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Sacerdote torturato quando era nelle mani dell’ISIS eletto vescovo in Siria

Archbishop Jacques Mourad of Homs

MARIO OSORIO | NOTIMEX via AFP

John Burger - pubblicato il 09/01/23

L'arcivescovo Jacques Mourad ha lavorato per promuovere il dialogo tra cristiani e musulmani prima dell'avvento dell'ISIS

Un sacerdote siriano che ha trascorso cinque mesi prigioniero del gruppo jihadista dello Stato Islamico è stato eletto arcivescovo di un’arcidiocesi siro-cattolica.

Il Sinodo dei Vescovi della Chiesa Siro-Cattolica ha eletto p. Jacques Mourad arcivescovo di Homs, in Siria, è stato riferito sabato. Papa Francesco ha dato il suo assenso all’elezione.

Una delle 23 Chiese cattoliche orientali in comunione con Roma, la Chiesa siro-cattolica ha circa 175.000 fedeli in Medio Oriente e nella diaspora.

L’arcivescovo Mourad ha affermato in un’intervista ad Aleteia nel 2015 che durante la sua prigionia ha “sentito la presenza di Gesù”.

Mourad, 54 anni, è nato ad Aleppo (Siria) e ha frequentato il seminario a Charfet, in Libano. Si è laureato presso l’Università dello Spirito Santo di Kaslik, e ha professato i voti religiosi il 20 luglio 1993 nella comunità monastica siro-cattolica di Deir Mar Mousa Al-Abashi (San Mosè l’Abissino), a circa 80 chilometri a nord di Damasco. È stato co-fondatore del monastero insieme al sacerdote gesuita Paolo Dall’Oglio, rapito nel 2013 e di cui da allora non si hanno più notizie.

Mourad è stato ordinato sacerdote il 28 agosto 1993, e dal 2000 al 2015 ha diretto il monastero ecumenico di Mar Elian, vicino alla città di Qaryatayn, a un centinaio di chilometri da Palmira. La sua missione principale è stata quella di lavorare per promuovere il dialogo con i musulmani.

La Assyrian International News Agency riferisce che Mar Elian è stato fondato nel V secolo come monastero siro-ortodosso. Nel XVII secolo è diventato cattolico. Era stato restaurato da p. Dall’Oglio.

Nadia Braendle, svizzera che lavora conGli Amici di Mar Moussa e conosce da anni l’arcivescovo Mourad, lo ha definito nel 2015 un “grande uomo” che “ha rifiutato di diventare vescovo perché vuole lavorare con il popolo siriano – musulmani e cristiani”, e che è il tipo di persona di cui la Siria ha bisogno.

Guerra civile

Durante la guerra civile siriana, la città di Qaryatayn è stata conquistata ripetutamente dalle milizie anti-Assad e bombardata dall’esercito siriano. Mourad, insieme a un avvocato sunnita, ha agito come mediatore per assicurare che il centro urbano, che ospita 35.000 abitanti, venisse risparmiato per lunghi periodi dagli scontri armati.

Il suo monastero ha ospitato centinaia di rifugiati, tra cui oltre 100 bambini sotto i 10 anni. Mourad e i suoi amici hanno fatto fronte alle necessità fondamentali cercando anche l’aiuto di donatori musulmani.

Il 21 maggio 2015, Mourad è stato rapito da Quaryatayn da alcuni uomini armati mentre l’ISIS invadeva Palmira. Il gruppo jihadista ha distrutto il monastero di Mar Elian. 

Mourad ha in seguito descritto la sua vita durante la prigionia dicendo che i militanti dell’ISIS lo hanno tenuto per quattro giorni chiuso in una macchina sulle montagne prima di trasferirlo.

In un’intervista al quotidiano libanese L’Orient-Le jour, ha confessato di essere stato minacciato più volte di decapitazione se non si fosse convertito all’islam; è stato anche frustato e sottoposto a un’esecuzione-farsa.

“La prima settimana è stata la più difficile: dopo essere stato tenuto per vari giorni in una macchina, la domenica di Pentecoste sono stato portato a Raqqa [“capitale” dello Stato Islamico siriano]. Ho vissuto quei primi giorni di prigionia preso tra paura, rabbia e vergogna”, ha affermato.

