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L’albero di Natale vicino alla salma di Benedetto XVI? Ha più senso di quanto credi

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Lucia Graziano - pubblicato il 02/01/23
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C’era un piccolo alberello di Natale, nella camera ardente di Benedetto XVI al monastero Mater Ecclesiae. E se molti si sono stupiti e inteneriti di fronte a quello spettacolo così familiare e intimo, noi oggi riflettiamo su come quell’alberello decorato fosse esattamente al posto giusto, lì dov’era.

Commoventi, le immagini della camera ardente che, nel pomeriggio del 1° gennaio, ha ospitato la salma di Benedetto XVI nel monastero Mater Ecclesiae, prima del suo trasferimento solenne a San Pietro. A colpire è l’atmosfera di intimità domestica che si respirava tra le quattro mura di quella cappellina: un presepio da un lato e un albero di Natale dall’altro, proprio come accadrebbe per un vecchio babbo che viene a mancare nella sua casa, circondato dall’affetto dei suoi cari.

E se la presenza di un presepio al fianco di Benedetto XVI strappa un sorriso intenerito, ma certo non stupisce (stiamo pur sempre parlando di un simbolo sacro), vedere un albero di Natale nella camera ardente di un papa è davvero un inatteso colpo di scena. Qualcuno se n’è anche stupito, domandandosi come mai si sia scelto di dare tanto rilievo a un simbolo così particolare: validissima domanda, alla quale si potrà dare una risposta forse scontata. Banalmente, il fatto è che Joseph Ratzinger era un grande estimatore degli alberi di Natale. 

(FOTOGALLERY) Traslazione della salma di Benedetto XVI nella Basilica di San Pietro

«Un significativo simbolo del Natale»: così lo definì Benedetto XVI

Nonostante oggigiorno in alcuni fedeli sembri affacciarsi la tentazione di snobbare il pino decorato, visto come simbolo del Natale consumista a cui sarebbe invece opportuno preferire il “cattolicissimo” presepe, Benedetto XVI precisò in più d’una occasione che questa contrapposizione non ha ragion d’essere. Nel dicembre 2008, ricevendo in udienza una delegazione dei fedeli del Trentino-Alto Adige (la regione che quell’anno s’era fatta carico di donare l’albero di Natale che avrebbe fatto bella mostra di sé a San Pietro), papa Ratzinger aveva espresso parole di elogio per quel «vetusto abete, tagliato senza recare danno alla vita del bosco e adeguatamente addobbato». Lo aveva definito «significativo simbolo del Natale di Cristo», che «con le sue foglie sempre verdi richiama la vita che non muore»; ma non solo. Al di là di questo significato religioso, Benedetto XVI aveva voluto sottolineare che l’albero di Natale «è pure simbolo della religiosità popolare», elemento caratteristico «di quel clima tipico del Natale che fa parte del patrimonio spirituale delle nostre comunità. È un clima soffuso di religiosità e di intimità familiare, che dobbiamo conservare anche nelle odierne società»; ovviamente, senza far mancare accanto all’albero il bel presepe della nostra tradizione, che infatti papa Ratzinger aveva richiamato nel suo discorso… ma senza che i due simboli debbano essere intesi in contrapposizione.

«Quasi tutte le usanze prenatalizie hanno la loro radice in parole della Sacra Scrittura» (sì, anche il pino decorato a festa)

“Ma non è forse vero che l’albero di Natale trae le sue radici da antichi culti precristiani?”, potrebbe commentare qualcuno, tirando in ballo druidi, celebrazioni solstiziali e ricostruzioni storiche più o meno accurate.

