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La vedovanza precoce: come ricostruirsi dopo la morte del coniuge

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Edifa - pubblicato il 12/12/20

Come affrontare le difficoltà affettive, economiche e sociali, per non parlare della cura dei figli in tenera età, quando si perde il proprio marito o la propria moglie a meno di 50 anni? Come elaborare il lutto e da dove attingere la forza?

Ritardare il momento dell’addormentamento, non pensare, evitare di affrontare i ricordi per poi poter finalmente lasciare scorrere le lacrime, lontano dallo sguardo dei bambini. Sentire ancora quel dolore sul fianco, come l’amputazione di una parte di sé stessi. “Nella mente della gente, un vedovo è vecchio. Non si parla mai di vedovi giovani”, dice Olivier, 42 anni, la cui moglie è morta cinque anni fa di cancro. Quando la gente mi incontra, da solo con i miei tre figli, pensano che io sia divorziato. “La vedovanza è spesso assimilata alla terza o quarta età. Tuttavia, alcune persone diventano vedove nel periodo felice, quando si costruiscono dei progetti comuni. Come superare la scomparsa di un coniuge e tutte le difficoltà che ne derivano?

Non bisogna reprimere le proprie emozioni

Alla morte del coniuge, i giovani vedovi, maschi o femmine, passano attraverso tutte le fasi del processo di lutto, con questa componente in più: la presenza dei figli, che costringe a reagire. Nello stato di shock iniziale, devono affrontare una montagna di problemi amministrativi che devono essere affrontati con urgenza. Non esiste per loro crollare al lavoro o rinunciare alla routine quotidiana. Hanno pochi momenti e luoghi per esprimere il loro dolore. Per non parlare dei problemi economici e dell’immensa stanchezza. La morte di un coniuge è uno dei più grandi stress di una vita: notti insonni, disturbi dell’appetito, riduzione delle difese immunitarie.

Poi in un secondo momento la rabbia, la rivolta, la paura, il senso di colpa, vengono ad aggredire il coniuge rimasto solo. Alcuni si rifugiano nell’attivismo per sfuggire a questo tsunami di ricordi e sofferenze. “Per dimenticare, mi sono sovraccaricata di cose da fare”, dice Pauline, “non ho lasciato tempo per il dolore, che mi è tornato come un boomerang dopo sette anni.” Christophe Fauré, psichiatra, autore di Vivre le deuil au jour le jour (Vivere il lutto giorno dopo giorno), nota: “È molto importante non reprimere queste emozioni e parlarne con qualcuno che possa ascoltarci. È un modo di usarne l’intensità”. Poi la mancanza s’installa, con un’immensa tristezza e a volte con un periodo di depressione. Si può esprimere attraverso un dolore fisico. Marie-Claire Moissenet, autrice di Traverser le veuvage (Attraversare la vedovanza), spiega: “Mio marito era sempre alla mia sinistra, in macchina o nel nostro letto. E ora ho un dolore al braccio sinistro, come se una parte di esso fosse stato strappato”.

Sopravvivere alla solitudine

Anche quando il sollievo si fa sentire, i vedovi affrontano difficoltà ricorrenti. “Per me la cosa più difficile è il compleanno”, dice Pauline, “sono presa dall’ansia per l’arrivo di questo giorno già qualche settimana prima e ogni volta sento un enorme vuoto, un’enorme tristezza.” “Questa riattivazione del passato avviene anche diversi anni dopo la morte”, dice Christophe Fauré. “Alcuni compleanni sono più dolorosi di altri, è del tutto normale.”

La cosa più difficile è la solitudine. “Essere sola per tutto”, spiega Marie-Claire Moissenet, “sola per affrontare i problemi materiali, sola per decidere tutto, sola per l’educazione dei bambini, sola alle feste, sola nei dolori, sola la sera nel mio letto.” “La cosa peggiore è non poter mai raccontare a nessuno la propria giornata”, aggiunge Olivier. “Soprattutto le piccole cose della vita quotidiana.” Con i bambini, bisogna svolgere sia il ruolo di madre che il ruolo di padre, assumendosi gli innumerevoli compiti quotidiani – un peso ancora più grande per gli uomini.

Lo sguardo degli altri a volte manca di gentilezza e non aiuta i vedovi a trovare il loro posto nella vita sociale. L’impulso iniziale di solidarietà dura solo per poco tempo. La domenica diventa un giorno triste: “Nessuno ci invita mai a pranzo”, ammette Marc, 40 anni, vedovo da quattro anni. Vediamo le famiglie partire insieme dopo la Messa, e io parto con i miei figli e la mia solitudine. Maÿlis aggiunge: “I vedovi fanno paura, perché rappresentano la tristezza, un’immagine della morte. Ci è voluto molto tempo affinché le mie amiche capissero che non avrei portato via loro il marito. Si diffida delle donne sole bisognose d’affetto!”

Da dove trarre forza?