“Consideralo un ritiro spirituale”

L’ottavo giorno, una persona vestita di nero è entrata nella sua cella. Il sacerdote pensava che la sua fine fosse vicina, e invece l’uomo ha avviato una conversazione. Mourad ha chiesto perché era stato rapito. “Consideralo un ritiro spirituale”, ha replicato il suo carceriere.

“Da allora, la mia preghiera, i miei giorni, hanno acquisito un senso”, ha confessato. “Ho sentito che attraverso di lui era il Signore a mandarmi quelle parole. È stato un momento di grande conforto per me. Attraverso la preghiera, sono stato in grado di recuperare la pace. Era maggio, il mese di Maria. Abbiamo iniziato a recitare il Rosario, che prima non recitavo molto. Il mio rapporto con la Vergine Maria ne è uscito rinnovato. Mi ha sostenuto anche la preghiera di Santa Teresa d’Avila, ‘Nulla ti turbi, nulla ti spaventi…’. Una notte ho ideato una melodia per questa, e ho iniziato a canticchiarla. La preghiera di Charles de Foucauld mi ha aiutato ad abbandonarmi nelle mani del Signore, ben consapevole di non avere scelta, perché avevo tutte le indicazioni per capire che se non mi fossi convertito all’islam sarei stato decapitato”.

“Quasi ogni giorno, qualcuno entrava nella mia cella e mi interrogava sulla mia fede”, ha proseguito. “Vivevo ogni giorno come se fosse l’ultimo, ma non ho ceduto. Dio mi ha dato due cose – silenzio e amicizia. Sapevo che alcune risposte potevano provocarli, che una sola parola era in grado di condannarmi. Mi è stato chiesto della presenza del vino in convento. Quando ho iniziato a rispondere, l’uomo ha tagliato corto. Trovava le mie parole insopportabili. Ero un ‘infedele’. Attraverso la preghiera, i Salmi, ho trovato un senso di pace che non mi ha mai abbandonato. Ricordavo anche le parole di Cristo nel Vangelo di San Matteo: ‘Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano’. Ero felice di poter mettere in pratica queste parole. Non è poca cosa poter vivere il Vangelo, soprattutto quei versetti difficili, che prima erano solo teorici. Ho iniziato a provare compassione per i miei rapitori”.

Pagare la jizya

Il 23° giorno, all’improvviso, i suoi rapitori sono riapparsi e lo hanno frustato per mezz’ora. La frusta era fatta con un pezzo di tubo da giardino e delle corde.

“Soffrivo a livello fisico, ma dentro ero in pace”, ha rivelato il religioso. “Trovavo grande conforto nel fatto di sapere che stavo condividendo qualcosa della sofferenza di Cristo…. Ho perdonato il mio aguzzino anche se mi stava frustando… In seguito ho ricordato il versetto in cui il Signore dice che è nella nostra debolezza che si manifesta la Sua forza”.

Per quanto potesse essere negativa quell’esperienza, Mourad ha ammesso di aver sperimentato la sua paura più grande poco tempo dopo, quando un uomo armato di coltello è entrato nella sua cella.

“Ho sentito la lama del coltello sul collo, e ho pensato che il conto alla rovescia verso la mia esecuzione fosse iniziato. Terrorizzato, mi sono raccomandato alla misericordia di Dio, ma è stato solo un’orrenda farsa”.

Il 4 agosto lo Stato Islamico ha conquistato Qaryatayn, rapendo circa 230 civili della città, tra cui 60 cristiani. Qualche giorno dopo, uno sceicco saudita è entrato nella cella del sacerdote.

“Sei tu Baba Jacques?”, ha chiesto. “Vieni! Dei cristiani di Qaryatayn ci infastidiscono al tuo riguardo”.

“Ho pensato che mi portassero via per giustiziarmi. Mi hanno fatto sedere in un camioncino, e abbiamo guidato per quattro ore. Oltre Palmira abbiamo preso il sentiero della montagna, che portava a un edificio con una grande porta di ferro per motivi di sicurezza. Quando è stata aperta la porta cos’ho visto? Tutta la popolazione di Qaryatayn, stupita per il fatto di vedermi. È stato un momento di sofferenza indicibile per me, e per loro un momento straordinario di gioia”.

