Nessuno si salva da solo, la Quaresima non è il momento in cui emergono le volontà più determinate: il volontarismo non è mai stato la via della santità cristiana. «La grandezza dell'uomo – scriveva Pascal – è grande in questo: che si riconosce miserabile. Un albero non sa di essere miserabile. Dunque essere miserabile equivale a conoscersi miserabile; ma essere grande equivale a conoscere di essere miserabile» (
Pensées, 397). «L'uomo non è grande –
più recentemente aveva scritto il cardinal Sarah – se non quando è in ginocchio davanti a Dio».
Ma se anche una non cristiana come Etty Hillesum poteva riconoscersi in questo – «L'unico atto degno di un uomo è inginocchiarsi davanti a Dio» –, al cristiano è stato svelato «il mistero non manifestato agli uomini delle precedenti generazioni» (
Ef 3, 5-6), che cioè a quella universale e innegabile miseria umana corrisponde un'altrettanto universale e sovrabbondante Misericordia, la quale ha il volto amico e fraterno di Gesù Cristo.
Non si può fare quaresima, quindi, senza rinnovare il rapporto con la confessione, cioè senza tornare con umiltà e semplicità, e più spesso, alla sorgente della grazia – senza la quale «nulla è nell'uomo, / nulla senza colpa» (
Veni, Sancte Spiritus). Con le parole di Agostino:
«Tu sollevi chi riempi; io ora, non essendo pieno di te, sono un peso per me; le mie gioie, di cui dovrei piangere, contrastano le afflizioni, di cui dovrei gioire, e non so da quale parte stia la vittoria; le mie afflizioni maligne contrastano le mie gioie oneste, e non so da quale parte stia la vittoria. Ahimè, Signore, abbi pietà di me!
74. Ahimè! Vedi che non nascondo le mie piaghe. Tu sei medico, io sono malato; tu sei misericordioso, io sono misero. Non è, forse, la vita umana sulla terra una prova
75? Chi vorrebbe fastidi e difficoltà? Il tuo comando è di sopportarne il peso, non di amarli. Nessuno ama ciò che sopporta, anche se ama di sopportare; può godere di sopportare, tuttavia preferisce non avere nulla da sopportare. Nelle avversità desidero il benessere, nel benessere temo le avversità. Esiste uno stato intermedio fra questi due, ove la vita umana non sia una prova? Esecrabili le prosperità del mondo, una e due volte esecrabili per il timore dell'avversità e la contaminazione della gioia. Esecrabili le avversità del mondo, una e due e tre volte esecrabili per il desiderio della prosperità e l'asprezza dell'avversità medesima e il pericolo che spezzi la nostra sopportazione. La vita umana sulla terra non è dunque una prova ininterrotta?» (Aug.,
Conf. X, 28.39.).