La richiesta di Benedetto XVI è stata «esplicita», per citare le parole utilizzate da Matteo Bruni, direttore della Sala stampa vaticana, rispondendo stamane alle domande dei giornalisti: il papa emerito ha espressamente manifestato il desiderio «che tutto fosse all’insegna della semplicità, per quanto riguarda i funerali, i riti, i gesti di questo tempo di dolore».
E sicuramente sarà inedito sotto tutti i punti di vista, lo spettacolo che si offrirà agli occhi del mondo nella mattina del 5 gennaio, quando avremo modo di contemplare un papa regnante che presiede alla cerimonia funebre dell’emerito. Messi di fronte alla prospettiva di un evento che non esitiamo a definire “storico”, è sorta in noi la curiosità di chiederci: ma, in effetti, che ci può dire la Storia riguardo ai funerali pontifici? Quando si svilupparono, e in che modo si evolsero attraverso i secoli, le cerimonie funebri dei papi?
Per nostra fortuna, Agostino Paravicini Bagliani ha dedicato a questo tema una intera pubblicazione (Morte e elezione del papa, per l’appunto, data alle stampe da Viella nel 2013). E allora, facciamoci aiutare da questi studi per ripercorrere, passo passo, le grandi tappe che portarono alla nascita di una ritualità appositamente creata per dire addio a un pontefice defunto.
In origine, i funerali del papa erano identici a quelli di un vescovo
Sorprendentemente, bisogna attendere l’anno Mille per osservare un cerimoniale riservato in via esclusiva al vescovo di Roma: fino a quel momento, i riti funebri che venivano dedicati al papa erano identici a quelli in uso per qualsiasi altro vescovo. A darcene testimonianza c’è un passo tratto dalla Vita di papa Benedetto III (+ 858): quando il pontefice morì, i presbiteri e i diaconi della diocesi di Roma e i vescovi delle altre diocesi del Lazio si riunirono per raccomandare al cielo l’anima del defunto e per celebrare i suoi funerali. Si trattò certamente d’una cerimonia solenne, ma non diversa da quella che all’epoca veniva tributata a qualsiasi vescovo, specie se a capo di una diocesi importante: dunque, non esisteva una ritualità specifica con cui dire addio al papa.
Del resto, neppure il Liber Pontificalis, composto all’epoca di papa Felice V (+530), ci dà conto di cerimonie particolari appositamente approntate per l’occasione: i papi venivano sepolti con una certa solennità (generalmente, nel giorno stesso della morte), ma facendo uso delle normali liturgie comunemente utilizzate per i funerali vescovili.
Quando si scatena la caccia alla reliquia
Le cose, però, stavano lentamente cambiando: se non nella liturgia, certamente nella risposta emotiva del popolo romano. Già nel 595, di fronte ai vescovi riunitisi in concilio, papa Gregorio Magno aveva proibito di ricoprire con la veste dalmatica la salma del papa nel corso della processione che l’avrebbe condotto sul luogo di sepoltura. Non v’era dubbio che questo ultimo omaggio fosse tributato con le migliori intenzioni; e tuttavia, prestava il fianco ad abusi francamente imbarazzanti: capitava che i fedeli prendessero d’assalto il feretro per strappare pezzettini di stoffa dai vestiti che ornavano la salma. In effetti, numerose fonti danno conto del clamore che si levò nel 526 durante i funerali di papa Giovanni XIII, quando un malato dichiarò di essere stato prodigiosamente guarito da tutti i mali transitando davanti al feretro del pontefice: la folla gridò al miracolo e iniziò a fare a brandelli le vesti del defunto, considerandole reliquie. E se Gregorio Magno non aveva dubbio circa il fatto che questi gesti venissero fatti «per amore» e «in segno di riverenza verso la santità del defunto», era altrettanto chiaro che quella forma di riverenza era a dir poco opinabile. Fu lui il primo papa a incoraggiare lo svilupparsi di una ritualità che potesse lasciare spazio a devozione, preghiera, memoria e onore, ma senza dar luogo a inopportune “canonizzazioni a furor di popolo”.
Le ultime parole di Leone IX: certo muore un papa, ma la Chiesa continua a vivere
Purtroppo o per fortuna, la caccia alle reliquie non si limitava alle vesti indossate dal papa al momento della sua sepoltura. Le fonti storiche danno conto dell’imbarazzante malcostume di saccheggiare (talvolta, in senso molto letterale!) le stanze del defunto papa all’interno del palazzo apostolico. Non si trattava di furti (unicamente) motivati dal valore economico dei beni (anche se i cercatori di reliquie mostravano una curiosa predilezione per oggetti di un certo pregio: nel 885, il neo-eletto papa Stefano V scoprì con sgomento che qualcuno aveva fatto irruzione nelle stanze del suo predecessore rubando gioielli, vasi sacri e oggetti liturgici d’oro massiccio). In realtà, nemmeno gli oggetti di uso più quotidiano potevano ritenersi immuni a questa “cleptomania” devozionale: era come se tutti volessero portarsi a casa un ricordo, anche piccolo, di quel papa tanto amato.
