulla che non sia ciò che si sperimenta quotidianamente e abbia come scopo fondamentale, anzi unico, quello di passare il resto della mia vita in modo più agiato possibile. Per vivere al meglio gli anni che la biologia mi concede avverto la necessità di accumulare beni e dotazioni materiali: dovrò poterne disporre a mio piacimento […]. Per questo il mio scopo sarà quello di possedere molto e sapere di poterne disporre per sempre: le-’olam, direi biblicamente, cioè per un “lungo tempo”, almeno per tutta la durata della mia vita che, casualmente, è di gran lunga superiore a quella degli autoctoni che ho trovato sul pianeta e/o territorio nel quale sono giunto.
Grazie a questa particolarità lascerò inoltre che gli abitanti del luogo credano che io sia eterno: se ne convincono da soli, perché le loro generazioni si susseguono mentre io permango.
(34)
Così Biglino struttura la sua proposta: si parte con un “supponiamo” cui segue una liberissima ricostruzione di fantasia (e chi può obiettare qualcosa? ha detto “supponiamo”!). Ogni tanto si butta nel paragrafo qualche nozione di lessico biblico, più o meno corretta, come quella sull’espressione “le-’olam” (questa è corretta), e in quel caso – solo in quel caso! – si rimanda a una fonte autorevole (nella fattispecie si tratta del Dizionario di ebraico e di aramaico biblici, di Philippe Reymond e Albert Soggin, pubblicato dalla prestigiosa Società Biblica Britannica e Forestiera). Il lettore, che per il fatto stesso di essere un lettore di Biglino non è uno specialista, resta impressionato dallo scoprire una cosa che non sapeva e che discorda dalle sue (normalmente scarse) nozioni di cultura religiosa; e lo è tanto più se vede che la nozione viene confermata da una fonte esterna, indipendente e autorevole: l’effetto è che s’insinua o si consolida in lui il sospetto di essere effettivamente vittima della propria ignoranza. La cosa terribilmente ironica è che in effetti lo è, ma forse il suo sospetto lo spinge a guardare nella direzione sbagliata… Ma torniamo al nostro crudele YWHW, cioè a uno degli Elohîm finiti sul nostro pianeta non-si-sa-come-non-si-sa-quando-non-si-sa-perché; torniamo a lui e alla sua dura fatica di tirare a campare la sua sporca quasi-eternità.
[…] Nell’immediatezza ho la necessità di trovare dei collaboratori, perché non posso fare tutto da solo e, in prospettiva futura, devo pensare di ridurre al minimo il numero dei possibili rivali […]. Per il primo obiettivo […] stabilirò dei rapporti privilegiati con un numero ridottissimo di individui accuratamente selezionati. […] Con pochi – pochissimi di loro – il rapporto sarà anche aperto, chiaro ed esplicito: conosceranno cioè la “verità” e condivideranno | i miei obiettivi, godendone i privilegi sia pure in misura ridotta rispetto alla mia. Questi li chiamerò “iniziati” e sono quelli che i racconti antichi conoscono come i re-sacerdoti: rappresentanti di vere e proprie caste dotate di quel potere che derivava loro dalla conoscenza reale dei fatti.
(35-36 passim)
Insomma, in pratica mentre il perfido YHWH circuiva Abramo (il credulone), l’astuto Melchidesech faceva da spalla all’alieno ingannatore. Pare (ma su questo punto Biglino non si sbilancia del tutto!) che tali collaborazionisti primordiali fossero
in primis i discendenti diretti dei signori venuti dall’alto, i figli che derivavano dalle unioni sessuali che intercorrevano con i rappresentanti della specie umana: erano i sangue-misto cui si riferisce esplicitamente anche la Bibbia.
(Ibid.)
“Esplicitamente?”, pensa atterrito il lettore. “Anche la Bibbia?”! E mentre, per il sospetto di essere stato raggirato da millenni, già la rabbia gli ribolle dentro, trascura di porsi la semplice domanda di cui sopra? «Se questo libro è stato scritto per ingannarmi, come mai basta leggerlo per svelare l’inganno?».
