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È vero che la Chiesa proibiva di leggere la Bibbia?

Inquisition : "Les inquisiteurs interrogent un heretique sous la torture, 15eme-16eme siecle" (Inquisition : inquisitors questioned under torture a heretic, 15th-16th century) Engraving 19th century Private Collection ©The Holbarn Archive/Leemage

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Lucia Graziano - pubblicato il 16/11/22
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Quanto c’è di vero nelle affermazioni per cui, in passato, la Chiesa cattolica proibiva ai laici di leggere la Bibbia? È una storia complessa: scopriamola assieme.

Nel suo Il Libro dei Libri (Garzanti, 2021), il biblista John Barton chiude la questione in poche parole, con toni che non lasciano molto spazio alle repliche: «secondo un vecchio stereotipo, ai laici sarebbe stato negato l’accesso al testo biblico fino a quando i protestanti non avevano cominciato a rivendicare il proprio diritto a leggerla. In realtà, la Bibbia fu un libro accessibile per la maggior parte del medioevo»; e di certo non si può accusare Barton di essere parziale nella sua difesa della Chiesa medievale, tenuto conto del fatto che lo studioso è anche un presbitero anglicano.

Ma, oggettivamente, il cattolicesimo medievale non nutriva particolari timori riguardo la lettura privata della Bibbia: come spiega il biblista, l’attività era alla portata in tutti, «almeno in linea teorica, considerato che, essendo gran parte della popolazione analfabeta, pochi erano comunque in grado di leggerla da soli. Inoltre, la produzione di un manoscritto biblico era un processo molto dispendioso».

I sinodi di Tolosa e Tarragona e quelle Bibbie proibite nel Medioevo

L’idea che nel Medioevo esistesse un divieto di leggere la Bibbia è, obiettivamente, in larga parte esagerata, frutto d’un mito che trovò agile diffusione nei primi secoli dell’età moderna. A scopo di propaganda, le Chiese protestanti (che fin da subito avevano incoraggiato una frequentazione quotidiana con i testi sacri) ingigantirono polemicamente un paio di divieti che nel Medioevo esistettero sì, ma non ebbero l’impatto dirompente che viene spesso attribuito loro.

È certamente vero che, nel 1229, il concilio di Tolosa proibì ai laici di possedere una copia della Bibbia e che, nel 1234, il concilio di Tarragona diede ordine di bruciare tutti i volumi dei testi sacri tradotti in lingua in volgare. Per amore di correttezza storica, bisognerà però sottolineare che i sinodi in questione non erano concili ecumenici: i provvedimenti, cioè, avevano carattere locale ed erano in vigore solo in piccole zone d’Europa. E non in zone a caso: in quel periodo, Tolosa era la roccaforte dei catari e a Tarragona stavano trovando crescente diffusione alcuni movimenti pauperistici riconducibili al valdismo; il divieto di tenere in casa una Bibbia (e dunque di leggerla privatamente, senza l’ausilio di un sacerdote) nasceva, per così dire, in un contesto di emergenza e aveva lo scopo dichiarato di arginare la diffusione di idee ereticali.

Il problema era: quale Bibbia si finiva per leggere?

Ma, nelle zone d’Europa in cui non esisteva questa problematica, non esisteva neppure il divieto di cui sopra: in Italia, per esempio, i volgarizzamenti della Bibbia erano numerosissimi. Nel 1471, vide la luce la prima edizione a stampa di una Bibbia in lingua italiana, tradotta dal monaco camaldolese Nicolò Malermi: evidentemente, un’operazione perfettamente lecita. E perfettamente lecito sarebbe stato pure (e per chiunque) entrare in libreria a comprarsene una copia.

Nel Medioevo, i veri ostacoli che impedirono al laicato di familiarizzare con la Bibbia furono l’alto tasso di analfabetismo e il costo elevatissimo di un testo manoscritto. Per ragioni di praticità e di economia, molti fedeli preferirono tenersi sul comodino raccolte di testi biblici che contenevano solo una piccola parte delle Scritture (molto gettonate le raccolte del solo Pentateuco, dei soli Vangeli e dei soli libri sapienziali). Ma se qualche laico avesse avuto il desiderio e la disponibilità economica di procurarsi una Bibbia intera, non sarebbe incorso in alcuna forma di censura.

Ma è vero che la Bibbia era nell’Indice dei Libri Proibiti?

