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La chiave per realizzarsi ed essere felice nel lavoro

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Edifa - pubblicato il 26/06/20

Il lavoro occupa la maggior parte della nostra esistenza. Se è motivante, può essere fonte di straordinaria realizzazione. Ma che fare quando è noioso e bisogna sopportarlo? Anche in questo caso, essere felici facendo il proprio lavoro è ancora possibile...ma solo a certe condizioni!

di Annonciade Fougeron

“Non vedo l’ora che arrivi il lunedì!” Poche persone, a meno che non abbiano dei problemi da risolvere a casa, potrebbero negarsi questo pensiero ogni domenica sera. Eppure il lavoro può essere una fonte di felicità quotidiana: Jean-Paul Guedj, consulente manageriale, spiega in che modo.

Nel suo libro “Vive le lundi! Connaître le bonheur au travail”, (Evviva il lunedì ! Trovare la felicità al lavoro), si citano numerose testimonianze di persone felici nel lavoro. Cos’hanno in comune?

Ho incontrato molti professionisti felici in tutti i settori d’attività, dalla donna delle pulizie al grande capo. Cos’hanno in comune? Il loro tempo trascorso al lavoro non è sofferto, ma gustato. Se amano i fine settimana in famiglia, la ripresa il lunedì è facile, diventa parte integrante della loro vita. Amano il loro mestiere perché vi trovano spunti per la loro felicità; la sensazione di essere utili, la libertà d’iniziativa, l’interesse ed il piacere di un lavoro ben fatto. Le due principali fonti di soddisfazione vengono dall’essere riconosciuti dalla gerarchia e dalla loro autonomia.

Quali sono i fattori che favoriscono la realizzazione personale nel lavoro?

A parte la ragione economica del guadagnarsi da vivere, la prima condizione è l’auto-realizzazione, che si ottiene attraverso l’esercizio di una professione coerente con le proprie capacità personali. La seconda è la motivazione che nasce dal ricco e stimolante rapporto con il capo “educatore”. Il collaboratore apprezza quest’ultimo e migliora le sue prestazioni. Questo scambio rende chiaro sia il suo valore che la sua collocazione all’interno dell’azienda. Infine, il rapporto con i colleghi, il sentimento di appartenenza ad un gruppo a cui il professionista aderisce attraverso rituali (pranzi, compleanni, relazioni personali, incontri) e valori (umanità, performance, efficienza), costituiscono il terzo fattore di benessere.

Tuttavia, la sofferenza psicologica e il dolore fisico a volte sostituiscono questo benessere

Come indica la sua etimologia, in francese “travail” (lavoro) (dal latino tripalium, strumento di tortura a tre paletti) contiene la nozione di sofferenza, legata al superamento di sé stessi, alla sfida, alla performance, alla secrezione di adrenalina. Questo sforzo, che io chiamo “mettersi alla prova” e prova della sua esistenza, porta del piacere se viene vissuto e ripetuto ogni giorno senza noia e stanchezza.

I mali psichici o fisici sul lavoro riguardano un malessere contemporaneo che colpisce alcune aziende. Si può spiegare in tre modi: la gestione a breve termine con la ricerca del profitto immediato, la disorganizzazione cioè l’impressione di un sistema confuso che naviga insieme alle turbolenze del mercato, l’orario di lavoro che si ha l’impressione di subire.

Quando inizia la demotivazione, dobbiamo armarci di coraggio per recuperare le nostre energie oppure cercare un altro lavoro?

Troppe persone si lasciano trascinare nella sofferenza e ci si abituano, a volte per paura di essere licenziati. Se il lavoro diventa insopportabile perché ci pone di fronte a situazioni intollerabili (direzione con richieste impossibili, molestie morali, discriminazione, lavoro senza senso), si deve fermare questo processo masochista: o il professionista negozia con i suoi superiori un altro modo di lavorare, un nuovo lavoro che corrisponde ai suoi desideri e alle sue capacità, oppure ha tutto l’interesse a cercare un altro lavoro. Anche se questo è difficile e a volte ci vuole coraggio per andarsene, o anche per orientarsi diversamente.

In realtà, la felicità nasce spesso da una nuova concezione della propria professione. Quando la noia e l’inerzia si manifestano, si possono disinnescare mostrandosi positivi e riconsiderando il proprio lavoro. Si tratta di individuare nicchie di piacere: le relazioni soddisfacenti tra colleghi, prospettive di carriera che si rendono possibili o l’interesse per il compito da svolgere. Una persona troverà maggiore realizzazione nello scrivere, un’altra nell’organizzazione, ognuno deve cercare di sviluppare la propria posizione, ove possibile, tenendo conto degli imperativi dell’azienda. È essenziale parlare con il proprio manager dei propri gusti, successi e risorse. Non esitare a praticare l’esercizio del mettersi in discussione almeno una volta all’anno, prima con sé stessi, poi con i superiori, ad esempio attraverso un colloquio di valutazione annuale.

Fino a che punto si dove desiderare di voler crescere nella gerarchia, soddisfare il proprio bisogno di responsabilità o assumersi dei rischi?

Tutto dipende dalla persona. Se da una parte una promozione migliora l’immagine e aumenta lo stipendio, richiede altresì interessi, attitudini, capacità di decidere, leadership, organizzazione che non tutti hanno. Questo cambiamento può portare a stress difficili da sopportare, rischi di incompetenza e sofferenza. Molti tecnici, dopo essere stati promossi a manager, ritornano al loro primo status: è essenziale analizzare i propri desideri. “Conosci te stesso”, consiglia Socrate, “e saprai dove vai!”

Trovare piacere nel proprio lavoro richiede una “vocazione” a priori?

L’insegnamento, la medicina, l’arte o la cucina sono sicuramente una vocazione, una possibilità, che non impedisce però di evitare incidenti di percorso e una certa delusione legata al risultato. È infatti la ricerca stimolante, non il raggiungimento della felicità, che porta piacere nel lavoro e in realtà il potenziale di creatività è tale che la felicità può essere trovata in una vasta gamma di attività.

“Cosa fai nella vita? “è una delle prime domande che ci poniamo quando vogliamo conoscerci meglio. Ogni percorso di carriera fa parte della costruzione della persona e la realizzazione avviene quando c’è coerenza tra il lavoro, la personalità e le aspirazioni più profonde dell’individuo. Un’infermiera comunicherà di più con i suoi pazienti, un’altra privilegerà l’azione paramedica.

Nel rapporto con il suo lavoro il professionista è più libero di quanto pensi ed ogni professione conserva un margine di manovra, una possibilità di adattamento e di creatività. Ad esempio, se un funzionario, in assenza del suo capo, accetterà un accordo di principio per un contratto commerciale potrà, a contatto con gli utenti, scegliere di applicare alcune norme nello spirito piuttosto che alla lettera.

Il filosofo Confucio scriveva: “Scegli un lavoro che ami e non dovrai lavorare un solo giorno nella tua vita”. Anche quando viene scelto di default, un lavoro è fatto al meglio quando la persona che lo fa apprezza la sua attività e dà sé stesso senza badare a quanto gli costa.

Lei paragona il lavoro ad un gioco. Bisogna tornare ad essere un po’ bambini per essere felici in un’impresa?

Se non vuole diventare noioso, il lavoro, anche se imposto, deve essere un po’ giocoso. Includo nel gioco: l’umorismo, i rapporti leggeri intrattenuti con i colleghi, la nozione di creatività (inventiva, innovazione), un po’ di distacco dalla realtà. I bravi venditori si divertono a negoziare con i clienti “giocando” invece di prendere troppo seriamente il loro ruolo.

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