Domande da pivelli, pensa il sagace lettore di Biglino, ormai smaliziato e avviato sul sentiero dell’iniziazione: «Eppoi – osserva stupito dopo una morbosa consultazione del mai-prima-sfogliato Gen 6 – sulla Bibbia c’è scritto davvero, che gli angeli andavano a letto con le donne!». Dunque Biglino ha ragione. Dunque Melchisedech e gli altri re-sacerdoti erano collaborazionisti degli alieni e i cosiddetti patriarchi erano solo i primi di molti allocchi a credere a una fandonia cosmica (tanto male imbastita che basta leggerla una volta per scoprire il trucco). Le reminiscenze liceali di genetica, che potrebbero porre sensate obiezioni, sono ormai inattingibili… chissà se anche quelle fanno parte dell’inganno!
Sfoglio e sfoglio in attesa degli argomenti decisivi a sostegno della tesi fondamentale, ossia: «Che cosa significa veramente Elohîm?». Niente, a un tratto leggo che quella di Dio sarebbe
una costruzione fatta di idee che reggono se stesse in un circolo vizioso autoreferenziale.
(38)
Che strano: sono parole che esprimono egregiamente l’idea che vado facendomi delle tesi del loro autore… Cerco argomenti e trovo affermazioni così:
Il mistero della fede, il mistero di Dio, sono concetti che i fedeli devono accettare perché i teologi sono stati costretti a inserirli. Ciò che hanno inventato è talmente incoerente e contraddittorio che deve necessariamente essere ricompreso nella categoria del mistero: non lo possono spiegare diversamente.
(40)
E la cosa deve suonare confortante all’ormai infuriato lettore, che scopre di non doversi neppure sentire ignorante (cosa che in effetti è), perché a quanto par di capire non ci sarebbe niente da comprendere, niente che possa rientrare in un pensiero logico. Ecco perché non ci aveva mai capito niente! Quanto a me, invece, che mi sforzo di mettere da parte i miei «due soldi d’elementari / e uno d’università», vorrei solo leggere un argomento a sostegno della fantasmagorica tesi sugli Elohîm alieni. E non ne trovo, perché Biglino divaga su Federico II di Svevia e su Gregorio IX (rivelandomi per giunta che i due erano in combutta: e io che ho perso tempo a studiare le due scomuniche – due – che il secondo inflisse al primo!), aggiungendo al tutto una spolverata di Lutero (più di tre secoli di distanza dai primi due… ma che vuoi che sia di fronte a un le-’olam!).
A p. 50 si trova poi lo spot di un DVD di Biglino in cui si spiegherebbe «la vicenda di Saul che è illuminante ai fini della comprensione di chi erano i “buoni e giusti” per l’Elohim di Israele». Mi spiace ma non ho il cuore di comprare (anche) il DVD: sto ancora cercando la spiegazione promessa sulla faccenda di Elohîm. E non la trovo. Qui Biglino vanta gli «anni di traduzione dell’ebraico masoretico per le Edizioni San Paolo» (51), ma nel dare prova di queste doti il nostro sembra tanto modesto quanto invece pare schietto nel rivendicarle. La spiegazione non arriva.
In compenso, segue un intero capitolo dedicato a gustose pericopi delle opere di Giuseppe Flavio: non si capisce in che modo debbano rispondere alla domanda su quella che Biglino aveva annunciato come “questione fondamentale”, visto che parlano di Noè e di Abramo, ma ce le prendiamo così come sono. In fondo al capitolo (pp. 70-71) una scheda riassume che, comunque, ruach è il rumore delle astronavi degli Elohîm e kavod è come chiamavano le astronavi. Ma per capirlo per bene, spiega Biglino, bisogna comprare i suoi libri. Gli altri.
