Non a torto, abbiamo tutti paura di invecchiare. Fare della nostra vecchiaia un tempo felice, fruttuoso e positivo non è così facile, ma è possibile, bisogna solo volerlo e seguire alcune regole.
di Anna Latron
La nostra società non ci aiuta ad invecchiare, perché è totalmente focalizzata sui valori della prima parte della vita: efficienza, produttività, apparenza… La generazione che entra nella seconda parte si trova così di fronte ad un’immagine talmente svalutata della vecchiaia che può attraversare un periodo di depressione, nota come “depressione dell’anziano”. Questo passaggio, abbastanza normale, significa che bisogna riorganizzare la propria vita, fermarsi ed affrontare il tempo restante con serenità. Ma questa depressione è tanto più difficile da superare perché oggi la vecchiaia, prolungandosi sempre più nel tempo, fa paura. Quindi ci chiediamo come vivere questa longevità, temiamo quella che viene chiamata “una brutta vecchiaia”: la paura di essere un peso per la società, di essere soli, abbandonati, dipendenti, la paura della malattia e soprattutto del morbo di Alzheimer. L’opinione di Marie de Hennezel, (medico e psicologa, che ha sviluppato, tra l’altro, l’accompagnamento delle persone in fin di vita) è che, anche se inevitabile, la vecchiaia non ci condanna alla solitudine o al declino, ma è possibile invecchiare felicemente, una volta superate le nostre paure.
Siamo tentati di fuggire la vecchiaia? Come?
Facciamo un esempio, forse un po’ caricaturale: il film Mamma Mia! mostra donne sessantenni la cui ossessione è quella di essere come le loro figlie trentenni. Si vestono come loro, ballano come loro, fanno ginnastica come loro… anche se è molto divertente, questo film in fondo è patetico. Certo, a 60 anni bisogna curare il proprio aspetto, ma non come i propri figli! L’altra tentazione è quella, lamentandosi ogni giorno, di sprofondare gradualmente nella depressione a forza di ripetere che invecchiare è orribile e col pretesto di essere oggettivi, si scivola lentamente nella depressione da cui è molto difficile uscirne.
Ma non è naturale avere paura di invecchiare?
In un certo senso sì, perché per esempio fisicamente le donne constatano gradualmente di attirare meno gli sguardi e non è divertente. Devono riconsiderare l’immagine di sé: c’è da fare una vera e propria revisione narcisistica, ma è solamente un passaggio: all’età di 70 anni, hanno superato questa fase e si accettano così come sono. Lo sviluppo della loro vita interiore e la gioia di relazionarsi danno loro un nuovo splendore. Suor Emmanuelle diceva sempre che da giovane era piuttosto civettuola, poi, a contatto con gli indigenti, si è completamente allontanata da questa preoccupazione per l’apparenza. Quando l’ho intervistata sulla vecchiaia, si stava avvicinando al suo centesimo compleanno, aveva tutti i segni della vecchiaia e allo stesso tempo aveva una luminosità interiore e una straordinaria vitalità. Ha vissuto questo paradosso: mentre lei avanzava verso la fine della sua vita, l’uomo esteriore diminuiva, l’uomo interiore cresceva. Questo è il senso delle parole di San Paolo: “Anche se l’uomo esteriore dentro di noi va alla sua rovina, l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno” (2 Cor 4, 16).
Come possiamo superare la paura di invecchiare?
Prima di tutto, bisogna dare un nome alle proprie paure: la solitudine, che emerge spesso perché, con l’avanzare dell’età, una persona anziana dovrà vivere sempre più esperienze da sola. Se sta bene con se stessa, se ha sviluppato una vita interiore, non si sentirà sola e questo problema potrà essere risolto in anticipo, imparando ad avere momenti di solitudine, invece di essere sempre in agitazione.
Lei crede che una vecchiaia felice sia il risultato del lavoro su se stessi. Ha qualche esempio?