Come fare a resistere? “Anche se ho le lacrime agli occhi, sono obbligata ad alzarmi per via dei bambini”, spiega Anne. Sono il mio motore quotidiano per alzarmi (anche se non ho dormito di notte). Senza di loro, resterei sotto il piumone. Mi danno un’energia fenomenale. “Anche il lavoro permette di andare avanti e di pensare a qualcosa di diverso dalle domande senza risposta. “Il mio lavoro era l’angolo della mia vita dove potevo respirare e continuare come prima, senza parlare di nulla”, aggiunge Maÿlis. Altro supporto, la famiglia e gli amici. “La mia rete di amici è completamente cambiata, viene più dalla scuola, dalla parrocchia, e rappresenta per me un meraviglioso sostegno”, nota Pauline. Per Solène, alla morte del marito, il fratello ha pagato la fattura del funerale. Anche i suoi amici e il suo medico, grazie alla loro generosità sono stati di grande aiuto.

Per alcuni vedovi, la rivolta è ancora troppo forte per affidarsi a Dio. Olivier per esempio se l’è presa con Lui e ha strappato tutti i libri e gli articoli religiosi che aveva: “Trovo difficile credere nella bontà del Signore in mezzo a tutta questa sofferenza. Come possiamo dire ai bambini che Lui è Amore?” Per altri invece, la fede rimane l’aiuto essenziale. “La preghiera è sempre stata il mio pilastro della vita e la morte di mio marito non ha cambiato nulla”, confida Maÿlis, “ha solo assunto colori diversi: a volte un grido, a volte l’accettazione, il Fiat o il Magnificat, secondo le stagioni del cuore. Non mi impedisce di soffrire, ma mi mantiene nella pace.” Pauline ha un gruppo di preghiera delle madri che la fa sentire in pace: “Non mi preoccupo per i miei figli, appartengono al Signore”.

Il legame con il proprio coniuge evolve gradualmente in una forma di unione spirituale, e molti vedovi ne traggono forza. “Mi affido completamente a lui”, confida Maÿlis, “Lo prego sempre. Quando le cose non vanno bene, grido: “Occupati dei tuoi figli! La morte non prevale sull’amore.” Marie-Claire Moissenet conferma: “È sempre con me, come una forza amorevole e rasserenante. Lo prego e a volte gli scrivo quando ho bisogno di lui”. Pio XII, in un discorso alle vedove, disse nel 1957: “La morte, anziché distruggere i legami d’amore umano e soprannaturale contratti con il matrimonio, può perfezionarli e rafforzarli. Ciò che costituiva la sua anima, che le dava forza e bellezza, rimane”.

Atteggiamenti interni che permettono una rinascita

Alla fine, la guarigione arriva, ma ci vuole tempo. “La vita quotidiana torna alla normalità”, dice Solène, “la stanchezza e la tristezza svaniscono, anche se mio marito mi manca ancora. Bisogna essere molto pazienti con sé stessi e si ha il diritto di sentirsi male, tre o sette anni dopo.” Per Christophe Fauré, il ritrovare interesse per il mondo esterno e per gli altri, accettare senza amarezza che gli altri sono felici, elaborare progetti, sono tutti segni di un rinnovamento.

Alcuni atteggiamenti interiori rendono possibile questa rinascita. “Dalla morte di mio marito, vivo molto di più nel presente. Sono diventata più semplice e con i piedi per terra”, dice Anne. Altri decidono di vivere una vita più altruista: “Ripiegarsi su sé stessi non porta da nessuna parte”, dice Marie-Claire Moissenet. Il vero rimedio alla solitudine è donarsi agli altri. I gruppi di incontro sono luoghi dove si può dire tutto ed essere compresi. Infatti, per Christophe Fauré, “queste condivisioni aiutano ciascuno a reinvestire la propria vita e ad adattarsi al trauma della perdita”. Questi scambi rompono l’isolamento e creano legami calorosi tra i partecipanti. Sono luoghi di guarigione e di speranza.”

L’idea di “rifarsi una vita”, di prevedere un nuovo matrimonio, s’impone in modo legittimo, a volte dopo qualche anno. Ma Maÿlis mette in guardia da un’eccessiva preciposità: “Ho visto delle coppie formarsi molto rapidamente dopo un decesso, e rompere dopo uno o due anni. Non hanno avuto il tempo di fare il lutto e l’altro in realtà è solo una stampella per la loro solitudine”.

Dare un senso alla propria prova rimane la tappa finale della rinascita per trovare la vera pace. Passare dal “perché?” al “per che cosa”? Marie-Claire Moissenet precisa: “Comprendiamo che la sofferenza non è voluta da Dio. Ma Cristo “approfitta” del male per indirizzare l’uomo verso Dio. Spetta a ciascuno discernere l’impercettibile chiamata che decide il successivo orientamento di questa vedovanza”.

Florence Brière-Loth

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