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Digiuno
“Digiunare” significa anzitutto e soprattutto… digiunare. Ossia non mangiare. Da diversi decenni va di moda sostituire il digiuno – l'unica cosa che sia significata da questa parola – con mille altre cose: digiunare dalle chiacchiere, dai social network o da qualche altro vizio. Tutte iniziative lodevoli, ma che hanno altri nomi (e che non è utile confondere col digiuno), anche perché astenersi dai peccati è sempre doveroso, mentre non sempre si raccomanda di astenersi dal cibo (il quale a differenza di altro è occasione di peccato solo in caso di abuso e non di per sé). La verità è che cerchiamo dei surrogati al digiuno perché il digiuno – uno dei segni più caratteristici del tempo quaresimale – ci denuda e ci ferisce dolorosamente e su più livelli: ci indebolisce nel fisico, ci castra simbolicamente, ci espone all'affiorare di altre passioni normalmente sopite dal rapporto col cibo (aggressività, maldicenza, avarizia…). Esso è poi la chiave di volta dell'arco che traghetta i vizi sensibili verso quelli spirituali: non a caso Dante colloca i golosi tra i lussuriosi e gli avari/prodighi. Digiunare, dunque, ci fa molto bene anche in quanto porta allo scoperto meccanismi di compensazione che ordinariamente coprono altri vizi: riscoprirci deboli è uno dei passaggi del rinnovamento quaresimale. Il digiuno va praticato quando e come lo chiede la Chiesa, certo (ossia in modo serio e rigoroso almeno alle Ceneri e al Venerdì santo), ma è consigliabile che sia “soffuso” per tutta la Quaresima. Un criterio? Cercare di non alzarsi mai da tavola completamente satolli e di non indulgere mai nel puro sfizio. Utile darsi qualche norma, tipo “niente dolci” (magari con lievi rilassamenti nelle domeniche e nelle solennità), e “niente vino” (il succo della vite è simbolo eminentemente eucaristico e pasquale) – ma senza finire nel fariseismo e nel formalismo.
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