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Trisomia 21: come vivevano questa malattia le famiglie 40 anni fa

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Edifa - pubblicato il 20/03/20

La testimonianza di una madre di famiglia che ha vissuto questa malattia del figlio negli Anni '80. Una storia che rivela bene l'atmosfera l'atmosfera che si respirava all'epoca

di Danielle Liard

A più di 60 anni dalla scoperta dell’anomalia cromosomica responsabile della Trisomia 21 da parte della équipe del Dr. Jérôme Lejeune nel 1959 sono stati fatti molti progressi su questa malattia. Anche se resta ancora molto da fare, questa scoperta ha portato a una migliore comprensione del funzionamento cerebrale e fisiologico delle persone con Sindrome di Down e ha aperto molte strade per i ricercatori. Dal punto di vista terapeutico, anche se non esiste ancora una cura, è possibile prevenire o trattare la maggior parte delle complicazioni che porta con sé questa malattia e che possono aggravare l’handicap mentale, come le malattie cardiache, l’epilessia, i disturbi dell’orecchio, del naso e della gola e i vari problemi respiratori, tra cui l’apnea del sonno e le difficoltà linguistiche. Con i progressi della medicina e del monitoraggio paramedico la qualità così come l’aspettativa di vita delle persone con questa sindrome è migliorata notevolmente. Il lavoro di numerose associazioni ha contribuito ad un cambiamento del modo di guardare le persone con Sindrome di Down. Anche se la malattia porta a una deficienza intellettuale più o meno significativa, ciò non impedisce alle persone con questa disabilità di diventare indipendenti e di vivere una vita pressoché “ordinaria”: la loro integrazione nel mondo del lavoro, negli ultimi anni, ne è una buona prova.

Tuttavia, 40 anni fa, la situazione era molto diversa. Temere, ignorare, escludere o proteggere le persone affette da trisomia 21… Queste emozioni, atteggiamenti e comportamenti hanno in effetti guidato a lungo la percezione della più gran parte del pubblico. Il racconto di una madre di famiglia, negli anni Ottanta, è una testimonianza di questa diffidenza. Nonostante la paura della malattia e dell’ignoto, questa madre di sette figli anticipava e vedeva già la situazione dei bambini con questa sindrome. Una testimonianza toccante che può aiutare i genitori del XXI° secolo a vivere meglio la malattia del figlio nella fede e nella speranza.

“Quando Paolo è nato, ci è stato annunciato che aveva la Sindrome di Down. È stato tra la vita e la morte per quattro mesi, in questa incertezza ho desiderato più volte che questo povero piccolo se ne andasse e che questo calice si allontanasse da noi, e allo stesso tempo credevo che, per noi, la vita stesse per finire. Era come se l’immagine della nostra famiglia fosse stata sfregiata, ma era assolutamente sciocco pensare in quel modo e ora, quando ci ripenso, lo trovo così grottesco e infantile. Era un handicap, sì, ma tutto sommato piccolo. Sapete, è solo un fallimento della natura e quando la vediamo nella luce dello Spirito Santo, si guarda la vita in un modo diverso, quindi bisogna sdrammatizzare ed accettare di avere un figlio disabile.

“Ci ha costretti ad uscire da noi stessi”

Con sei figli prima di Paolo, avevo una solida esperienza ma nonostante ciò, ho dovuto reinventarmi. Ero una madre, sono diventata un’educatrice specializzata e così ho cercato di avvicinarmi a Paolo dall’interno e di credere nelle sue grandi capacità. Per farlo, tutti si sono rimboccati le maniche e ancora una volta abbiamo preso la vita come viene e abbiamo accettato di essere là dove il Signore ci aveva messo. Il nostro bambino trisomico è un’opportunità che ha i suoi inconvenienti, è una grazia ricevuta ogni giorno, una grazia a volte molto pesante, ma che ci ha permesso di raggiungere una dimensione di maternità e di paternità che nessun altro bambino “normale” può dare. Quando parlo di grazia non intendo a livello materiale, ma spirituale.

