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Quand’è che la Chiesa cominciò a usare le ostie per la Comunione?

Ostia Consacrata

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Lucia Graziano - pubblicato il 22/01/23

La Chiesa delle origini utilizzava dei normali pani lievitati nel corso delle celebrazioni liturgiche; solo a partire dal VII secolo comincia lentamente a diffondersi l’abitudine di consacrare le ostie moderne, più simili al pane azzimo dell’Ultima Cena.

In fin dei conti, i Vangeli sono chiari: nel corso dell’Ultima Cena, Gesù «prese il pane». Naturalmente, sappiamo bene che quello usato da Gesù doveva essere pane azzimo, simbolo della Pasqua ebraica (una informazione che, comunque, non impedì a numerosi artisti di dipingere l’Ultima Cena immaginando nelle mani del Cristo una normale pagnotta lievitata). Eppure, il pane azzimo e le ostie per la Comunione non sono esattamente la stessa cosa, e neppure hanno esattamente lo stesso aspetto. E allora, quando (e perché) nacque l’abitudine di utilizzare proprio quelle piccole ostie di colore chiaro, nel corso delle celebrazioni liturgiche?

La consuetudine è certamente antica, ma non paleocristiana: i sacerdoti dei primi secoli consacravano normali pani lievitati, che venivano poi distribuiti ai fedeli in piccoli tocchetti. Ma allora, quando nascono le moderne ostie?

Per rispondere a questa domanda, si potrebbe ricorrere a una buffa leggenda oppure a qualche considerazione di natura storica. E siccome le leggende sono sempre accattivanti, inizieremo dando spazio alla prima opzione.

Le ostie? Inventate da un monaco che aveva fatto un fioretto per l’Avvento (dice la leggenda)

Il protagonista della nostra storia è san Vandregisilo, monaco presso l’abbazia francese di Fontanelle. All’epoca in cui viveva il nostro amico (e cioè, nella prima metà del VII secolo), la nobile famiglia che gli aveva dato i natali era considerata importante, ma non più di tante altre: col senno di poi, potrebbe essere interessante far notare che lo zio paterno di Vandregisilo fu il capostipite della dinastia carolingia. Ma, ignaro degli onori di cui si sarebbe ricoperta un giorno la sua famiglia (e francamente disinteressato anche a quelli di cui già poteva beneficiare), Vandregisilo aveva optato per una vita di penitenza e di mortificazione, vestendo l’abito monacale.

Ebbene: leggenda narra di come il religioso fosse stato incaricato di preparare i pani che sarebbero stati consacrati durante la Messa di Natale. Si era in pieno inverno, ed era il dicembre più freddo di cui si avesse memoria: qualche settimana prima, all’inizio dell’Avvento, Vandregisilo aveva preso il proposito di sopportare il gelo senza fare nulla per scaldarsi, offrendo quella mortificazione per l’espiazione dei suoi peccati e per bene della Santa Chiesa. 

Sicché, quando il monaco fu incaricato di mettersi ai fornelli per preparare i pani per la Comunione, si trovò in grave imbarazzo: come poteva farlo, senza godere del tepore del forno, a cui aveva promesso di rinunciare? Certamente non poteva rifiutare l’incarico ricevuto (ché le mortificazioni devono avere effetto su chi le sceglie, e non ripercuotersi sui malcapitati che vivono con lui, creando problemi logistici a catena); eppure, Vandregisilo avrebbe preferito trovare un modo per non dover spezzare quel fioretto avventuale, che gli stava portando tanti benefici.

Pensa che ti ripensa, il monachello pensò bene di dotarsi di una lunga tenaglia di ferro, simile a quelle che usavano i fabbri per maneggiare gli oggetti incandescenti nella fucina. Applicò alla tenaglia due piastre di metallo atte a contenere l’impasto di farina e acqua; e così, brandendo il lungo manico di quello strumento, e standosene a distanza di sicurezza dal caminetto, l’asceta riuscì a sfornare centinaia di pagnottelle senza scaldarsi nemmeno un pochetto.

Certo: più che pagnotte, gli uscirono dei crackers; compresso dalle tenaglie, il pane si schiacciò diventando tondo e piatto, dando vita a una cialda croccante. Ma il risultato non dispiacque affatto ai monaci dell’abbazia che anzi apprezzarono molto quel nuovo tipo di pane, che si conservava a lungo e si stoccava facilmente. Entro pochi anni, la scoperta di Vandregisilo aveva guadagnato un tale consenso da diventare la norma per la cattolicità intera: e tutto per merito di un monaco che non aveva voluto spezzare il suo fioretto avventuale!

