Krisis in greco significa sia giudizio che scelta. E questo spiega perché i tempi di crisi siano anche tempi in cui siamo chiamati a fare scelte piuttosto nette. Quanto al secondo significato della parola «crisi», cioè il giudizio, Fulton Sheen lo spiega così: «Ogni crisi storica è una prefigurazione del Giorno del Giudizio. La crisi non crea il carattere: lo rivela».
Per questo i tempi di crisi sono associati a grandi polarizzazioni: l’indifferenza, la ricerca di una zona grigia (o, meglio, di una comfort zone) vuol dire già aver scelto da che parte stare. Tempo di prova, il momento della crisi fa cadere ogni maschera e mostra quale sia la reale tempra di ogni animo. In tempi ordinari, spiega sempre Fulton Sheen, ognuno di noi ha un essere superficiale (ciò che crediamo di essere o come speriamo di apparire agli occhi degli altri) e un essere reale (ciò che siamo in effetti). La crisi – inutile dirlo – fa emergere il nostro essere reale e spazza via quello superficiale. In termini evangelici diremmo che svela i pensieri di molti cuori.
Essenziale e superfluo nelle parole di un martire
«La capacità di distinguere il bene dal male comincia da qui: separare l'essenziale dal superfluo». Sono parole che fanno eco a quelle di Fulton Sheen. A scriverle, molti anni fa, un uomo che proprio in un momento critico rivelava al mondo il suo essere reale, la sua anima più profonda. Quella che lo spinse a seguire l’appello della coscienza. Come aveva fatto un anno e mezzo prima un altro uomo che parlava la sua stessa lingua: Franz Jägerstätter, il contadino austriaco martirizzato per aver detto “no” a Hitler rifiutando di giurare fedeltà al Führer.
Franz Jägerstätter parlava la stessa lingua ma non condivideva più la cittadinanza di Josef Mayr-Nusser, detto «Pepi» (o Peppi). Josef infatti era altoatesino: veniva da Bolzano, dove aveva visto la luce alla fine del 1910. Era nato e cresciuto cioè in Alto Adige (o Sudtirolo), la terra annessa all’Italia dopo la Prima guerra mondiale con la fine dell’Impero Asburgico e dell’antico Tirolo, che dalla metà del XIV secolo aveva fatto capo alla dinastia asburgica.
I due, Jägerstätter e Mayr-Nusser, condivideranno qualcosa di ben più profondo: la lingua della carità, il martirio, la testimonianza cristiana davanti a una religione politica fondata sull’odio, il “sì” a Cristo e il “no” a Hitler.
Un cristiano in tempo di crisi
Josef Mayr-Nusser, contabile con la passione per l’astronomia e le scienze naturali, vive uno dei periodi più tormentati della sua regione: quello della sconsiderata politica fascista, prima, dell’occupazione nazista, poi. In mezzo ci saranno le cosiddette «Opzioni», un accordo tra il Reich e il regime mussoliniano che dava la possibilità, agli altoatesini che non sopportavano più il giogo fascista, di optare appunto per la cittadinanza tedesca, trasferendosi nel Reich hitleriano. Bisogna sapere infatti che in Alto Adige il regime fascista aveva avviato una aggressiva politica di italianizzazione arrivando a eliminare l’uso della lingua tedesca nelle scuole e nei luoghi pubblici. In più i fascisti avevano favorito l’immigrazione in provincia di Bolzano di gruppi di operai e di famiglie italiane, nel tentativo di rovesciare i rapporti di forza numerici tra i gruppi linguistici.
Una questione quella altoatesina che, come è facile capire, rischiava di incrinare i rapporti tra Roma e Berlino. Così nel giugno 1939 maturano, nella sede del comando SS di Berlino, le Opzioni. L’accordo, siglato a Roma, dà tempo alla popolazione altoatesina da ottobre fino al 31 dicembre 1939 per fare la sua scelta.
Dare testimonianza, l’arma più efficace
Tra le poche associazioni che si oppongono a entrambe le propagande – quella fascista e quella nazionalsocialista – ci sono l’Azione Cattolica e la lega Andreas Hofer (dedicata all’eroe nazionale del Sudtirolo, che capeggiò la grande lotta di liberazione del 1809). Josef Mayr-Nusser fa parte sia dell’una che dell’altra. È uno dei pochi a scegliere la cittadinanza italiana. Circa l’85% della popolazione altoatesina opta infatti per la Germania. Un rapporto che si inverte tra il clero, che sceglie in una percentuale tra l’80 e il 90 per cento di restare a casa, nella propria Heimat (Heimat ha la stessa radice di Heim, «casa»).
