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Perché a messa supplichiamo altri di pregare per i nostri peccati?

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 28/11/22

Che c’entro io, coi peccati degli altri, e soprattutto che c’entrano gli altri con i peccati (pochi e piccoli) miei? Più di quanto si pensi, in realtà…

Vi è mai capitato di trovarvi intristiti, ma anche angosciati, se venite a sapere di un vostro amico che ha fatto qualcosa di grave e di brutto? Chiaramente se ha commesso un crimine siete sconvolti, e vi dite che davvero non si può dire di conoscere a fondo una persona. Però anche se non è un vero e proprio crimine, ciò di cui si parla – mettiamo che il vostro amico abbia tradito la moglie, o che (peggio ancora) abbia abbandonato il tetto coniugale –, venite presi da una sorta di malessere. Perché? 

Quella strana tristezza per il peccato altrui…

Senza dubbio pensate alle persone coinvolte, che probabilmente conoscete e a cui volete bene: nell’esempio addotto, pensate alla moglie tradita e abbandonata, ai figli che perdono una figura di riferimento, ai parenti e ai conoscenti che d’ora in poi si troveranno quanto meno in imbarazzo nella gestione dei rapporti. Tutto qua? 

Ci sono certamente delle questioni di ordine pratico che vengono coinvolte dalla posizione di atti sbagliati, e questo anche in cose minime. Un bambino fa una marachella e viene rimproverato dalla madre, ma la prega di non riferire la cosa al padre: questa magari ritiene che la sua rampogna sia stata sufficientemente proporzionata al danno, poi pensa al marito che sta già passando un periodo pesante sul lavoro, e quindi (con l’intenzione di risparmiargli un pensiero in più) acconsente. La cosa non varca la soglia di casa, e anzi neanche della stanza in cui è accaduta, eppure per via di quella sciocchezza un coniuge cela intenzionalmente all’altro qualcosa – e un figlio registra che questa anomalia è avvenuta (per di più, su sua richiesta). 

Se guardiamo in modo così analitico l’agire umano, nulla o quasi sarà esente da imperfezione, e potrà sembrare che in fondo abbiamo bisogno di vivere un po’ “più leggeri”: torniamo allora al caso più grave, diciamo all’amico che tradisce la moglie e abbandona il tetto coniugale. Se tutte le conseguenze del suo gesto restassero nell’ordine pratico – ed è ovvio che ce ne siano molte, essendo ogni peccato una violazione dell’ordine delle nostre vite e del mondo –, dovremmo dirci più seccati che intristiti oppure angosciati. 

Che cosa aggiunge la tristezza e l’angoscia, allora? Magari il concorso di alcune circostanze: ad esempio, avete saputo della cosa da terze persone e non da lui – il che getta improvvisamente un’ombra sul vostro rapporto e su quanto ne pensavate, oltre che su di lui e su quanto credevate di saperne. O altro ancora… 

Quello che resta formalmente comune a molte, se non a tutte le esperienze possibili in tal senso è che ci si scopre all’improvviso un po’ più soli di quanto si pensasse. Non soltanto quella persona si è radicalmente allontanata dalla propria famiglia, nel caso di specie preso ad esempio, ma – ponendo quegli atti disordinati – si è allontanata anche da tutti quelli con cui aveva intessuto relazioni. 

La “dimensione collegiale” della vita etica

Ciò riposa sul fatto che la vita etica ha una sua dimensione sociale, e possiamo dire anche “collegiale”, per la quale la buona condotta degli amici (già Aristotele escludeva che si potesse dare vera amicizia fuori dalla comunanza di vita morale – al limite, in quel caso, si parla di complicità) produce collateralmente l’effetto di confermarci nei nostri buoni propositi e dunque di consolidare la nostra stessa determinazione alla vita buona. 

