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San Rafael Arnáiz Barón

Religioso

RAFAEL ARNÁIZ BARÓN

Public Domain

“Molta gente m’interroga a proposito del silenzio della Trappa e io non so che rispondere perché il silenzio della Trappa… non è silenzio, è un concerto sublime che il mondo non avverte”.

È una delle citazioni di Raffaele Arnáiz Barón: il primo “Oblato” trappista, morto a soli 27 anni, che sia stato elevato all’onore degli altari.

Egli nasce il 9 aprile 1911 a Burgos (E), primogenito dei 4 figli che l’ingegnere forestale Raffaele Arnáiz y Sanchez de la Campa, uomo molto colto e gioviale, ebbe da Donna Maria de la Mercedes Barón Torres, sua consorte, coltissima in musica e devotissima. Tutte le mattine si recava in chiesa per prendere parte alla Messa e fare la comunione. In famiglia catechizzava personalmente i figli e li preparava alla prima comunione.

Brillante, intelligente, innamorato della vita, Raffaele studiava con profitto, dapprima in un collegio di Gesuiti a Burgos e poi nelle Asturie. Mentre si preparava a diventare un bravo architetto, nel suo cuore si fece strada un altro richiamo: spesso si immergeva in profonda preghiera perdendo il senso del tempo, portava il cilicio e talvolta preferiva dormire per terra. Il desiderio di consacrarsi totalmente al Signore si fece più concreto dopo alcune visite ad una Trappa di Cistercensi.

Fu lo zio materno ad accogliere la prima confidenza di Raffaele circa il suo desiderio di farsi monaco. I genitori, che avrebbero preferito vederlo concludere gli studi, infine si adeguarono e a soli 23 anni vestì l’abito bianco dei novizi cistercensi a San Isidro di Dueñas. Pieno di salute e di vitalità, come sempre, scrive a casa: “Ogni volta mi convinco sempre di più che Dio ha fatto la Trappa per me, e me per la Trappa”. Raffaele viveva tutto con gioia, perché nel monastero è possibile “unificarsi assolutamente e interamente alla volontà di Dio; vivere soltanto per amare e patire; essere ultimo in tutto eccetto che nell’obbedire”.

In meno di un mese, si verificò in lui il crollo improvviso della salute con l’insorgenza nel suo organismo del diabete mellito. L’abate, il P. Félix Alonso, in seguito al parere del medico, impose al novizio di ritornare in famiglia perché si sottoponesse al dovuto trattamento. In otto giorni aveva perduto 24 chili di peso. In un primo momento Raffaele si oppose con tutte le forze alla decisione presa. Difatti, singhiozzando, si avvinghiò al P. Teofilo (Francesco) Sandoval Fernàndez, suo confessore e direttore Spirituale, e gli disse: “Padre, voglio morire tra le sue braccia”.

In famiglia Raffaele superò la fase acuta del diabete abbastanza rapidamente tanto che il 31 luglio poté fare ritorno a Sant’ Isidro in occasione della festa del P. Abate, ma la speranza della guarigione era sfumata per sempre.

Amareggiato nel vedersi escluso dalla vita monastica, il 9 ottobre 1935 scrisse all’abate chiedendo la carità di essere accolto di nuovo nella Trappa come “Oblato“. Potrà così vivere nel monastero e portarne l’abito semplificato, senza l’obbligo di quelle osservanze che sarebbero risultate incompatibili con le sue condizioni di salute.

Dimorerà in infermeria con l’impegno, da parte di suo padre, di versare ai trappisti dall’11 gennaio 1936, giorno del suo ritorno, una determinata mensilità per la copertura delle spese richieste dalle cure. Col voler essere ostinatamente trappista, contro qualsiasi indicazione di prudenza umana, il Raffaele testimoniò la sua eroica fedeltà a una divina chiamata di cui era sicurissimo.

Nel suo diario spirituale scriveva: “Se il mondo immaginasse che martirio continuo è la mia vita! […] La mia vocazione è soffrire, soffrire in silenzio per il mondo intero, immolarmi in unione con Gesù per i peccati dei miei fratelli, per i sacerdoti, i missionari, per le necessità della Chiesa, per i peccati del mondo, per le necessità della mia famiglia”.

Raffaele Arnáiz Barón muore il 26 aprile 1938 dopo 19 mesi e 12 giorni di permanenza nella Trappa. Fu sepolto nel cimitero della comunità, ma dal 18 novembre 1965 egli attende la risurrezione nel sepolcro nuovo che i confratelli gli hanno eretto nella chiesa abbaziale di Sant’ Isidro.

Durante la sua esistenza Raffaele ha scritto moltissimo per esigenze del suo spirito, non in prospettiva editoriale. Le sue opere vanno a ruba e gli hanno procurato la fama di “uno dei più grandi mistici del secolo XX”.

Già avanti nel suo itinerario di grazia si lascerà sfuggire il grido:

Oramai non voglio che Dio, e la sua volontà sarà la mia… L’ansia di vedere Dio, l’impazienza dell’attesa, si perfezionano con la sottomissione assoluta alla sua volontà… Dio e la sua volontà: è l’unica realtà che occupa la mia vita”.

Vedo la sua volontà persino nelle cose più umili e piccole che mi succedono. Da tutto ricavo un insegnamento che mi serve per comprendere di più la sua misericordia verso di me. Amo svisceratamente i suoi disegni e questo mi basta”.

Vivendo sempre alla presenza di Dio, egli doveva trovare facile, sotto l’azione dello Spirito Santo, farne la volontà, abbandonarsi con gioia, anche nei momenti di ripugnanza umana e stanchezza, con Gesù sulla croce, ai disegni del Padre per la sua gloria e la salvezza del mondo.

San Giovanni Paolo II (Karol Józef Wojtyła, 1978-2005) ne riconobbe l’eroicità delle virtù il 7 settembre 1989 e lo beatificò il 27 settembre 1992; l’11 ottobre 2009, Papa Benedetto XVI (Joseph Ratzinger) lo ha proclamato Santo.

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