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“Capitalismo woke”: uscire dal dibattito ideologico 

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Bertrand Badré - pubblicato il 12/01/23

L’eccessivo impegno di alcune imprese in cause ideologiche non deve far dimenticare la responsabilità sociale del mondo del lavoro. Per l’imprenditore Bertrand Badré la priorità resta quella di trasformare le nostre economie.

La confusione è estrema: adesso si parla di “capitalismo woke”, cioè di un capitalismo che avrebbe in un certo senso perduto i proprî connotati. Del resto, chi si preoccuperebbe di voler trasformare le società in linea coi dibattiti che le percorrono, e non du trasformare e migliorare l’economia? 

Ciò equivarrebbe a dimenticare i fondamentali del capitalismo, ovvero la massimizzazione del profitto, per dedicare più tempo – più intelligenza, più energie, più denaro – a occuparsi di argomenti esterni come le minoranze, l’ambiente, le disuguaglianze o il benessere di questa o quella categoria, per esempio. 

Il dibattito infuria in particolare negli Stati Uniti. Per prendere esempi recenti, stati come la Florida o il Texas hanno recentemente escluso di lavorare con Blackrock, e il Texas anche con BNP Paribas, per il fatto che queste imprese sarebbero troppo verdi. Il Partito Repubblicano, che pure è diviso su molti temi, ha fatto della lotta contro il capitalismo woke una punta di diamante della propria lotta politica. E per questo arriva ad attaccare frontalmente grandi imprese a motivo dei loro impegni sociali giudicati inadatti e fuori tempo rispetto alla contesa economica (per esempio con la Cina). 

Il Partito Repubblicano, giudicato l’alleato tradizionale del “Big business” negli Stati Uniti, si trova in difficoltà con i suoi agganci storici, in particolare con l’American Chamber of Commerce. Tutto questo ha senso? Che bisogna ritenere da questi eventi, da queste lotte che toccano a quanto pare l’essenza stessa del capitalismo? Ci sono diversi temi dietro a quella che assume a tratti le sfumature di una vera guerra ideologica. Ne metterò in evidenza tre. 

La responsabilità sociale dell’impresa 

Il primo è il rischio di quello che comunemente si chiama “greenwashing”. In sostanza, si tratterebbe di un mero esercizio di comunicazione e di pubbliche relazioni. E sarebbe più inoffensivo o inerte che altro, ma pericoloso perché creerebbe aspettative artificiali che non verrebbero soddisfatte, e l’opinione pubblica potrebbe alla fine sentirsi tradita e usata, e quindi rivoltarsi contro un capitalismo menzognero. 

Il secondo tema è quello del ruolo dell’impresa. Esso ci spinge a porci la questione di cosa siano le sue responsabilità nel mondo di oggi: dove cominciano e dove finiscono? Non credo che la domanda sia una di quelle facili da porre, e non credo che sia facile rispondere. Lo vediamo sempre più: le imprese vengono costrette a pronunciarsi sui temi del dibattito pubblico, temi che assumono contorni complessi e spesso fluidi. Ciò si verifica una volta di più negli Stati Uniti, ma non solo. Abbiamo visto momenti del dibattito su “Black lives matter”, sull’aborto… Abbiamo avuto momenti di dibattito sul gender, in particolare con le posizioni prese dalla Florida e con la risposta ostile della Disney, a sua volta privata dei consistenti vantaggi fiscali. 

Negli Stati Uniti, ad esempio, ma non solo lì, le imprese vengono aspettate al varco. Non i loro clienti! È come per le squadre sportive. I dibattiti possono essere tanto più grossolani quanto più le imprese restano o tornano ad essere uno dei luoghi della speranza collettiva. La questione è difficile e ci occuperà per molto tempo. In Francia c’è il dibattito sulla ragion d’essere delle imprese, in particolare, e più generalmente sulla RSE (Responsabilità Sociale delle Imprese). E non è che cominciata. È importante porre buone basi. Come capo d’impresa mi pongo tutti i giorni domande circa dove posso andare, quali sono i valori che devo difendere, come questi possono essere o non essere condivisi, oppure imporsi al mio ecosistema. La questione è importante, e dev’essere affrontata con verità e trasparenza. 

Gli impegni internazionali 

E poi, dietro le questioni del greenwashing da una parte e dell’impegno societario dall’altra si pone la terza questione, quella degli impegni che sette anni fa abbiamo preso, come comunità, a riguardo del clima e degli obiettivi di sviluppo durevole. Sono gli accordi di Parigi del dicembre 2015 e gli accordi di New York del settembre del medesimo anno. Siamo impegnati con tutti gli Stati del pianeta a trasformarci e a trasformare le nostre economie in una economia che sia durevole, resiliente e inclusiva. Abbiamo adottato una tabella di marcia molto ambiziosa, per l’economia mondiale del XXI secolo, e tale tabella di marcia esige un adattamento delle imprese. 

Ecco perché, dietro al dibattito sul capitalismo woke, non bisogna mescolare tutto. Al centro c’è la questione degli impegni, che si allineano a quelli presi universalmente sette anni fa. Gli impegni sul clima, gli impegni sulla biodiversità e tutta una serie di impegni sull’accesso alla salute, all’educazione, all’acqua, sull’eradicazione della povertà, sulla riduzione delle disuguaglianze, sul gender-gap e via dicendo. Sono i 17 obiettivi dello sviluppo durevole. Non possiamo prescinderne: vi siamo vincolati e, se siamo persone serie, dobbiamo avanzare in questa direzione. Non dovremmo dunque, col pretesto del “capitalismo woke”, gettare il bambino con l’acqua sporca. Bisogna ben porre, dunque, da una parte i limiti di ciò che vorremmo fare a titolo individuale nelle nostre imprese; e dall’altra parte ciò che è legato agli impegni che abbiamo preso collettivamente per rifondare su basi solide l’economia mondiale. Questo sarebbe il dibattito da impostare bene. 

Trasformare le nostre economie 

In realtà, questo dibattito è stato illuminato in particolare da due testi di papa Francesco: il più recente è Fratelli tutti, il precedente è Laudato si’. Essi ci ricordano le esigenze della fraternità e le esigenze che ci impongono la buona gestione del pianeta di cui siamo depositari. È per questo che bisogna uscire dalla confusione, dal dibattito ideologico, dalla strumentalizzazione dei concetti per rimettere calma e ordine nelle nostre menti. Si tratta infatti di lavorare insieme all’allestimento della road map che abbiamo accettato. Ciò comporterà evidentemente un certo numero di difficoltà. Alcune saranno delicate, ma non credo che dobbiamo imbarcarci in un dibattito che ci trascinerebbe troppo in là e che, in una certa maniera, ci depisterebbe. 

Lo scopo principale è la trasformazione delle nostre economie. Ce ne potrebbe distrarre l’agitarci attorno a dibattiti sociali che restano complicati, che portano i segni di ciascuno dei nostri paesi e sui quali, come cittadini, possiamo prendere liberamente le nostre posizioni senza discriminare l’insieme del sistema per questo o quell’eccesso, per questa o quella esagerazione. 

La posta in gioco è troppo importante perché ci gingilliamo con tutto questo. Dobbiamo non soltanto pianificare la road map, ma anche attuarla: se non lo facciamo, la delusione sarà assolutamente colossale – e a quel punto a risvegliarsi (woke) potrebbe essere la furia della gente. 

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]

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