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Solo la fede illumina la nostra mente

Jezus Chrystus na ikonie

Adam Jan Figel | Shutterstock

fra' Almir Ribeiro Guimarães - pubblicato il 14/12/22

L'importanza di non confondere “speranza” e senso di “benessere”

Molti di noi, fin dall’infanzia, hanno acquisito familiarità con i temi della fede: Dio, la Trinità, Gesù, l’Eucaristia, il perdono, la penitenza. Fino a che punto la Buona Novella ci ha trasformati davvero? Fino a che punto crediamo veramente? Vediamo come si colloca la nostra fede davanti al silenzio di Dio nella morte di Gesù, o forse a quello che Gesù ha vissuto, o come illuminare le nostre notti partendo da quel silenzio del Padre nel momento finale del percorso umano del Figlio.

Perché quel silenzio del Padre? L’intera scena della morte di Cristo in San Marco è costruita sul tema “Scenderà? Scenderà o no?” La gente passa e dice: “Se tu sei il Cristo, scendi dalla croce” (Mc 15,30); il soldato romano dà a Cristo da bere e dice: “Vediamo se Elia lo fa scendere dalla croce” (v. 36). Gesù rimane sospeso, non dice nulla, non sente nulla che Gli liberi le braccia e le gambe, Lui che in precedenza aveva sentito una forza uscire da Sé quando aveva guarito una donna. L’oscurità che era scesa sulla Terra corrisponde a quella che regna nel Suo cuore. È notte, e Lui muore. Al momento della sua morte il centurione esclama: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (v. 39). La divinità di Gesù si rivela non nel fatto che avrebbe potuto scendere dalla croce, ma nel fatto che è andato fino in fondo nel silenzio di Dio, fino alla morte, ed è in quel momento che passa il messaggio. Quando Dio tace, è il momento del coraggio, perché è allora che il Regno si estende sulla Terra. Certo, Cristo nel cuore non stava “processando” il Padre. Cercava, chiedeva: “Perché mi hai abbandonato?” (v. 34).

Viviamo le nostre notti esistenziali e non abbiamo sempre spiegazioni soddisfacenti per la sofferenza e la morte degli innocenti, o semplicemente di tanti esseri umani che soffrono per malattie, pandemie, dolore. La sofferenza e la morte non possono essere un cammino di disperazione. Se il Figlio di Dio ha imboccato questa strada, non è realmente un cammino di disperazione: la Passione e la Morte di Cristo mi impediscono di essere schiacciato dalla sofferenza del mondo. Se il Figlio di Dio che viene nel mondo ha affrontato tutto questo, se anche gli uomini lo affrontano, vuol dire che la sofferenza e la morte sono vie di divinizzazione.

“I lettori mi diranno, ‘Questa è una risposta facile’. Dirò ‘Trovane una migliore’. È una risposta di speranza: niente di quello che soffrono gli uomini, apparentemente del tutto ‘senza senso’, è davvero ‘senza senso’. Non abbiamo il diritto di disperare, anche quando la situazione può sembrare senza speranza: sarebbe non credere a quello che ha fatto Gesù” (Ghislain).

Non confondiamo la “speranza” con la sensazione di “benessere”. Speranza significa che posso affrontare qualsiasi sofferenza con la sofferenza di Cristo, e so che la sofferenza di Gesù Cristo dà senso alla mia. Per noi cristiani è importante credere a questo. Solo se ci crediamo possiamo vivere accanto alle persone sofferenti e apparire come lievito di speranza.

“Prima di morire, il cardinal Veillot chiedeva che i sacerdoti non offrissero consolazioni poco tempestive e inoperanti sul tema della morte. Penso che non si tratti di parlare, ma di credere e di ‘stare con’. Chi crede, dinanzi all’uomo che soffre, che Gesù Cristo soffre in quest’uomo, per la sua fede libera interiormente l’altro, o gli altri; non ha bisogno di vedere come e perché: sa che lo libera”.

Fonte: Jusqu’au bout du silence de Dieu, Ghislain Lafont, in Et la vie jaillira, Lectures Chrétiennes – Éditions Abbaye d’Orval, p.88-89

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