Viceversa, quando una persona a noi prossima ha una defezione avvertiamo un senso di disagio e di tristezza, che da una parte è delusione e disillusione riguardo all’identità e alle qualità altrui… dall’altra è però è un dubbio spaventoso che va a corrodere la nostra stessa determinazione al bene. In fondo, è come se ci dicessimo (sempre restando nel caso di specie): «Quell’amico ha tradito la moglie e abbandonato i figli… Pazzesco! E non è una persona peggiore di me… In fondo forse potrei farlo anche io…». Sulle prime è come una ventata gelida che entra dalla finestra: si corre subito a chiuderla, cioè ci si dice che no, sono cose diverse, e che noi non potremmo mai e via dicendo. Di fatto, però, ci sentiamo meno sicuri di quanto fossimo fino a poco prima. 

La Chiesa come un gruppo di sostegno (e molto più di questo)

Mi confermava in questi pensieri un amico che ha un passato da alcoolista, e che pur essendo ormai sobrio da molti anni mi confermava come – nei gruppi di sostegno – ogni racconto di ricaduta, da parte di un membro, produca uno stress sul gruppo – e lì (dove ci si riunisce proprio avendo in comune una dipendenza) è fin troppo chiaro che la ragione è l’“indebolimento sociale” del proposito di ravvedimento. Si è tristi per il male fatto dall’altro… e angosciati per il fatto che anche noi potremmo farlo (o tornare a farlo). 

È dunque una condizione tanto disperata, la nostra? No di certo, ma è molto seria – e dunque va presa con molta serietà. Potremmo aver commesso ogni crimine, come scriveva Thérèse de Lisieux in una bella poesia, e tuttavia potremmo (anzi dovremmo!) conservare ferma fiducia, ma non minimizzando il peccato: è vero, sì, che tutti i crimini del mondo sono davanti alla misericordia di Dio come una goccia d’acqua sospesa su un braciere ardente… ma fintanto che non la lasciamo evaporare in quel braciere, la goccia d’acqua è molto più che sufficiente ad affogarci – minuscoli come siamo. 

La “ratio mystica” di quella dimensione sociale della vita buona è quello che in teologia si è chiamato e si chiama “tesoro dei meriti di Cristo”, ovvero “comunione dei santi”: è vero ciò che Aristotele diceva e ciò che tutti noi esperiamo, ma quello che è ancora più vero è che Cristo ci ha resi partecipi della sua virtù infinita, offrendo così un sostegno indistruttibile al nostro proposito, e anzi un invito costante e suadente a non cedere alla disperazione (ciò che chiamiamo “la grazia”). 

Come funziona? Come si fa? Ci sono i sacramenti, evidentemente, primi fra tutti il Battesimo e la Confessione. E poi? In confessione si possono portare tutti i peccati – anche i “veniali”, che di per sé non costituiscono “materia necessaria” di confessione, e perfino le imperfezioni! –, ma un’azione parasacramentale in tal senso è compiuta anche dall’atto penitenziale all’inizio della messa. «Può darsi che tutta una Comunità chieda al Signore il perdono dei peccati e che lui non lo doni?» – chiedeva retoricamente un mio docente di Liturgia. No, certo, non può darsi, ma bisogna capire cosa si intende, e forse il ragionamento che stiamo conducendo può aiutarci. 

È infatti per la sapienza monastica che, probabilmente un po’ prima dell’anno Mille (ma non sappiamo dirlo con certezza, a oggi – ad ogni modo leggete la tesi dottorale di Valentina Angelucci per saperne di più), è stata inserita nella messa la formula del Confiteor, quella che (scorciata e semplificata) ancora oggi usiamo: 

Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli e sorelle… 

Uno non ci pensa, a quello che sta dicendo, perché se ci riflettesse probabilmente si ribellerebbe: va bene confessare a Dio (che tanto però già lo sa, quindi alla fine tanto vale sorvolare anche con Lui…), ma perché mi dovrei sbottonare anche con questi qua? Va bene, non sarò perfetto (e chi lo è?!), ma in fondo i miei sono peccatucci, cose quotidiane… a chi le devo confessare? A quello là? Lui sì che ne ha, di peccati – ah, come se non lo sapessi! Guardalo là, con la testa per aria mentre biascica a vanvera! E quell’altra là dietro col cellulare? Fa la distratta, sì sì… i peccati di quella pure le mattonelle del marciapiede li sanno! 