Prima di tutto, bisogna accettare di essere mortali, le persone che hanno paura della morte, e che non sono consapevoli che è inevitabile, sono molto fragili. Vivere con la consapevolezza della nostra mortalità porta necessariamente a pacificare la propria vita e in questo lavoro ci rendiamo conto che siamo appesantiti dal passato; le chiamo le tre “R”: rimpianti, rimorsi, risentimenti. Quando si invecchia con troppe questioni irrisolte, si è sulla strada sbagliata, perché invecchiando ci ritroviamo sempre più soli con noi stessi e queste domande diventano pesi sempre più gravosi da portare. Questo appesantirsi manifesta un immagine alterata della vecchiaia, quella di persone anziane che si lamentano e recriminano continuamente.
Con l’avanzare dell’età c’è la necessità di fare una certa ‘pulizia’ nella propria vita e quando è fatta, ci si sente più leggeri, si sperimenta una nuova libertà. Quindi, prima la si fa, meglio è! In quest’impresa, i cristiani hanno a disposizione uno strumento, il sacramento della riconciliazione, che spinge a guardare e a liberare la propria vita. Vediamo allora cosa dobbiamo perdonare agli altri e cosa dobbiamo perdonare a noi stessi, questo sacramento permette di rinnovare la fiducia ponendosi sotto lo sguardo di Dio.
Secondo lei, per evitare di invecchiare male, bisogna “lavorare sulla propria ombra”. Cosa significa questo?
L’ombra è un concetto di Jung che designa tutto ciò che abbiamo represso: rimpianti, rimorsi, ma anche aggressività e rabbia. Lavorare sulla propria ombra è come lavorare su se stessi, bisogna far uscire la propria rabbia, perché se non ci si confronta abbastanza presto, verrà fuori più tardi e sotto forma di delirio. Così, una persona molto anziana può cambiare comportamento da un giorno all’altro. L’ombra contiene tutto il negativo in sé, ma anche tutto il potenziale. Per esempio, alcune persone, alla fine della loro vita, hanno un immenso bisogno di affetto e di tenerezza e questo bisogno può essere molto disorientante per i figli che non sono stati abituati a ciò dai loro genitori: si tratta dell’emersione dall’ombra. Sono convinta che sia importante essere consapevoli della propria ombra, non importa come lo si fa: psicoanalisi, tempo di solitudine, ritiri, e così via, andare incontro alla propria ombra fa parte del necessario lavoro su se stessi.
In questo processo, la fede può aiutare?
Se questa fede è vissuta e approfondita, ovviamente! Distinguo fortemente la fede dalla credulità, che è come una stampella, perché non è integrata nella vita. La fede è fiducia in Dio, nel mistero della vita e della morte, la fede cristiana si basa su testi e ovviamente sulla Risurrezione: se è stata vissuta veramente, aiuterà la persona nel cammino della vecchiaia.
Gli anziani molto credenti sono meno difficili?
Non mi ero mai posta questa domanda, ma credo di sì! Per l’anziano che crede, c’è un aldilà e ciò lo rende non completamente centrato su se stesso, quindi meno irascibile. In sostanza, tutta l’avventura della vecchiaia è un’apertura al di là di se stessi e la preghiera offre questa incredibile apertura agli anziani. Molti di loro mi dicono che non si sentono soli perché si occupano/prendono carico di tutte le persone che amano nella loro preghiera. I racconti della Bibbia che ritraggono la vecchiaia mostrano la fecondità dell’uomo anche in età avanzata: per esempio Simeone, Zaccaria o Abramo. Queste figure bibliche danno un’immagine luminosa della vecchiaia, di cui oggi c’è molto bisogno. Nella fede cristiana c’è questa promessa: che la vita è più forte della morte e senza parlare di fede in senso stretto, la spiritualità permette di vivere la vecchiaia come una crescita e non come un naufragio.