In realtà, l’allora cardinal Ratzinger aveva affrontato questo tema nel 1978, parlando ai fedeli della diocesi di Monaco e Frisinga. «Quasi tutte le usanze prenatalizie hanno la loro radice in parole della Sacra Scrittura», aveva spiegato con fermezza: «il popolo dei fedeli ha, per così dire, tradotto la Scrittura in qualcosa di visibile». E così, «gli alberi adorni del tempo di Natale non sono altro che il tentativo di tradurre in atto queste parole: il Signore è presente, così sapevano e credevano i nostri antenati; perciò gli alberi gli devono andare incontro, inchinarsi davanti a lui, diventare una lode per il loro Signore». 

In effetti, qualche secolo prima era stato un altro vescovo bavarese, Frederick di Bamberga, a riportare un evento prodigioso che, a quanto scrisse, aveva avuto luogo nella notte di Natale del 1425: un melo che cresceva vicino alla cattedrale era miracolosamente fiorito in pieno inverno. In quell’assurdo albero fiorito, che si riempiva di pomi rossi nel bel mezzo di una distesa di ghiaccio e neve, parve all’epoca di poter scorgere un’eco della profezia con cui Isaia annunciava la venuta del Redentore, scrivendo «si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso, fiorisca; sì, canti con gioia e giubilo». 

Proprio in quegli stessi anni, cominciava a diffondersi nel sud della Germania la consuetudine di addobbare a festa piccoli alberelli, nel periodo di Natale. All’epoca, in realtà, non si trattava di sempreverdi ma di semplici piante ormai spoglie; agghindarle con festoni colorati, piccole decorazioni e ghirlande di sempreverdi era un gesto che, agli occhi dei fedeli, aveva un significato cristiano ben preciso: equivaleva a gridare “è nato per noi Gesù, luce che spezza le tenebre, giunto per ridare a questo mondo vita nuova”. E allora era bene che il mondo intero si animasse d’un palpito di gioia, nel giorno di Natale: simbolicamente, persino gli alberi spogli sembravano rifiorire… grazie alla collaborazione dei fedeli, che li agghindavano a festa per l’occasione. 

I primi alberi di Natale? Venivano allestiti all’interno delle chiese: era “Il gioco d’Adamo”

Dove venivano esposti, all’epoca, questi alberelli di Natale? Indubbiamente in molti luoghi (e quasi sempre in luoghi pubblici, affinché il maggior numero possibile di persone avesse modo di bearsi della vista); ma il luogo d’elezione in cui allestire gli alberelli era proprio quello che Joseph Ratzinger ci ha indicato ieri: l’interno delle chiese. E senza alcun timore!

Nell’Europa medievale, sarebbe stato quasi impossibile entrare in una chiesa il 24 dicembre senza vedere un albero decorato che faceva bella mostra di sé, in posizione ben visibile accanto all’altare. La pianticella non era lì per ragioni puramente estetiche, anzi aveva una funzione pratica: era parte integrante della scenografia di un dramma sacro intitolato Ordo representationis Ade (o, più popolarmente, Il gioco d’Adamo) che quasi tutte le chiese mettevano in scena la Vigilia di Natale, per la gioia e l’edificazione dei fedeli.

Formalmente, si trattava di uno spettacolo teatrale con tanto di scenari, attori in maschera, sceneggiature e così via dicendo. All’atto pratico, Il gioco d’Adamo veniva recitato all’interno delle chiese perché i sacerdoti lo ritenevano un utile strumento di catechesi, capace di educare i fedeli attraverso un’attività di alto impatto emotivo. Abbiamo testimonianza di come questo dramma sacro fosse conosciuto in tutta Europa (e avesse particolare popolarità proprio nelle diocesi del sud della Germania); arriva dalla Francia l’unico manoscritto, redatto attorno al 1150, a darci conto dell’intera sceneggiatura, che ripercorreva le tappe principali della Storia della Salvezza. 