Tutto cambiò nelle prime decadi dell’età moderna, e – se vogliamo – per comprensibili ragioni: la nascita delle Chiese protestanti aveva esteso a tutta Europa la situazione “di emergenza” che, nel XII secolo, aveva inquietato i vescovi di Tolosa e Tarragona. Mentre la Riforma si diffondeva a macchia d’olio, facendo della sola Scriptura un suo baluardo, la Chiesa cattolica scelse di reagire alla minaccia mettendo (letteralmente) all’Indice tutti quei volgarizzamenti della Bibbia che non erano stati preventivamente autorizzati dall’autorità ecclesiastica. E non solo: nel 1559, l’Indice dei Libri Proibiti elencò quarantacinque edizioni della Bibbia in Latino di cui era comunque vietato il possesso, perché accompagnate da un apparato di note che tendeva verso le dottrine protestanti.

Inoltre, agli aspiranti traduttori che avessero voluto cimentarsi in una nuova edizione della Bibbia in lingua locale fu imposto un netto divieto a procedere. In Italia, restava sempre possibile la stampa della Bibbia tradotta dal Malermi, ma anche quella doveva essere maneggiata con cautela: il laico che fosse stato interessato a possederne una copia avrebbe dovuto ottenere un permesso speciale dal suo vescovo, il quale l’avrebbe concesso solamente dopo aver vagliato attentamente le motivazioni della richiesta.

Ma perché i vescovi aveva così tanta paura al pensiero di un laico che legge la Bibbia?

A preoccuparli erano due possibili scenari: innanzi tutto il timore che, nelle mani del laico, finisse un’edizione imprecisa e parziale, redatta in ambienti protestanti. In secondo luogo, il rischio che un laico non adeguatamente formato potesse fraintendere e mal interpretare ciò che leggeva nel testo sacro, finendo col costruirsi un cristianesimo su misura basato su ciò che gli era sembrato di capire dai suoi studi privati.

La Chiesa, insomma, ritenne più prudente far sì che lo studio della Bibbia fosse mediato dalla presenza di un sacerdote: una scelta estrema che pare certamente discutibile agli occhi di noi moderni ma che, all’epoca, non era poi così inconsueta.

Dopo un primo momento di grande entusiasmo, nel quale era stato suggerito ai fedeli uno studio biblico diretto e privo di intermediari, persino molti riformatori protestanti (!) cercarono di ridimensionare il fenomeno: a destare preoccupazione, furono in particolar modo le rivolte contadine scoppiate in Tirolo nel 1524 e alimentate da visioni religiose differenti sorte in seno alle stesse Chiese riformate. Nel 1525, scottato da quell’episodio, Zwingli riservò l’interpretazione della Bibbia a individui adeguatamente formati; Calvino gli fece eco di lì a poco, suggerendo che la meditazione sulle Scritture fosse riservata a quei fedeli che erano in grado leggerle senza rischio di fraintenderle. Persino Martin Lutero, che nel 1521 aveva proclamato un eloquente «tutti i cristiani si applichino in assoluta libertà alla sola lettura delle scritture sante», tornò sui suoi passi nel 1543, definendo comunque preferibile uno studio mediato dai ministri di culto.

INQUISITION
Tableau représentant Galilée face à ses détracteurs, par Cristiano Banti ((1824–1904).

I Riformati allentarono gradualmente la presa, la Chiesa cattolica invece no

Naturalmente, i Riformatori non andarono oltre queste brevi annotazioni e non si spinsero a un divieto vero e proprio: anzi, col passar dei secoli questi timori iniziali vennero completamente dimenticati.

Tutto il contrario accadde in seno alla Chiesa Cattolica, che – come dicevamo – optò per una proibizione netta e portata avanti con rigore: solo nel 1758, per volontà di papa Benedetto XIV, fu eliminato il divieto di leggere la Bibbia nelle lingue nazionali; poco tempo dopo, nel 1776, fu data alle stampe una nuova traduzione in lingua italiana: a curarla, in questo caso, fu il vescovo di Firenze, Antonio Martini.

All’abolizione del divieto non fece seguito un immediato boom di acquisti. Fu solo nel corso del XX secolo che la lettura privata della Bibbia cominciò davvero a guadagnare popolarità nel laicato: un processo che, ovviamente, fu agevolato anche dalla crescente scolarizzazione e dalla pubblicazione di numerose edizioni economiche. Nel 1920, con l’enciclica Spiritus Paraclitus, papa Benedetto XV sottolineò l’importanza degli studi biblici e invitò i fedeli a familiarizzare in particolar modo con l’Antico Testamento (all’epoca molto trascurato dai laici, che preferivano concentrarsi sulla lettura dei Vangeli). Una raccomandazione che aveva ragion d’essere, e che fortunatamente fu ascoltata: in fin dei conti, occorreva recuperare due secoli di arretrato. E con gli interessi!