Paolo ha semplicemente cambiato lo spirito della nostra famiglia. Non abbiamo più avuto lo stesso sguardo su chi soffre e abbiamo vissuto molto più intensamente. Meno spensierati, forse, molto più rivolti verso gli altri e aggiungerei che Paolo è stato una necessità per combattere il materialismo e l’egoismo che ci circonda e ci ha costretti ad uscire da noi stessi. Ovviamente, se non avessimo avuto una famiglia cristiana e genitori come i nostri, non avremmo potuto superare tutte le difficoltà con le quali ci siamo confrontati.

“Abbiamo dovuto pensare al “dopo di noi”

Prima di tutto, dobbiamo sapere cosa possiamo sperare da un figlio con la Sindrome di Down senza illuderci ma neanche minimizzare le sue capacità. Per lui, tutto ciò che è concreto è possibile, mentre l’astratto è fuori dalla sua portata. Da adulto, il suo livello mentale non potrà superare quello che si raggiunge all’età di otto o nove anni, così, dopo tanto amore e tenacia, abbiamo ricevuto il suo primo sorriso con meraviglia. Con lui, tutto prende molto tempo… Quando ha camminato, a due anni e mezzo, eravamo contenti, ammirati e completamente stupiti. Non ci siamo mai scoraggiati, tutti i genitori devono avere il coraggio di aspettare e di dire a sé stessi che il loro figlio è capace, che può farcela, anche se ci vuole un anno o due, ad una sola condizione: non essere utopici.

Quando Paolo è cresciuto, abbiamo voluto integrarlo il più possibile nella vita di tutti i giorni: ora va a scuola, in una scuola normale il che gli fa molto bene, è in una classe differenziata, ma in questa scuola vive la stessa vita degli altri bambini. Di tanto in tanto va anche a dormire in una famiglia dove i bambini non sono portatori di handicap, perché vogliamo che abbia una certa autonomia. Questo è essenziale! Così è andato in un campo estivo per otto giorni. Ho respirato un po’, ma mi mancava qualcosa, il mio compagno di tutti i giorni. Sto forse diventando egoista?

Sappiamo bene che, d’ora in poi, dobbiamo pensare al “dopo di noi” e preparare Paolo a questa separazione. Un giorno gli ho detto: “Bisognerà lasciarci quando avrai 20-25 anni” e ha capito molto bene. Perché purtroppo dovrà essere collocato, e ce ne stiamo occupando già ora.

Ai vecchi tempi in ogni villaggio c’era un trisomico che faceva parte della vita quotidiana ed era accettato ovunque. Oggi, per la cosiddetta carità e la preoccupazione per gli altri, sono stati creati per loro dei “ghetti” specializzati, ma se posso dirlo non staranno mai così bene come in un ambiente “normale”. C’è, naturalmente handicap e handicap, ancora una volta questo va ridimensionato e penso che sia solo il loro aspetto fisico ad essere responsabile di questo rifiuto. Certo, non possiamo dire di non avere preoccupazioni per il futuro, ma la Provvidenza non manda mai una prova senza inviare le grazie che permettono di superarla e queste grazie sono lì a portata di mano.

“Siamo stati molto fortunati”

Mio figlio non è stupido, infatti quando fece la sua prima comunione capì molto bene che stava ricevendo Gesù nel suo cuore. A volte ci stupiscono le sue riflessioni, per esempio un giorno guardando la stazione della Via Crucis dove Gesù è caduto per la seconda volta disse: “Vado a dire al re dei Giudei di non maltrattare Gesù”. Eravamo stupefatti. La cosa stupenda di questi bambini è che sono molto più diretti degli altri e non hanno falso pudore, vanno all’essenziale, alle cose semplici.

Quello che mi fa male è che non ha amici, lo capisco molto bene e non biasimo nessuno, ma vorrei così tanto che facesse parte di un gruppo. In un certo senso è vero che non è in grado di giocare a calcio ma, per esempio, si potrebbe insegnargli a fare il portiere … È così semplice amare, sorridere alla vita. Penso che siamo molto fortunati e abbiamo una vita appassionante, ed è solo tempo sprecato se l’amore è assente, non credete?

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