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Cosa fare quando i propri figli sono gravemente malati? Ce lo dice una mamma che lo vive tutti i giorni

MARIANGELA TARI

Courtesy of Mariangela Tari

Marzena Wilkanowicz-Devoud - pubblicato il 10/02/23

I suoi due figli soffrono di malattie gravi diverse. Dove trova la forza per andare avanti?

Quando i propri figli si ammalano gravemente, dove si può trovare la forza per lottare ogni giorno? Come affrontare queste situazioni estremamente difficili e vivere comunque con gioia? E come riconoscere la bellezza intorno a noi e circondare i propri figli con un amore sempre più grande?

Ne abbiamo parlato con Mariangela Tari, madre di Sofia e Bruno e autrice di Il precipizio dell’amore, uno splendido libro di testimonianza personale.

Quando ha scoperto che sua figlia Sofia aveva la sindrome di Rett, lei e suo marito Mario avete deciso di combattere questa malattia. Mentre stavate lottando, avete scoperto che il suo fratellino Bruno aveva un tumore al cervello. Non avete gettato la spugna, al contrario, avete deciso di trasformare le vostre sofferenze in possibilità. Come ci riesce giorno dopo giorno?

La disabilità di un figlio o di una persona cara richiede un lungo percorso di conoscenza, un percorso su una nuova strada con regole ignote. Tutta la famiglia si imbarca in questo viaggio, perché quando un bambino si ammala, è tutta la famiglia ad ammalarsi. All’inizio ci sono solo dolore e incredulità, e si è completamente schiacciati. La famiglia crolla tra notti insonni e ricerche di rimedi miracolosi inesistenti. Bevi, litighi, pensi a un futuro impossibile. C’è la paura di essere soli. La burocrazia complica tutto, dalla scuola all’ospedale al trovare medicinali e aiutare con i trattamenti. Questo periodo di grande confusione è in realtà un momento di apprendimento e di metamorfosi. Si conoscono nuove realtà, genitori che sono già passati per quell’esperienza e associazioni di volontari. Bisogna solo avere la capacità e la volontà di cercare mentre tutto sta crollando. Quando soffri molto, tutti contribuiscono con le loro risorse.

Come affrontare questa sofferenza ogni giorno?

Ovviamente la sofferenza è lì. Ho bisogno di un aiuto quotidiano dagli altri e da me stessa per capire cosa sto soffrendo e perché: desiderio, rabbia, dolore, paura… Ho bisogno di provare queste cose, di comprenderle e di fare qualcosa al riguardo, perché quando so cosa sto soffrendo, capisco anche che posso lavorare attraverso quelle emozioni con la pratica. Fare, agire, è il primo rimedio.

Devo dire che il cancro, a differenza della disabilità, ti prospetta direttamente la morte. Il cancro incenerisce tutto. Ti spaventa e ti porta via qualsiasi possibilità di pensare alla vita. Il cancro ti ricorda improvvisamente che la vita può terminare. Milioni di persone muoiono ogni giorno intorno a noi, ma pensiamo sempre di essere immortali. Il tumore di mio figlio mi ha catapultata nel presente, nel qui e ora. E allora tutto quello che per il resto del mondo sarebbe solo sfortuna per noi è diventato tutto ciò che avevamo.

Cosa significa esattamente?

I nostri baci sono diventati più forti, i nostri abbracci più intensi; il tempo in cui guardavamo un film sul letto è diventato un momento di felicità indescrivibile. Tutto si è concentrato sul presente, acuito e illuminato dalla consapevolezza del fatto che la vita è fatta di momenti felici che dobbiamo accogliere.

Come famiglia, abbiamo riscoperto l’utilità delle cose inutili, stare insieme alle persone che amiamo, vivere senza fretta, donando il tempo ai nostri bambini. Abbiamo creato un archivio della felicità fatto di poche cose, senza pensare al futuro. E abbiamo dato significato a qualcosa che non lo aveva. Abbiamo iniziato ad aiutare altre persone attraverso un’associazione chiamata La Casa di Sofia.

Dove trae la sua forza? Da dove deriva?

Non so da dove derivi, mi stupisce ogni giorno. Penso che derivi da un atteggiamento di stupore. Tenere aperta la domanda sulla vita e la meraviglia mi pone in uno stato di felicità quasi infantile. Ho ancora così tante cose da scoprire, e così tante domande da porre al mondo!

In secondo luogo, la mia forza deriva certamente dall’amore che nutro per i miei figli. Li amo in modo indescrivibile. Mi hanno trasformata. Mi permettono di uscire da me stessa e di donarmi.