“Venti giorni dopo, il 1° settembre, siamo stati riportati a Qaryatayn, liberi, ma ci è stato proibito di lasciare il villaggio. È stato firmato un contratto religioso collettivo: ora eravamo sotto la loro protezione dietro il pagamento di una tassa speciale (jizya), che i non musulmani devono pagare. Potevamo anche praticare i nostri riti, a patto che non offendessero alcun musulmano”.

La fuga

Dopo quasi cinque mesi di prigionia, padre Mourad è riuscito a fuggire il 10 ottobre 2015. “Ero vestito come un islamico e me ne sono andato in motocicletta con l’aiuto di un amico musulmano” fino alla città di Zeydal, vicino Homs. Insieme a un sacerdote ortodosso e ad alcuni amici musulmani e beduini, ha poi lavorato per ottenere il rilascio di 200 cristiani che erano ancora tenuti prigionieri.

“Quasi ogni giorno, qualcuno veniva nella mia cella e mi chiedeva: ‘Chi sei?’ ‘Io rispondevo: sono un nazareno, ovvero un cristiano’. ‘Allora sei un infedele’, gridava, ‘e visto che sei un infedele, a meno che non ti converti, ti taglieremo la gola’. Ma non ho mai firmato niente per rinunciare al cristianesimo”.

Il sacerdote ha parlato con Vatican Insider della sua esperienza e delle prospettive per il futuro:

Come celebrava la Messa sotto il regime jihadista?

A Quaryatayn siamo riusciti a celebrare la prima Messa il 5 settembre. Gli jihadisti dello Stato Islamico ci hanno riportati – eravamo più di 250 cristiani – nella nostra città, dopo averci tenuti in ostaggio in vari luoghi. Abbiamo trovato uno spazio sotterraneo in un edificio situato in quello che una volta era un quartiere cristiano. Mentre – fedeli siro-cattolici e siro-ortodossi – celebravamo la Messa insieme, eravamo pieni di stupore per il miracolo che stavamo sperimentando.

Tutti?

Sì, e io in particolare. Era la prima Messa che celebravo dopo quattro mesi e 15 domeniche trascorsi in prigionia. All’inizio c’era paura: e se fossero apparsi gli jihadisti? Come avrebbero reagito? Poi ho sentito un senso di gratitudine che mi invadeva, un’impellenza di rendere grazie a Dio che mi aveva sostenuto in tutte quelle prove, anche se mi avevano detto che mi avrebbero sgozzato se non mi fossi convertito.

Ho pensato molto a quella Messa dopo aver sentito la notizia del martirio di padre Jacques Hamel, ucciso sull’altare della sua parrocchia in Francia.

Durante la sua prigionia, quando non poteva celebrare la Messa con gli altri, cosa faceva?

All’alba cantavo sempre tutta la Messa, ricordando il coro della mia parrocchia e le Messe celebrate al monastero di Mar Mousa. Per un po’ sono stato tenuto prigioniero anche a Raqqa, la città da cui è sparito Paolo Dall’Oglio. Quando ero lì, lo immaginavo in una situazione simile alla mia nella stessa città, magari a breve distanza da me, e lo sentivo vicino, come se fosse all’inizio del nostro viaggio monastico comune a Mar Mousa, il monastero nel deserto. Il bagno in cui hanno tenuto rinchiuso aveva una robusta porta di ferro che mi ricordava la porta della mia cella in monastero. Ho provato un legame paradossale di amicizia con quella prigione. Non era un ambiente confortevole, soprattutto per via delle mie fragili condizioni di salute, ma non provavo angoscia. Sentivo la grazia sperimentata da San Paolo quando ha sentito il Signore dirgli ‘La mia grazia è abbastanza per te’. Anche nella mia debolezza più profonda, Lui ha rivelato la Sua forza”.

Dopo il suo rilascio, Mourad ha vissuto in monasteri in Italia e in Iraq per un periodo. Tornato in Siria nel 2020, è stato vice-superiore della comunità ed economo, e membro del Collegio dei Consulenti dell’Arcieparchia di Homs, l’arcidiocesi che ora guiderà.

A seguito della sua liberazione ha commentato: “Provo ancora per i miei rapitori lo stesso sentimento che nutrivo per loro quando ne ero prigioniero: compassione. Questo sentimento deriva dalla mia contemplazione dello sguardo di Dio su di loro, nonostante la loro violenza, che è lo stesso che ha per ogni uomo: uno sguardo di pura Misericordia, senza alcun desiderio di vendetta”.

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