Fermi tutti, arrivano ben due capitoli dedicati alla grammatica.
Biglino ribadisce quindi che gli Elohîm, i quali sono tanti, avevano assunto le funzioni di legislatori, governatori, giudici; che avevano fatto gli adam; che ci si erano pure accoppiati (già che c’erano); che sono mortali proprio come gli adam (del povero Salmo 82, messo a puntello di queste “tesi”, parleremo meglio trattando Gesù). I due capitoli proseguono con una serie di frettolose e parziali citazioni di casi che, uno per uno, troverebbero tranquillamente semplici e lineari risposte filologiche. Ad esempio Biglino afferma che Elohîm non può essere un plurale tantum perché ci sono diversi testi in cui ricorre insieme con il nome al singolare: come se un esegeta biblico potesse stupirsi di imbattersi in ripetizioni, parallelismi e merismi. Ma il meglio è sempre che il Nostro affronta i testi antichi con le categorie (filosofiche o linguistiche) moderne, rivendica che i suoi anacronismi metodologici siano leciti, e infine (come riporterò tra un attimo) copre tutte le proprie incoerenze procedurali con dei sontuosi “beh, comunque sono cose difficili e la grammatica mica la rispettavano, questi”. Insomma, Biglino, la rispettavano o no?
Gustosa anche l’obiezione per cui, quando si parla di Elohîm
siamo in presenza […] di un individuo concreto che mangia, beve, si sporca, si lava, deve riposare […]… Una concretezza drammaticamente materiale; nulla a che vedere con l’astrattezza dei termini che l’esegesi teologica pone a confronto nel tentativo di giustificare la desinenza plurale.
Non a caso infatti Umberto Cassuto (buon ultimo, ma non se ne trova traccia nella bibliografia di Biglino) osserva una differenza proprio in tal senso tra l’uso di YHWH e quello di Elohîm: il primo indicherebbe concretezza, il secondo astrazione. Non mancano i critici anche all’opera del Cassuto, che però vanta su Biglino il vantaggio incomparabile di partire dal testo e non da fantasiose ipotesi imbastite su silenzi irrimediabili.
L’arrampicata sugli specchi prosegue con surreali accostamenti tra gli usi plurali di Elohîm (quanto ai verbi usati) e il nome šoftîm (giudici), per “spiegare” le figure teofaniche dell’ultima parte di Gen e di Es. Si tocca il massimo del surrealismo quando Biglino afferma che, sì, anche mitsraîm significa “gli egiziani” o, per astrazione, “l’Egitto”… ma lì è diverso. Perché? Perché Elohîm sarebbe più astratto, più evanescente.
E infine Biglino sconfina nel Nuovo Testamento, sul quale però torneremo prossimamente. Qui resta un’altra cosa da osservare, circa le petizioni di principio del Nostro, e ce ne offre lo spunto proprio lui alla fine del capitolo IV:
Se il termine Elohim fosse singolare la Bibbia sarebbe un testo assurdo, incoerente, confuso e pressoché incomprensibile. Se, per contro, si dovesse rivelare veritiera la mia ipotesi, secondo la quale Elohim indica una pluralità di individui, il testo sarebbe chiaramente intelligibile da tutti, senza necessità di intermediazioni e interpretazioni.
(132)
La falsità della seconda affermazione risulta evidente non appena si considera che per 132 pagine (e per troppe altre ancora) Biglino afferma che non ci si può fidare di nessuno, nella lettura della Bibbia, per non uscire dall’interpretazione che lui ne dà. Dunque un interprete è certamente necessario, ed è lui. In effetti però “intermediatore” è meglio di “interprete”: dubito che Biglino voglia veramente fondare una nuova religione (le religioni sono cose che noi adamîm gestiamo a prezzo di fatiche sovrumane, e le sue fantasticherie sugli Elohîm dovrebbero averglielo insegnato); innegabilmente, però, egli si pone come chi offre una nuova rivelazione. Forse del nulla, dal momento che Biglino sembra foriero di una Weltanschauung nichilista, ma Biglino si pone come un mediatore.