«Pepi», presidente diocesano della sezione giovanile maschile dell’Azione Cattolica, però non si è fermato alla propaganda con cui i nazisti ingannano il popolo, promettendogli la liberazione dall’oppressione. Sia lui che i suoi amici hanno letto il Mein Kampf e il Mito del XX secolo di Alfred Rosenberg. Hanno studiato con attenzione la dottrina nazionalsocialista. E hanno compreso alla perfezione che tra Cristo e Hitler, tra le Beatitudini e il Führerprinzip non c’è conciliazione possibile. O la croce o la svastica. «Intorno a noi c’è buio», scrive Josef all’inizio del 1938. «In questa situazione dobbiamo dare testimonianza e vincere questo buio… Dare testimonianza oggi è la nostra unica arma, la più efficace».
Una resistenza in nome del Sacro Cuore
Il tempo di dare testimonianza non tarderà. Mayr-Nusser – che dal 1932 fa parte anche della conferenza di San Vincenzo – si forma attraverso le figure di Tommaso Moro o di Peter Mayr (un altro degli eroi delle guerre di liberazione hoferiane), tutti e due uccisi per aver obbedito alla coscienza e non ai diktat del potere politico. Altra figura ispiratrice è quella di Federico Ozanam (cara alla San Vincenzo). Da sempre divoratore di libri, tra gli autori preferiti di Josef ci sono anche Tommaso d’Aquino e Romano Guardini. Ha pure una familiarità non comune, per quell’epoca, con la Scrittura.
Come avvenuto più volte nei momenti di crisi per il Tirolo, anche lui rinnoverà il voto di fedeltà al Sacro Cuore di Gesù, non a Hitler, assieme ai cristiani di Bolzano. Una resistenza di amore, di fede e di coraggio quella di «Pepi». Che nel frattempo si sposa, in piena guerra, con la sua Hildegard, conosciuta nella ditta dove lavorava. È il 26 maggio 1942, martedì di Pentecoste, quando convolano a nozze. L’anno successivo, il 1° agosto 1943, dalla loro unione nasce Albert.
Costretto a arruolarsi nelle SS
Da pochi giorni si è consumata la prima caduta del fascismo. Alla quale seguirà l’invasione delle divisioni hitleriane, che nelle ore successive alla firma dell’armistizio del governo Badoglio con gli angloamericani occupano gran parte del Belpaese, prime fra tutte le province di Bolzano, Trento e Belluno, poste sotto la diretta amministrazione del Reich nella Zona d’operazioni delle Prealpi.
Esattamente un anno dopo, in spregio al diritto internazionale che vieta espressamente a un esercito occupante di reclutare cittadini del territorio occupato e costringerli a prestare giuramento – Pepi, lo ricordiamo, è rimasto cittadino italiano –, Mayr-Nusser viene arruolato nelle SS combattenti.
Costretto suo malgrado a partire, il 7 settembre 1944 monta con la morte nel cuore sul treno che lo porta nel campo SS di Konitz, cittadina nella Prussia occidentale, oggi Polonia.
Due mondi che si scontrano
Come ha fatto osservare Paolo “Bill” Valente, uno dei suoi biografi più autorevoli, il coraggio di Mayr-Nusser è tutt’altro che improvvisato. Da tempo ha meditato e condiviso la sua scelta di non giurare a Hitler. Prima di partire si confronta col fratello Jakob, che aveva preso la strada del sacerdozio, per capire insieme a lui come comportarsi nel caso di un possibile conflitto di coscienza. Un commilitone ricorda che Josef «dichiarò che in nessun caso avrebbe sottoscritto qualcosa che lo avrebbe potuto legare alle SS».
Alla sua sposa scrive così: «Due mondi si stanno scontrando. I miei superiori hanno mostrato fin troppo chiaramente di rifiutare e odiare quanto per noi cattolici vi è di sacro e intangibile. Prega per me, Hildegard, affinché nell’ora della prova io agisca senza timore e senza esitare, lo devo a Dio e alla mia coscienza».