La forza, però, deve anche essere alimentata. Devo ricordare che oltre alla persona di cui mi sto prendendo cura ci sono anche io. Come quando saliamo su un aereo e ci viene detto che se c’è un problema dobbiamo tirar già prima la nostra maschera per l’ossigeno e poi aiutare chi è in difficoltà. Dobbiamo capire che siamo genitori, ma anche persone. È essenziale prendersi piccoli momenti per stare da soli. È molto difficile da fare: i caregivers familiari non hanno tempo libero, e quindi dobbiamo avere il coraggio di chiedere aiuto, di gridare questa richiesta di sostegno, di non vergognarci. Perché torneremo a casa più forti.

Si può essere felici nonostante gli eventi sfortunati?

Il dolore fa parte della vita. Questo è il primo punto. Nessuno è immune al dolore. E non si deve avere il cancro per soffrire. È la condizione umana. E quindi dovrebbe essere trattata esattamente come trattiamo le altre cose che ci accadono. Ascoltare la nostra sofferenza, versare tutte le lacrime che abbiamo quando abbiamo bisogno di piangere, senza paura; parlarne senza vergognarsi. Il dolore ci permette anche di riscoprire chi siamo, perché resetta la nostra conoscenza.

Il dolore fa quello che fa l’amore: ti decentra, ti mette in crisi, e una crisi significa riformulare il proprio giudizio sul mondo. Guardando la cosa in questo modo, il dolore significa possibilità. Rifiutarlo è inutile, è più forte di noi. E allora dobbiamo darci del tempo per soffrire, per ritirarci finché la nostra natura ci chiede di aprirci nuovamente.

Nel suo libro lei scrive che il dolore l’ha resa la perdente più forte. Cosa significa?

Quando ho avuto la mia prima figlia ero un’insegnante. In quanto tale, ho iniziato a vedere mia figlia oltre la malattia. Mi sono chiesta cosa poteva imparare, cosa poteva essere al di là della sindrome di Rett. Guardavo mia figlia, non la malattia. È per questo che è nostro dovere aiutare chi non ha gli strumenti. La disabilità è solo un peso per una società cieca e individualista. Come genitori, a un certo punto abbiamo cercato non una cura miracolosa, ma attività e strumenti per cercare di rendere felice Sofia. Non è facile. Stanca molto, e tra tutti gli atteggiamenti che abbiamo iniziato a coltivare richiede accettazione. Accettare il cambiamento e riconoscere che è l’unica costante nella nostra vita. E anziché lasciarci trasportare dagli eventi, pensando di non avere potere su un destino che è già scritto, dobbiamo decidere, facendo un patto con noi stessi, che possiamo cambiare la storia.

Come possiamo cambiare questa storia di sventura?

Dobbiamo “fingere”. È una cosa che ho imparato a recitazione a scuola. Possiamo fingere di aver scelto questa vita e viverla da ogni angolazione possibile. Accettare che si perderanno molti legami, ma se ne costruiranno di nuovi. Accettare che in certi giorni bisogna soffrire, e sapere che questo dolore finirà. Finisce sempre. Cambiare il proprio dialogo interiore, parlare di sé in termini di possibilità piuttosto che di distruzione. Possiamo farlo se andiamo alla ricerca di letture ed esperienze che la gente ha vissuto che hanno cambiato questa storia di sventura. Una sventura che può diventare qualcos’altro.

Nel suo libro dice che dolore e gioia non sono poi così opposti…

Quando affronto delle giornate dolorose rifletto sempre. Penso che il passato mi sembra incredibilmente bello, solo perché è passato sembra pieno di eventi piacevoli. Perfino i giorni di ricovero, quelli in cui pensavo che non ce l’avrei fatta, saltano fuori nella mia memoria con aneddoti positivi. Ciò vuol dire che il presente doloroso diventa un ricordo piacevole. E poi torno al presente, vivo e cerco di costruire qualcosa di positivo anche in una brutta giornata. Cambio atteggiamento. Serve un grande lavoro dello spirito. Lavoro che viene resettato quando si incontrano persone che vedono i nostri figli come bambini infelici.

Ci sono cose che la gente dice e che la feriscono?

Quando incrocio lo sguardo di qualcuno che poi lo distoglie, o quando mia figlia viene chiamata “povera piccola cosa”. Si ferma tutto quando non si viene invitati ai compleanni o ai pomeriggi da trascorrere insieme. La comunità è tutto. Posso lavorare su me stessa, ma l’altro dev’essere mio alleato. Le parole che mi disturbano di più sono queste: “Siete degli eroi!” No, mio marito ed io non lo siamo. Siamo esseri umani. Gli eroi non hanno bisogno di aiuto.

Cosa vorebbe dire ai genitori che vivono situazioni simili?

Ho quasi paura di dare consigli, e quindi darò solo qualche suggerimento. Primo, chiedete sempre aiuto. Poi mettetevi in moto e contattate più associazioni che potete: vi si aprirà un mondo di possibilità. E infine, delegate senza sentirvi in colpa quando il vostro corpo non ce la fa. I vostri figli e le persone di cui vi prendete cura hanno bisogno di voi, e quindi dovete curarvi.

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