E, in tal senso, è vagamente esilarante un aneddoto che ci viene riferito dai biografi di papa Leone IX: nella mattina del 18 aprile 1054, in tutta Roma si sparse la voce che il papa fosse entrato in agonia. Sicuramente il pontefice era gravemente ammalato (sarebbe morto il giorno successivo), ma era ancora vigile e cosciente nel momento in cui i suoi collaboratori lo informarono del fatto che, dandolo già per defunto, i Romani si stavano precipitando verso la sua abitazione per portarsi a casa qualche souvenir, «come erano soliti fare». Difficile visualizzare l’assurdità di quel momento, ma Leone IX radunò le ultime forze per pronunciare dal suo letto di morte un ultimo discorso sulla funzione del pontefice e sul rispetto che è doveroso tributargli: se, con la morte del papa, un uomo viene a mancare, giammai verrà a mancare la Chiesa, di cui quel singolo uomo è stato a capo per qualche tempo. Dunque, poiché è alla Chiesa (e non al singolo uomo) che appartengono i beni contenuti all’interno del palazzo apostolico, è irrispettoso (e oltretutto concettualmente illogico) che i fedeli si ostinino a volerseli portar via.
Vagamente surreale, il pensiero di un papa che deve passare le sue ultime di ore di vita impegnato in queste occupazioni; però, il sacrificio di Leone IX portò buon frutto: le sue parole riuscirono a porre fine (e definitivamente) a questo malcostume. E probabilmente non è un caso che proprio a partire dalla sua morte abbia gradualmente cominciato a svilupparsi una ritualità specifica, appositamente approntata per l’occasione: il fulcro stava nella necessità di sottolineare agli occhi dei fedeli che, sì, il singolo papa è morto, la Chiesa non resterà mai senza una guida.
Il primo cerimoniale funebre pontificio? A comporlo, fu Pietro Ameil
Per avere un cerimoniale funebre pontificio propriamente detto bisogna però aspettare la fine del XIV secolo: a comporlo fu il vescovo Pietro Ameil (+1400), che in veste di confessore ufficiale di papa Gregorio XI e poi di Urbano VI ebbe modo di assistere più d’un pontefice nell’ora estrema della morte.
Non a caso, Ameil ritiene che la preparazione dei funerali del papa debba necessariamente abbracciare innanzi tutto la sfera spirituale: nel momento in cui i medici si rendono conto che «la morte si avvicina e che non è in loro potere ritardarla oltre», devono comunicare la situazione con estrema franchezza, ordinandogli di cominciare a pensare «alla sua anima e alle sue cose» (mentre loro si occuperanno, per quanto possibile, del suo corpo). Se ancora non ha provveduto, il papa dovrà affrettarsi a dettare il suo testamento alla presenza di tutti i cardinali, avendo cura di destinare una congrua somma di denaro ai collaboratori che lo hanno servito fedelmente. Di fronte ai porporati, il papa dovrà dichiarare di essere intenzionato a morire «nell’unità della fede», chiedendo loro di perdonare qualsiasi mancanza che egli dovesse aver avuto nel corso del suo pontificato. Ai cardinali, il papa morente dovrà «raccomandare la Chiesa» affinché essi provvedano secondo la loro coscienza a eleggere, «in pace e tranquillità», il suo nuovo pastore.
Nell’imminenza della morte, il papa dovrà naturalmente ricevere i sacramenti; uno dei suoi collaboratori dovrà avere cura di tenergli davanti una croce, facendogliela baciare frequentemente «a memoria della passione di Cristo». Il camerlengo farà bene a mettere sotto chiave tutti gli oggetti appartenuti al papa, con particolare cura per quelli che sono stati maggiormente a contatto col suo corpo (e che evidentemente potevano ingenerare quel fastidioso “effetto-reliquia” di cui s’è detto): la tovaglia della sua ultima cena, le stoviglie da lui utilizzate per il suo ultimo pasto, il rasoio e i tovaglioli usati dal barbiere per curargli il viso per l’ultima volta.
Esalato ormai l’ultimo respiro, il papa dovrà essere rivestito con ogni onore: con sandali bianchi, cingolo, subcintorio, fanone, stola, tunicella, manipolo, dalmatica, pianeta e pallio. Sul capo verranno posate la berretta e la mitra bianca; il fanone dovrà essere piegato sulle spalle come se il defunto stesse per celebrare. Il feretro, circondato da candele accese, dovrà essere ricoperto di drappi di seta bianca e rossa: e solo a quel punto potranno aprirsi le porte del palazzo apostolico, per permettere ai cardinali (dapprima) e poi ai fedeli tutti di accomiatarsi con un ultimo saluto.
I funerali si sarebbero tenuti al nono giorno della morte, al termine di una novena di preghiera che aveva presumibilmente lo scopo precipuo di permettere a tutti gli interessanti di raggiungere Roma in un contesto in cui i trasporti non erano certo agevoli. Curiosamente, durante questi nove giorni, i cardinali avrebbero dovuto evitare di indossare le loro vesti rosse: non era quello il momento per farsi vanto della posizione raggiunta o per alimentare pettegolezzi circa il possibile esito del conclave. Unicamente per la preghiera, e per null’altro all’infuori di quella, doveva esserci spazio in quei giorni. E su quest’ultima raccomandazione, davvero vien da dire che i medievali ci avessero visto lungo.