Il giorno del rifiuto
Pochi giorni dopo, il 4 ottobre, mentre il sottufficiale sta istruendo le reclute sull’ormai imminente giuramento di cieca fedeltà al Führer (*), Mayr-Nusser alza la mano, interrompe la lezione e chiede di parlare. E in poche parole comunica di non aver alcuna intenzione di giurare a Hitler, né ora né mai. I suoi compagni rimangono paralizzati: sanno bene che in quel momento Josef sta firmando la sua condanna a morte. Mayr-Nusser motiva il suo rifiuto per motivi religiosi e politici.
Prima che metta per iscritto la sua obiezione, un commilitone gli si avvicina per sussurrargli: «Non credo che il Signore Dio ci chieda questo». Lui alza lo sguardo e fissa in volto il suo compagno. Poi gli risponde: «Se mai nessuno ha il coraggio di dire loro che non è d’accordo con le loro visioni nazionalsocialiste, le cose non cambieranno».
Dopo aver buttato giù velocemente la sua dichiarazione lo rinchiudono in cella. Il 14 novembre lo portano a Danzica, davanti al tribunale delle SS. Qui i nazisti lo interrogano, lo processano, lo condannano, destinandolo al lager. Lo buttano sul treno per Dachau – un carro bestiame – ai primi di febbraio. Dopo qualche giorno di tappa al campo di Buchenwald il convoglio riprende a marciare lentamente verso sud. Raggiunta la stazione di Erlangen, nei pressi di Norimberga, il treno arresta di nuovo per via di un bombardamento.
Verso la morte con rosario, messale e vangelo
Josef è ormai sfinito, consumato dalla malattia e dalle disumane condizioni ambientali disumane. Muore lungo la strada, sul treno per Dachau, il campo di concentramento dove ad attenderlo ci sarebbe stato il patibolo. La morte arriva la mattina del 24 febbraio 1945. Di lì a poco avrebbe compiuto 34 anni. In mano Josef Mayr-Nusser stringe il messale e un piccolo rosario. Stretto a sé ha anche un vangelo. Una volta ancora, a imporsi è la legge della crisi: svelare i pensieri dei cuori. «Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6, 21).
Hildegard viene a sapere della sua morte dieci giorni dopo, il 5 marzo. Dopo un mese esatto riceve una fredda e burocratica nota dal Reservelazarett 1 Erlangen: «Il soldato delle SS Josef Mayr, nato il 27 dicembre 1910, è morto alle 6 del mattino del 24 febbraio 1945 su un vagone ferroviario della stazione di Erlangen, secondo quanto stabilito dall’autopsia, per broncopolmonite».
Di vero, in questa comunicazione, ci sono solo la data, il luogo e il fatto della morte. La vera causa del decesso, come emergerà successivamente dal referto dell’autopsia, è «edema da fame». Mayr-Nusser quindi è morto di fame.
Il calvario di Josef Mayr-Nusser
Molti anni più tardi, nel 1980, una delle guardie delle SS che lo avevano accompagnato da Danzica a Erlangen scriverà alla moglie di Mayr-Nusser per raccontare gli ultimi momenti di vita del marito: un calvario inimmaginabile che lo vedrà trascinato a piedi, colpito da una dissenteria inarrestabile, dal treno fino alla caserma dei carristi, passando attraverso la città. Alla fine «Pepi» dovrà essere trasportato a braccio dai compagni. Quando arriva dal medico, la sua situazione è così disperata che il dottore si rifiuta perfino di ricoverarlo. Così il gruppo rientra alla stazione ferroviaria dove Mayr-Nusser muore, non prima di aver salutato con un cordiale «Vergelt’s Gott für alles», grazie per tutto.
Solo nel 2006 – sessantuno anni dopo la sua morte – si apre la causa di beatificazione. Nel luglio 2016 papa Francesco conferma al vescovo di Bolzano-Bressanone, Ivo Muser, che Josef Mayr-Nusser, riconosciuto come martire, è da considerarsi beato. Il 18 marzo 2017 nel Duomo di Bolzano avrà luogo il rito della beatificazione.
Ci piace chiudere con le parole di Paolo Valente: «La sua lucida coerenza, il suo amore per gli altri, lo hanno reso capace davvero di “fedeltà e coraggio”, di “obbedienza fino alla morte”. Non certo a Hitler, ma alla propria coscienza di uomo libero e di cristiano autentico».
(*) Questo il testo del giuramento a Hitler: «Giuro a te, Adolf Hitler, Führer e Cancelliere del Reich, fedeltà e coraggio. Prometto solennemente a te e ai superiori designati da te l'obbedienza fino alla morte. Che Dio mi assista».