E venne Natale con la sua coda di pranzi, tombolate e Trivial Pursuit. Da tempo non stavo così tante ore di fila in famiglia. Alle quindici, basta. Spiegai ai parenti, mettendoci più dell'enfasi necessaria, che in quel pomeriggio i poverelli della Stazione Centrale mi aspettavano per il caffè. Scoppiò un applauso dall'intera tavolata e una mano mi allungò una busta con dei soldi: finalmente mi ero deciso a fare qualcosa di bello (se dicevano "bello", non avevano mai visto nei particolari un barbone).
(...)
In stazione cercai l'autobus per Seveso. Anche se era il 25 dicembre qualcosa doveva pur muoversi oltre alla slitta di Babbo Natale. Nell'attesa chiamai i miei da una cabina. Nessuno rispose, ma io parlai lo stesso: «Penso di stare da Fratel Ettore finché non riprendono le lezioni in università. Quando mi vedete, vuol dire che sono tornato».
Festeggiai Santo Stefano in piazza Cairoli, distribuendo inviti per la festa dei venti anni.
(...)
Alle dieci di sera eravamo a casa Betania, sfiniti. «Se vuoi, adesso puoi sistemare la mia camera», fece
Fratel Ettore come se fosse una bella idea. Mi aprì senza chiave il suo appartamento sotto alla chiesa, e restai da solo coi Santi Volti a fissarmi dai quadri.
(...)
Scendeva il silenzio assoluto sulla povera casa dei poveri. Fratel Ettore si materializzò nella sua stanza, non guardando nemmeno se avevo fatto qualcosa. Mi prese la manica e mi trascinò in chiesa, al piano di sopra. «Gabriele, adesso devi provare a inginocchiarti» (ma come? Dopo una tale intimità, ancora non meritavo il mio nome?). Le dita grosse e rovinate diedero il colpo di grazia alla mia cotonatura , che ormai non reagì. I capelli riconobbero alle sue mani il ruolo di rappresentanti delle cose serie.
Finsi di pregare, ma in verità feci una riflessione: oggi non avevo mai pensato allo stato della mia pettinatura (e questo era un primo fatto memorabile), ma il vero miracolo era un altro: la cosa non mi importava.
(...) vidi in cosa consisteva il mio peggiore peccato: io mi guardavo costantemente da fuori. Io non agivo, ma mi vedevo agire. (...) Io compresi, in quella serena epifania, che adesso veniva il tempo di una scelta: non potevo più stare contemporaneamente sulla riva, e in navigazione.
(...) Avvertii una distanza che non creava nostalgia, la rilassante consapevolezza che il crollo delle civiltà, il susseguirsi del sapere, la trasmissione della vita non dipendevano dal mio umore.
Tratto dal libro
"La mia prima fine del mondo" di
Emanuele Fant