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Perché Papa Francesco è andato in Sud-Sudan? 

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SIMON MAINA / AFP

Affiche du Pape à Juba, Soudan du Sud, le 31 janvier 2023.

Hugues Lefèvre - i.Media per Aleteia - pubblicato il 03/02/23

Dopo tre giorni in Repubblica Democratica del Congo, papa Francesco si è recato (il 3 febbraio) in Sud-Sudan, Paese fondato nel 2011 e che da allora non ha conosciuto che guerra. Uno spostamento inedito anche per il format: Francesco è accompagnato dal capo della Chiesa anglicana, l’Arcivescovo di Canterbury, e dal moderatore della Chiesa di Scozia.

L’immagine aveva fatto il giro del mondo: quella di papa Francesco in ginocchio che si piegava fino a terra nel gesto di baciare i piedi dei due contendenti politici cristiani – Salva Kiir, cattolico, e Riek Machar, protestante – per supplicarli di fare la pace. Nell’aprile del 2019 il Vaticano aveva aperto le porte per proporre un ritiro spirituale al presidente e al vice-presidente del Sud-Sudan. Come una tregua in una lotta intestina tra due etnie – Dinka e Nuer – che ha immerso il più giovane Paese al mondo in una cruenta guerra costata finora 400mila morti e migliaia di sfollati. Cifre che si aggiungono ai 2 milioni di morti provocati dalle successive due guerre di indipendenza nella seconda metà del XX secolo. 

Si stima – dichiara Paolo Impagliazzo, segretario generale di Sant’Egidio (assai impegnato nella soluzione di conflitti, e che nella crisi specifica fa da mediatore) – che i rifugiati nei Paesi limitrofi e gli sfollati interni rappresentino circa 4 milioni di Sud-Sudanesi su 12 milioni del totale, vale a dire un terzo della popolazione del Paese. 

L’ampiezza della catastrofe in questo paese cristiano ha spinto i responsabili di Chiese a una novità inedita, ossia alla costituzione di una diplomazia ecumenica. Nel Paese anglofono d’Africa Orientale, il Papa non viene solo ma camminerà di fianco all’Arcivescovo di Canterbury Justin Welby e al moderatore della Chiesa di Scozia Iain Greenshields. 

Pope's DRC S Sudan trip map

Una visita storica 

Si tratterà di una visita storica – se n’è rallegrato l’arcivescovo di Canterbury alla vigilia –: dopo secoli di divisioni, i dirigenti di tre parti diverse della Chiesa si riuniscono in maniera inedita e, ciò facendo, cercano di rispondere a un’altra preghiera, quella di Gesù perché i suoi discepoli siano una cosa sola. 

Veniamo come servitori per ascoltare e amplificare le grida del popolo sud-sudanese, che ha tanto sofferto e continua a soffrire a causa del conflitto, delle inondazioni devastatrici, della carestia generalizzata e di molto altro ancora. 

Nel quadro di ciò che il Papa ha qualificato di «pellegrinaggio ecumenico di pace», i responsabili cristiani incontreranno le autorità del Paese meno di quattro anni dopo il famoso ritiro in Vaticano. Mentre le milizie si affrontano ancora nel Paese, malgrado la formazione di un governo «di unità nazionale e di transizione» nel febbraio 2020, i colloqui a porte chiuse potrebbero essere franchi e diretti. «Credo che il Papa sia molto forte, in privato, con queste personalità», mormora un alto responsabile della Curia, che tuttavia confessa di non attendersi risultati concreti da questa visita, che avviene in un contesto sfavorevole – il governo del Sud-Sudan ha recentemente annunciato che sospende la propria partecipazione ai negoziati di pace di Roma, nei quali è implicata la comunità di Sant’Egidio. 

La questione essenziale è che le persone al potere comincino a prendere in considerazione la situazione della popolazione. 

I tre leader cristiani andranno, da parte loro, a contatto con le vittime dei conflitti. Sabato ascolteranno la testimonianza di bambini che crescono da sfollati, in campi che non sono risparmiati dalle violenze. Insieme parteciperanno anche a un momento di preghiera ecumenica al Mausoleo “John Garang”, dove riposa quest’ultimo, padre fondatore dell’indipendenza del Sud-Sudan. 

Incoraggiare una giovane Chiesa 

In questo Paese già dilaniato da conflitti etnici la Chiesa pure è attraversata nel proprio seno dalle tensioni. Molto spesso il carattere comunitario primeggia sull’appartenenza religiosa, e la violenza si fa strada perfino tra il clero – trecento preti e dieci vescovi. Così, poco prima della sua installazione come vescovo di Rumbek, il prete missionario Christian Carlassare, oriundo italiano, è stato nel mirino di un kalashnikov nell’aprile 2021 nel quadro di un regolamento di conti legato a conflitti interni al clero locale. Tra gli accusati un prete, che si è beccato sette anni di carcere. Quanto al giovane vescovo in missione da 18 anni in Sud-Sudan, non è riuscito a recuperare l’uso delle gambe se non dopo lunghe cure in Kenya e poi in Italia. 

In questo contesto papa Francesco rinnoverà indubbiamente l’appello a mettere fine al tribalismo, come aveva fatto nel viaggio in Kenya nel 2015: «Nello stadio ho parlato del tribalismo e tutti si sono alzati in piedi per dire “no al tribalismo”», si è ricordato in un’intervista ad AP la settimana scorsa. Un’intervista in cui era tornato a rattristarsi per il fatto che, nelle nomine dei vescovi africani, bisognasse assicurarsi sull’appartenenza del candidato a questo o quel gruppo etnico. 

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]

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