I cavalieri della Tavola Rotonda, gentili, cortesi e difensori degli oppressi?
Con ogni probabilità, a inventarli fu la Chiesa: o, quantomeno, è ciò che affermano molti storici, ritenendo che le gerarchie ecclesiastiche abbiano avuto un ruolo non indifferente nel plasmare e diffondere quell’idea di “cavaliere dal cuore buono, senza macchia e senza paura” che ancor oggi ci emoziona e riempie di profondità i protagonisti dei nostri romanzi preferiti.
Il Perfetto Cavaliere? A plasmarlo, fu la Chiesa medievale!
Effettivamente, fino alla fine del XII secolo, il termine “cavalleria” era utilizzato per indicare un set di virtù che avevano strettamente a che vedere con la performance del cavaliere sul campo di battaglia. Il “vero cavaliere” era quel combattente che non indietreggiava di fronte al nemico, proteggeva i suoi compagni d’arme, combatteva strenuamente fino all’ultimo respiro e coniugava alla prestanza fisica una appropriata dose d’astuzia… ma nessuno si interessava a che tipo d’uomo fosse il cavaliere dopo che s’era tolto l’armatura. Certo, esisteva un comune consenso sui requisiti-base che doveva avere un uomo armato per non essere una pessima persona (che ne so: non doveva andarsene in giro a saccheggiar villaggi e violentare donne forte di essere più forte); ma nulla più.
All’epoca, nessuno utilizzava il termine “cavalleria” per descrivere il modus vivendi di un uomo che adotta comportamenti nobili e altruisti e mostra d’essere un individuo di buon cuore. Questo tipo di virtù cominciò a essere apprezzato dagli uomini d’arme solamente a partire dal XII secolo, proprio nello stesso periodo in cui i sacerdoti cominciavano a tuonare dai pulpiti per condannare il clima di eccessiva violenza che in si stava diffondendo, e che sembrava sul punto di poter trasformare l’Europa in una terra di nessuno dove vige la legge del più forte. A suon di prediche, catechesi e scritti moralizzanti, la Chiesa riuscì pian piano a far passare il messaggio per cui, se si ha la fortuna di essere uomini ricchi, forti e capaci di difendersi attraverso l’uso delle armi, sarà bene mettere a frutto questa condizione di privilegio ponendosi al servizio dei più deboli; e cioè, proteggendo chi non può difendersi da sé e soccorrendo con altruismo chi si trova in un momento di bisogno. Questo sì che sarebbe un modo santo e intelligente di dimostrare il proprio valore senza dover far la guerra al vicino di casa!, esclamavano i predicatori di quel tempo.
E, pian piano, la gente cominciò ad apprezzare questa proposta. Fu così che la Chiesa finì con l’inventare “il perfetto cavaliere”, indicando agli uomini la via per un uso buono e santo del loro spirito guerresco.
La cavalleria: una virtù obsoleta? Ma proprio no!
Qualcuno potrebbe dire che, ai giorni nostri, i cavalieri non esistono più; o che, tutt’al più, gli uomini ricorrono alla cavalleria solamente nella speranza di far colpo sulle donne che stanno cercando di conquistare. Ma veramente la cavalleria è una virtù del passato, che ormai ha nulla da insegnare agli uomini moderni?
Si pone questa domanda Giovanni Ventimiglia, filosofo ed esperto di teologia tomista, che qualche anno fa ha curato una raccolta di riflessioni dedicata proprio alle Virtù antiche: quelle che oggi sembrano obliate, persino obsolete e inutili… e che, invece, forse non lo sono affatto. A giudizio dell’intellettuale, i valori cavallereschi rientrano a buon diritto nel novero di quelle virtù dimenticate che però sarebbe bene riscoprire – e sarebbe bene farlo innanzi tutto perché «sarebbe ipocrita non riconoscere, specialmente nel maschio, un’antica, ancestrale aggressività», per citare le sue parole.
In fin dei conti, almeno in certa misura, si tratta d’una questione biologica, ormonale: il che, naturalmente, non legittima gli uomini ad andarsene in giro a menar botte solo perché “siamo fatti così”… ma non legittima nemmeno i loro interlocutori a ignorare totalmente questo tratto caratteriale, presente in buon numero di maschi. Giovanni Ventimiglia ha invece il sospetto «che una certa cultura cristiana ipocritamente buonista abbia bandito dalla coscienza l’aggressività maschile, bollandola a priori come negativa».
Problema risolto? Gli uomini cristiani sono riusciti tutti quanti a emendare il loro carattere, liberandosi una volta per tutte di quell’aggressività che è stato comandato loro di disprezzare? In realtà, non si direbbe proprio: anzi – nota Ventimiglia – «questa forza è finita nell’inconscio, pronta a esplodere all’improvviso, in modo imprevedibile, incontrollato e dannoso».
Tornare a essere tutti quanti un po’ più cavalieri potrebbe essere la soluzione? A giudizio del filosofo, probabilmente sì: «la cavalleria rappresenta la virtù di chi, invece, ha deciso di riconoscere la propria aggressività e, quindi, di educarla, indirizzandola verso il bene, cioè verso la difesa dei deboli».
Per essere ancor più espliciti, la cavalleria è «la forza virile a servizio dei deboli». Mica poco!
Certo: il Medioevo è finito da un pezzo, e non esistono più le guerre combattute a cavallo in armature scintillanti. Ma non per questo la nostra società ha smesso d’avere bisogno dei cavalieri: «ho l’impressione», dice Ventimiglia, «che di questa virtù antica, all’apparenza fuori moda, vi sia un grande bisogno oggi, al tempo del bullismo, dove branchi di cavalieri da strapazzo uniscono le loro forze contro i deboli e non, come un tempo, in loro difesa».
Ma non solo. A un livello più profondo, il filosofo ritiene che ve ne sia gran bisogno, oggi, «specie tra gli uomini, smarriti in mezzo a modelli di maschi virili ma non gentili, e di maschi gentili ma non virili». Non siamo di fronte a due tratti antitetici e in perenne contrapposizione: anzi; la cavalleria è proprio la virtù che ricompone questo dissidio, mostrando agli uomini che è possibile essere l’uno e l’altro, e anzi esserlo in un sistema armonico e coeso. Se volessimo fare uso di retorica, potremmo dire che la cavalleria è forza delicata e aggressività gentile. Oppure, per citare le parole del filosofo: «è un modo virile di prendersi cura degli altri».