Il dramma si componeva di tre parti: la tentazione e la caduta di Adamo ed Eva, l’orribile assassinio di Abele e, infine, la processione dei profeti che annunciavano agli spettatori la venuta imminente di Cristo. Per i due terzi dello spettacolo, il diavolo (dalla presenza opprimente e assillante, grazie a un attore che non abbandonava mai la scena e anzi arrivava persino a dare il tormento agli spettatori) sembrava essere il vincitore annunciato di questo scontro tra il bene e il male. Ma già alla fine del primo atto Eva si accomiatava dal pubblico pronunciando parole di pentimento cariche di speranza; e, naturalmente, la processione dei profeti che concludeva lo spettacolo rassicurava il pubblico con fermezza: la venuta di Gesù era vicina; il male sarebbe stato sconfitto, infine. 

E, per chi a questo punto avesse la giusta curiosità di vedere come fosse concretamente organizzato uno di questi drammi sacri, segnaliamo che gli studenti dell’Università dell’Illinois hanno recentemente messo Il gioco d’Adamo, riproponendo con perfetta accuratezza filologica la sceneggiatura originale, tradotta in lingua inglese.

“Cosa c’entra, in tutto questo, l’albero di Natale?”, potrebbe giustamente domandarsi qualcuno. 

Beh: è chiaro che se devi mettere in scena uno spettacolo in cui descrivi la caduta di Adamo ed Eva, avrai bisogno di un albero da cui possa essere raccolta la famosa mela. E poiché, alla vigilia di Natale, gli alberi di melo erano già ampiamente spogli, i sacerdoti di un tempo dovevano adattarsi con gli… “effetti speciali”: portavano in chiesa un qualsiasi alberello e legavano ai suoi rami qualche ninnolo, foglie finte e un paio di frutti, confidando nell’immaginazione e nella clemenza del pubblico. 

L’albero di Natale: un segno più cristiano di quanto penseremmo

Gli storici non hanno dubbi: sono sicuramente questi, i “nonni” degli alberi di Natale che conosciamo oggi. Pian piano, l’abitudine di decorare questi alberelli uscì dalle chiese, si spostò sui sagrati e, da lì, cominciò a farsi strada anche in contesti extra-ecclesiali: edifici municipali, palazzi privati, saloni dell’aristocrazia, salotti borghesi. Fu una lenta evoluzione che impiegò circa quattro secoli per giungere a completamento: gli alberelli spogli si trasformarono in più estetici sempreverdi; le decorazioni si fecero sempre più elaborate; col tempo, piccole candele cominciarono a brillare tra le fronde, in omaggio alla luce di Cristo giunta per spezzare le tenebre del mondo.

Certo, l’albero di Natale cambiò forma; ma non sostanza, conservandosi sempre come quel simbolo cristiano che un tempo faceva bella mostra di sé nelle chiese. Sia ben chiaro: non v’è dubbio che numerose culture precristiane avessero autonomamente sviluppato nei secoli usanze simili, variamente legate agli alberi e al periodo invernale (del resto, sottolineare la promessa di una rinascita della natura a primavera incarna probabilmente un bisogno antropologico universale). Ma l’albero di Natale propriamente detto non è estraneo alla dimensione cristiana della festa; anzi, siamo noi contemporanei a sbagliare, spogliandolo ingiustamente del suo significato originario, quando storciamo il naso al pensiero di vederlo nelle chiese e vorremmo relegarlo ai salotti delle case (e magari nemmeno a quelli).

Per quanto mi riguarda, amo pensare che non sia stata causale la presenza vistosa di quell’alberello nella cappella che ieri ha ospitato la camera ardente di Benedetto XVI. Quel pino decorato a festa avrebbe ben potuto essere spostato in un’altra stanza, se la cosa fosse stata giudicata opportuna: e invece è rimasto lì, in bella mostra. E quando è simbolico che, anche dopo la sua morte, il professor Ratzinger sia in qualche modo riuscito a stimolare la nostra curiosità e a spingerci a fare qualche domanda sul “perché” dei simboli della nostra fede! Personalmente, anche in quell’alberello mi piace credere di poter scorgere un’ultima sua lezione.