La diffusione delle ostie nell’Europa carolingua

Quella di Vandregisilo è solo una leggenda. Una leggenda che, però, ha una base di verosimiglianza, quantomeno sotto il punto di vista della cronologia: il monaco francese morì nel 665, ed è proprio sul finire di quel secolo che comincia pian piano a farsi strada nelle diocesi francesi l’idea che il pane da consacrare durante la Messa debba essere preferibilmente piatto e non lievitato. Molto probabilmente non fu Vandregisilo a inventare le prime ostie per la Comunione, ma a idearle fu qualche suo “collega” vissuto all’incirca nella stessa epoca e nella stessa zona.

Nel corso dell’VIII secolo, la consuetudine di consacrare ostie cominciò pian piano a diffondersi a macchia d’olio. Nel 798, Alcuino di York si espresse in loro favore sottolineando la loro somiglianza col pane azzimo che Gesù aveva consumato nel corso dell’Ultima Cena. Pochi anni più tardi, san Rabano Mauro fece notare che l’Antico Testamento utilizzava parole esplicite nel vietare l’utilizzo di pane lievitato per i sacrifici; naturalmente, la Nuova Alleanza aveva permesso ai cristiani di superare molti divieti veterotestamentari, ma il santo di Magonza era comunque dell’idea le ostie per la Comunione, essendo prive di lieviti, fossero da preferire in quel contesto.

Entro il IX secolo, l’usanza doveva già essere consolidata: numerosi liturgisti sembrano darla per scontata, e gli archivi ecclesiastici cominciano a tener traccia dell’acquisto massivo di stampi per ostie, spesso decorati in modo tale da imprimere sulla cialda immagini a tema sacro. Ancor più significativamente, gli scritti del X e dell’XI secolo ci consegnano le proteste di alcuni “tradizionalisti” (il più accanito dei quali fu Eccardo IV di San Gallo) che non apprezzavano questa innovazione e avrebbero voluto continuare a consacrare i soliti pani lievitati di sempre; e sono proprio queste critiche isolate a permetterci di intuire quanto, all’epoca, la nuova prassi fosse già diffusa.

Con buona pace di Eccardo, le ostie si imposero con facilità in tutta la Chiesa occidentale. Venivano preparate esclusivamente da religiosi, in un rituale solenne che qualcuno potrebbe persino definire “dal sapore sacrale”: i cereali venivano selezionati chicco a chicco, versati in sacchi appositamente creati per l’uso e macinati in religioso silenzio da monaci che profittavano di quei momenti per pregare. La cottura, invece, era accompagnata dal salmodiare di preghiere e di inni sacri: ed ecco che le ostie erano pronte per essere portate in abbazia e ridistribuite alle chiese che ne facevano richiesta.

Come piccole monete bianche per arricchire l’anima

Non si trattava ancora delle ostie che conosciamo oggi: a giudicare da quanto scrivono le fonti d’epoca, tutto ci spinge a immaginare che quelle prime cialde a uso liturgico conservassero ancora il diametro delle pagnotte da portare in tavola. Sappiamo, per esempio, che era consuetudine impilarle sopra il calice da Messa (il che presuppone evidentemente che le cialde fossero più ampie del bicchiere); alcune fonti ci parlano di pani eucaristici che erano sufficientemente grandi da fornire particole per intere settimane a partire dal momento in cui venivano spezzati. Presto, però, ci si rese conto che la consistenza delle ostie le rendeva estremamente friabili: per evitare che, nello spezzare ripetutamente il pane, se ne potessero accidentalmente disperdere piccoli frammenti, i monaci avvertirono l’esigenza di passare a… formati monoporzione, per così dire. Nacquero così le piccole ostie tonde che ancor oggi riceviamo al momento della Comunione; e anche in questo caso, alcuni moralisti inarcarono le sopracciglia: viste di lontano, quelle cialde sembravano monete, più adatte al banco di un cambiavalute che a un luogo di preghiera.

Ma quella critica fu presto riletta in chiave positiva: nel XII secolo, il teologo Onorio d’Autunfece notare che il paragone era assolutamente appropriato; e anzi, era simbolica la circostanza per cui sulle ostie fosse impresso il nome di Dio, allo stesso modo in cui sulle monete terrene veniva impresso il nome del re in carica. L’analogia era perfetta e piena di simbolismo, a giudizio del teologo: anche le ostie, a loro modo, sono monete, che vengono dispensate con generosità dal Re celeste. Sono monete per davvero, e tra le più le preziose: le uniche attraverso cui si può godere del privilegio di stare a tu per tu con Dio.

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