E la prima affermazione? È vera o falsa? L’onere della prova spetta all’accusa, non alla difesa: l’accusa ha prodotto testi truccati, domande faziose, inferenze indebite, approssimazioni e minimizzazioni ad libitum… non si vede a che titolo possa chiedere che sia la difesa a rispondere.
La Bibbia è stata letta da decine di secoli senza che nessuno – tra quanti l’ebraico lo parlavano agevolmente (e prima dei masoreti!) – abbia mai provato imbarazzo su quando e come tradurre Elohîm come theós (dio) e quando tradurlo come theói (dèi). Se venti secoli dopo un italiano che ha studiato ebraico a Torino vuole convincerci che gli ebrei alessandrini dell’intetestamento non capivano quello che leggevano o che volevano perpetuare un inganno portato sul nostro pianeta da alieni di cui non sarebbe rimasto un solo reperto extratestuale oggettivo… noi ci sentiamo liberi di seppellire costui con una sonora risata.
Ma Biglino chiude il quarto capitolo con una sicumera contraddetta da quanto aveva scritto all’inizio del terzo, e la disposizione illogica delle parti (e dei modi) serve appunto per lasciare il lector simplex con un senso di fiducia nel “rivelatore” – senza omettere di indossare cautelativamente una foglia di fico da esibire ai meno sprovveduti tra i suoi lettori. Introducendo finalmente il primo dei capitoli dedicati alle questioni filologiche, il Nostro aveva infatti messo le mani avanti:
Le diatribe filologiche condotte su un singolo termine molto spesso non determinano risultati assodati e condivisi: la cosa non ci deve stupire perché le disquisizioni e le speculazioni “chirurgiche” non hanno la possibilità di produrre i risultati sperati a causa delle inevitabili incertezze connaturate alla conoscenza delle lingue antiche e per l’impiego che di queste facevano gli autori stessi i quali, a differenza nostra, non si sentivano sempre e necessariamente legati alla rigidità delle regole grammaticali.
(76)
Che dire? Nel momento in cui Biglino deve mostrarsi più solido – giacché è quello che ha promesso nell’introduzione – sfiora l’ineffabile:
[…] il prof. Garbini […] rileva che i masoreti non hanno operato su base linguistica e grammaticale, non hanno quindi scritto tenendo conto di regole precostituite, ma hanno invece operato su basi e, soprattutto, con intenti prettamente ideologici e teologici.
(Ibid.)
Al solito: l’appello a un’autorità forte, esterna e indipendente (la quale però non sta avallando la tesi: vorrei sentirlo, Giovanni Garbini, dire con le sue labbra che Elohîm non significa “dio”), il generico richiamo alla difficoltà della ricerca da condurre, il vaso di Pandora additato nei fantomatici “intenti prettamente ideologici e teologici”… e potremmo risparmiarci di sfogliare le pagine seguenti: Biglino non può documentare che Elohîm significa ciò che vorrebbe darci a intendere. Non può perché la sua è una pura invenzione fantascientifica, che imbastisce una trama di ipotesi non verificabili su un ordito di argumenta ex silentio. Niente di più lontano da qualunque criterio di esegesi rigorosa. D’altronde
[…] spesso queste regole non esistevano neppure: sono il frutto dell’elaborazione che i grammatici moderni hanno condotto a | posteriori e purtroppo talvolta anche sotto il condizionamento, più o meno consapevole, determinato dal substrato culturale teologico indissolubilmente connesso con il cosiddetto “libro sacro”.
(76-77)
Ecco qui: il testo biblico è una trappola diabolica ordita dagli alieni, e basta leggerlo per rendersene conto; però bisogna leggerlo in un modo diverso da come fanno tutti gli altri, perché gli altri sono caduti nella trappola dell’alieno. E però alla fine sarebbero i teologi a fare petizioni di principio!