E finisce che veramente uno si ritrova a battere i petti altrui recitando un tanto bizzarro quanto inutile (e anzi dannoso) “sua culpa”. Invece è utile, e anzi necessario, chiedere perdono ai fratelli e alle sorelle per come dilapidiamo l’eredità comune: va bene che i meriti di Cristo sono infiniti, ma sperperarli non ci fa crescere, e non-crescere noi non aiuta gli altri a fare meglio. Di questo dobbiamo chiedere perdono – a Dio e agli altri. 

E tu dov’eri, mentre il tuo amico tradiva la moglie?

E anzi, la parte che comincia con “E supplico…” è la migliore; quella che ci permette di rialzare la testa, dopo esserci battuti il petto, e di ricominciare veramente a vivere – supplichiamo gli altri (dalla Madonna in giù) di pregare Dio per noi. E non perché noi ce ne laviamo le mani: se tutti pregano tutti di questo significa che ciascuno è impegnato a farlo per tutti gli altri, oltre che per sé! L’esercizio di pregare per gli altri peccatori, però, è utile perché ci mette nella posizione di avvocati altrui, laddove noi preferiremmo sederci sull’ampio scranno del giudice. 

«È vero che quel mio amico ha tradito la moglie e abbandonato i figli – potremmo allora riflettere –, ma non mi ero accorto che era stranamente euforico, qualche mese fa? Perché non l’ho invitato a pranzare insieme? Magari si sarebbe aperto, confidato, e la cosa sarebbe finita in una bolla di sapone esplosa». 

Perché tante volte ci buttiamo via in momenti di isolamento, quando fatichiamo a mettere a fuoco la gerarchia dell’esistenza: allora tutti ci troviamo «a sognare di andar via / con il primo che ci capita / e che ci dice una bugia». Tutti, è vero: anche noi che non lo facciamo – e che qualche volta non lo facciamo soprattutto per paura e per viltà. Ecco che all’improvviso, proprio pensando ai peccati altrui (ma domandandomi che prossimo sono stato, io, per questo amico che si è perso), trovo di che battermi lungamente il petto – io che pensavo di cavarmela con un toc-toc di prassi (quando si chiede perdono tutti insieme e seguendo un rituale ci si può illudere che sia come se nessuno lo stesse facendo). 

«Caino, dov’è tuo fratello?» «Adamo, dove sei?»: le due domande con cui l’Eterno ci accoglie all’inizio di ogni celebrazione eucaristica sono quelle che ci ricordano come la santità non sia una questione individualistica… e neppure il peccato, o perlomeno non il peccato da cui uno vorrebbe essere redento. L’unico posto in cui il peccato è realmente, radicalmente ed esclusivamente un tuo problema, e un problema solo tuo, è l’inferno. 

Poiché questo è il messaggio che avete udito fin da principio:
che ci amiamo gli uni gli altri.

1Gv 3,11

Incoraggiatevi dunque gli uni gli altri
con queste parole.

1Tes 4,18

Guardate che nessuno renda ad alcuno male per male;
anzi cercate sempre il bene gli uni degli altri
e quello di tutti.

1Tes 5,15


Facciamo attenzione gli uni agli altri
per stimolarci all’amore e alle buone opere.

Eb 10,24

Confessate dunque i vostri peccati gli uni agli altri,
pregate gli uni per gli altri affinché siate guariti;
la preghiera del giusto ha una grande efficacia.

Gc 5,16

Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda,
se uno ha di che dolersi di un altro.
Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi.

Col 3,13

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